Caro Professor Giaconi, rieccoci a parlare di caviale iraniano. Come si passa a un tavolo iraniano dal discutere di caviale a capire la politica di prima mano?
Con estrema facilità. Mentre si trasvola da uno Shami, polpette di carne e farina di ceci, ai Nun Berenji, biscotti di riso, si lancia lì una osservazione su un fenomeno secondario, come può essere la coda a un cinema, e da lì l’interlocutore, che capisce che vuoi iniziare a parlare di cose serie, entrerà da solo in medias res. Il resto viene sempre da solo, ma è importante che l’ospite conosca bene le regole del galateo locale, essenziali, e soprattutto un pochino, ma se è di più è meglio, della tradizione sapienziale e esoterica sciita. Mai entrare da soli nell’argomento “serio”, è un atto cafonissimo, per loro. Ma, soprattutto, citare i poeti. Hafiz in particolare. Avranno grande piacere, gli astanti iranici, a sentire che sai che la tradizione del Graal cristiano viene “dal calice-che-vede-il mondo” Giam, di proprietà dell’omonimo re iranico. Per chi, come me, sapeva anche citare Bausani, l’iranologo principe dell’accademia italiana, c’erano applausi silenziosi, anche se Bausani era un Baha’i. La loro rivoluzione, nel 1979, ha subito scorticato vivo, senza por tempo in mezzo, il governatore della banca centrale iraniana, che era appunto un Baha’i.
Chi erano gli uomini giusti per farlo?
Un grande generale dei Carabinieri, di cui non farò il nome, qualche studioso serio, ma in collegamento con le Strutture, alcuni grandi imprenditori, spesso anche coltissimi di cose sapienziali, ma di solito anche i boiardi di Stato, come li definì molti anni fa lo stupidino “Espresso”, qualche grande diplomatico che, in un caso, in Iran ci ha anche trovato una bellissima moglie. Tutta gente che, con il regime degli Ayatollah, parlava direttamente, senza filtri (quasi tutti parlavano bene farsi) e si facevano rispettare moltissimo. Come ai tempi in cui, a Beirut (allora il Centro mediorientale del SISMI era lì) il colonnello dell’Arma Stefano Giovannone poteva entrare, senza particolari controlli, nella stanza privatissima di Yasser Arafat, a Ramallah. C’è stato anche chi, tramite Pyongyang, ha fatto liberare alcuni giornalisti francesi. Poi, alcuni ragazzi che sapevano bene la condizione locale, e che facevano da portaordini.Sono pochi quelli che sono davvero rispettati e, talvolta, perfino amati dall’avversario. È solo un problema di carisma soggettivo e, soprattutto, di brevitas. Molti, tra questi esperti di Iran amici dell’Iran, e rispettati come tali, erano stati allievi, all’Orientale di Napoli, di Pio Filippani Ronconi che, ricordiamo, fu ospite d’onore dello ShainSha Pahlavi durante la festa dei 2500 anni dell’impero persiano, nel 1971. I Pahlavi amavano molto Filippani Ronconi.
Lo immaginavo che saremmo arrivati a lui, a Pio Filippani Ronconi. Ce lo sintetizza con una frase lancinante?
Un uomo che aveva avuto l’illuminazione dell’Azione e talvolta le confondeva, l’Illuminazione e l’Azione. Ma che è stato un Maestro impareggiabile di ascesi e di sapienza. Pure se “dritto tra le rovine”, per dirla con Evola.
Lei ha assistito ai suoi funerali a Roma nel 2010? L’ha mai incontrato di persona?
No, non ho assistito ai suoi funerali in rito ortodosso, a Roma, lo conoscevo pochissimo, ci ho parlato, e solo di ascesi, due sole volte. Avevo però amici all’Orientale di Napoli che lo seguivano e lo veneravano, ma non l’ho mai frequentato stabilmente. Non vado mai ai funerali degli amici, comunque. Anche se non potevo comunque considerare Filippani Ronconi un amico personale.
In vita cosa fece degno di essere ricordato? In guerra e in pace…
Un grande maestro per la meditazione, le sue tecniche, i suoi fini, poi c’era la percezione, comune a tutti quelli che lo avvicinavano, del suo carattere straordinario, modellato in infinite prove, più sottili di quelle, ben note, politiche, inoltre gli studi, alcuni ancora da leggere, per esempio, il suo Regalità Iranica e Gnosi Ismailita, ancora essenziale per capire il nesso tra “nascosto” e “visibile” nell’iniziazione sciita, poi ancora quello su Zarathustra e il Mazdeismo, mentre è ancora rivelatore il suo testo sul Buddhismo, oltre al successivo Le vie del Buddhismo, ancora essenziale per la meditazione che diviene naturalmente azione. Ho poca stima per tutta la tradizione di Scaligero e del suo gruppo, troppo steineriana, che Filippani Ronconi frequentò, ma non bisogna nemmeno dimenticare la presenza di Filippani Ronconi nelle SS italiane. In gran parte fu una tragedia personale, anche se non bisogna nascondersi l’errore del Nostro nel confondere un regime da sempre piccolo-borghese, cialtrone e criminale, con l’Imperium che avrebbe raddrizzato l’Europa. Errori tipici dei mistici, questi. Ma anche errori indotti dalla situazione: chi si meravigliava, giustamente, della fuga di un Re, che aveva lasciato senza ordini le Forze Armate e la stessa società italiana, con il grido truffaldino di un truffatore, Badoglio, “la guerra continua”, con ben due Armistizi con gli Alleati che non avevano prodotto, come sarebbe stato ovvio, nemmeno un cessate il fuoco, ecco, chi è andato verso la Repubblica Sociale e le SS italiane ha, almeno, l’attenuante di conoscere, diversamente dai savoiardi, cos’è l’onore. Che è tutto.
Quanto alle letture di prima mano di suoi libri o articoli, cosa gliene rimane oggi?
Molto a me, ma moltissimo a tutti se li si leggesse ancora. Mi viene soprattutto in mente “Anima Spada, Anima Libro”. Una storia perfetta del rapporto tra iniziazione “guerriera” e apertura alla Verità spirituale, che si raggiunge, proprio come se fosse una guerra, dopo che si sono superate prove non certo più facili di quelle stesse guerriere. Oggi la gente vuole solo l’“olio lenitivo” che Nietzsche vedeva colare sui “cinesini”, gli uomini futuri, tutti omogenizzati verso il basso, nella democrazia dell’imitazione, talvolta obbligatoria, dell’umanoide. Una sua lezione, alla quale assistetti, casualmente, all’Orientale, parlava di Zarathustra, che il povero Nietzsche aveva infatti letto poco e male. Ronconi ci parlò del fatto che l’uomo realizzato, colui che si rende consapevole del fatto che la situazione esteriore è simbolo di quella interna (non dico interiore, qui la cosa è più ampia) inizia, che lo voglia o no, ma lo vuole sempre, dopo che se ne accorge, il suo viaggio verso la terra dei primordi, lo spazio che è solo luce. Che cos’è Allah, anche nell’“esteriorità” letterale del Corano? “Luce su Luce”. Nel mondo di luce, che si può sperimentare con l’iniziazione profonda, legata alla Tradizione, un giorno dura un anno e la morte non v’è. Ed è qui che si sperimenta la dualità del mondo, dell’essere dell’anima. Sul buddhismo, Filippani Ronconi aveva spiegato, a un ben altro livello che quello sul buddhismo usa-e-getta della pop-culture, che esso è un lunghissimo cammino, che non si ferma nemmeno con la morte soggettiva, verso l’ascesi, termine chiave per lui, e la meditazione, una prassi (ripeto, prassi) che deve liberare l’uomo dal male, e da tutta l’inutilità che ci portiamo addosso dalla cosiddetta vita materiale, e oggi sappiamo davvero di cosa si tratti. Mi rimane molto dalle letture, vecchie e nuove, dei testi di Filippani Ronconi. Ma anche dai pochissimi incontri che ebbi con lui. Un Maestro si vede subito. Un banale professore, si vede dopo, solo quando ti ha tradito.
In estrema sintesi, in quale ambito operativo Filippani Ronconi diede i suoi migliori servigi? Immagino in ambito estero se è vero che in politica interna si rischiava di rimanere impastoiati…
Fu un ottimo canale con l’Iran, che ben conosceva e con cui aveva rapporti strettissimi, sia nel popolo che nelle classi dirigenti. Dopo la rivoluzione degli ayatollah, continuò ad essere rispettato in loco e, da uomo dei servizi, sia italiani che atlantici, ebbe ruoli di rilievo nelle trattative con tutto il mondo iranico e, talvolta, con quello indiano. Era rispettato e riconosciuto da tutti, poteva aprire tutte le porte. Tendo qui a trascurare la sua partecipazione al famoso convegno dell’Istituti Pollio all’Hotel Parco dei Principi, dove peraltro allora si mangiava malissimo, sulla “guerra non-ortodossa”. Il suo intervento è geniale, ma totalmente impratico. I suoi rapporti, stabili, con il Servizio furono da esperto, selezionatore, tramite volontario e prestigioso con mondi lontani.
Quanto alle sue conoscenze di buddismo, cerchiamo di fare chiarezza. È vero che la sua espressione storicamente più compiuta, anche se territorialmente circoscritta, è il buddismo tibetano e non quello indiano?
Per Filippani Ronconi era probabilmente il buddhismo tibetano, anche se non amava l’organizzazione esplicita e evidente di una dottrina iniziatica, che deve rimanere, appunto, materia per iniziati. La Potenza vive solo di nascosto, come recitava un portachiavi, trovato chissà dove, che stava sempre sulla sua scrivania di casa. Però, tutta la Sapienza di Filippani Ronconi era volta soprattutto all’Iranismo iniziale, tra il Mazdeismo e le tradizioni di Zarathustra, che poi si trasferiscono, era questo uno dei suoi ultimi interessi, nello sciismo.
Se vedo bene, Filippani Ronconi era in dissidio con Evola per quel che riguarda il tantra.
Il Tantra, quello della Grande Liberazione, spiega le tecniche meditative tali da superare sia la natura che il famoso Kali-Juga, l’“età oscura”. Con il sadhana, la disciplina spirituale, si compiono opere di conquista del mondo, e ciò ci fa ottenere i siddhi, i vari poteri magici che attengono all’uomo che ha superato la semplice condizione umana. L’uomo del Kali-Juga è in stretto contatto con il suo corpo visibile, che gli sembra esterno, come si può ben vedere in questa età oscura, l’attuale. Nei Tantra c’è, per Filippani Ronconi, un rovesciamento di tutte le pratiche repressive proprie della meditazione, per favorire la Liberazione, ma per Evola il Tantra era solo una parte dello Yoga, quello “della potenza”, e quindi si interessava poco degli aspetti autentici e autonomi del Tantra. Che dipende secondo Evola, ma non è vero, dalla meditazione buddhistica e Yogi.
E sul Nagarjuna? Che idee si era fatto riguardo l’apoteosi del nichilismo buddhista, quello che capisce che l’unione dei contrari non è l’uno e l’altro, ma né l’uno né l’altro?
Per Nagarjuna, che accetta tutti i criteri del buddhismo del Grande Veicolo, vale il criterio, fondamentale, dell’“impermanenza” di tutte le cose, con un argomento para-logico che ci ricorda alcune teorie di Severino: se affermiamo che esiste A, implicitamente affermiamo anche non-A, ma per Nagarjuna si va anche oltre: i fenomeni, tutti i fenomeni, sono del tutto “vuoti”, privi di una qualsiasi loro identità, nessuno di essi ha una natura indipendente dagli altri, esiste dunque solo il “vuoto”. Ma se il mondo esterno è sensibilmente reale, allora non si può non procedere, per Nagarjuna, con una sorta di dialettica negativa in cui il mondo è insieme reale e irreale, e quindi si utilizza un tetralemma per cui si tende a distruggere la realtà di ogni concetto, di ogni costruzione mentale. Per poi ricostruirla in un altro ambito. Anche la ricostruzione mentale di tipo buddhista. La Liberazione propugnata dal Buddha è proprio la scoperta dell’impermanenza. Ma, per Evola, questa instabilità del mondo è il punto di arrivo della Rivelazione che solo la Potenza dell’Uomo Differenziato può arrivare a possedere; per Filippani Ronconi è invece la Rivelazione, del Vuoto, anche dell’Uomo come tale.
Insomma il nichilismo di Nagarjuna è una discesa vertiginosa nella distruzione dell’Io. Come si concilia questa pratica, dove la via supremamente scelta è la compassione, con una vita attiva di violenza (al limite)? Come la mettiamo insomma col fatto che tutto il Tibet è protetto da Avalokiteśvara, dalla forma del Buddha più compassionevole di tutte?
Avalokistesvara (il signore che guarda in giù) è un bodhisattva che opera ai limiti dell’India, verso l’Himalaya, ma che è stato avvicinato, da alcuni studiosi, alla tradizione iranica, è la figura della Misericordia, ma è una figura dalla “mille braccia e undici volti”, la sua decima testa è demoniaca, solo per spaventare i demoni, ma egli può anche apparire solo come un demone. Il buono e il cattivo, nel senso terrestre del termine, non hanno alcun rilievo nel buddhismo Mahayana. Nel Tantrismo, l’unità nella dualità di Avaloikitesvara è l’unione di una figura maschile e di una femminile, il che certifica l’autonomia totale del “signore che guarda in giù” dalla massa degli umani non-illuminati. Per capire il tema lamaista tibetano, è sempre bene ricordare il passaggio di Milarepa dalla magia nera a quella bianca, perché la potenza è una sola, ma il suo modo di uso, per l’illuminato, è uno solo, ed egli deve saper usare quindi anche la “via mala” per liberare gli “esseri di quaggiù” anche prima di arrivare alla sua personale liberazione.
Come mi avrebbe risposto Filippani Ronconi se gli avessi detto che si arriva alla compassione togliendo completamente l’io e la sua vanagloria?
Forse Le avrebbe dato ragione. L’Io, per Filippani Ronconi, era solo un impedimento o, per meglio dire, un errore di prospettiva. Tutto ciò che può venire di buono dall’uomo, anche se è già illuminato, viene da qualcosa che è ben più reale dell’Io, e ben più profondo, ma non nel senso dell’inconscio freudiano, quell’Io che è solo lo specchio dell’impermanenza.
Se togliamo l’io e ci rimane ‘solo’ l’insieme di relazioni tra cose che non ci sono (quindi le relazioni e basta) non finiamo nella stasi? Cioè, una volta entrati in quest’unica e universale corrente compassionevole e interdipendente, come si permane attivamente dentro l’illuminazione?
Le relazioni sono però ancora quelle tra l’Io, che non c’è già più, e le non-cose del cosiddetto mondo esterno. Per rimanere nell’illuminazione, bisogna mantenerla, ovvero compiere delle pratiche meditative, e non solo, anche fisiche, respiratorie, di movimento dei muscoli, etc. per permettere a questo flusso di immagini (non pensieri) che sembra arrivare dall’esterno, liberamente e senza vincoli. La compassione deriva dal fatto che proprio l’Illuminato è dentro questo flusso da solo, e che comunque non può liberare sé stesso dai residui corporei, psichici, para-razionali senza liberare, contemporaneamente, gli altri dagli stessi vincoli. Tat-Twam-Asi, “così sei tu”…
In tempi di guerre batteriologiche cinesi – domanda secca. Come la vedeva Filippani Ronconi in tema Zen? Che poi è il modo usato dai Giapponesi per chiamare il Buddhismo cinese (Chan), arrivato dall’India e non dal Tibet…
Per quel che mi ricordo dalle letture dei suoi libri, Filippani Ronconi vedeva molto bene lo Zen, anche se rideva, lo si capiva tra le righe, del modo in cui era stato utilizzato dalle controculture giovanili pop e rock, due tra le più evidentemente contro-iniziatiche pratiche dell’occidente. Non si entra nel flusso meditativo “giusto” per liberare i propri istinti sessuali dalla “repressione”, roba che farebbe ridere fino alla morte un Illuminato orientale.
Parliamo infine di Karma: è difficile per un occidentale, ossessionato dalla ipersostanzialità del sé e dal proprio narcisismo senza compassione per altri che non sia lo specchio dello smartphone, capire che cosa sia il karma e, conseguentemente, la necessità di liberarsene: lo si è capito così male che si pensa che esso sia noi stessi che ora siamo noi.1, noi.2, noi. 3 fino a un infinito di segno positivo: terribile, soprattutto per l’universo. Giusto?
Il Karma è una relazione di causa-effetto, automatica e involontaria, che si instaura per ogni azione che venga compiuta in natura o che venga eseguita da noi o da altri. Dal Karma si passa al samsara, la ruota del ciclo della vita e della sua rinascita, che non si vede mai intera nella realtà dei singoli fenomeni, ma è il primo scalino, nel suo riconoscimento, della Illuminazione. Il tema del karma, come lo si dice nella tradizione buddhista indiana, è che “se vuoi capire le cause del passato, guarda i risultati che si manifestano nel presente, e se vuoi capire quali risultati si manifesteranno nel futuro, guarda le cause poste nel presente”. È ovvio che qui l’Io stabile, immobile, Sovrano, Unico, degli occidentali non ha alcun rilievo. La macchina del karma riguarda, evidentemente, anche l’Io-palo (lo chiamava così Carlo Emilio Gadda) dell’occidente di Narciso
In realtà il karma è la catena delle premeditazioni, azioni, effetti e conseguenze che hanno una forma ad albero dove vi è un tronco e innumerevoli ramificazioni. Questo tronco per i buddhisti tibetani è formato come da una catena di dodici anelli ed è giocoforza che le sue ramificazioni oltrepassino la durata fisica di una singola vita e si trasmettano ad altre. Per usare un’immagine: dal tronco principale, quello che ci riguarda immediatamente, una somma di eventi si riflette in via percentuale su una somma di eventi posteriori. Tanto più diretta è la linea genetica che collega quel gruppo di azioni con il gruppo di azioni successivo, tanto più semplicemente da un grumo si passa all’altro. Dico bene?
Si, dice bene. Forse, non sempre “in via percentuale”, come dice Lei, perché questo non lo possiamo sapere, nel momento in cui accade. Ciò che trapassa da una vita ad un’altra è, comunque, la possibilità della sua uscita dal ciclo delle nascite e delle morti, anche temporanea, quindi dal Karma, e quindi ancora la sua possibile illuminazione.
Faccio un esempio concreto: anche il grumo che siamo ora sta fondando il grumo che siamo ora, cioè pochi secondi dopo che stiamo parlando. Il karma perciò è questa interferenza tra grumi. Tenuto conto, però, che si tratta di riflessioni non alla portata di tutti, anche i buddhisti semplificano il discorso declinandolo in una sorta di teodicea molto simile a quella cristiana. Della serie: bambino, se fai il male incontrerai altro male, se fai il bene, la tua felicità aumenterà. Mandando così a spasso tutta la storia del ‘veicolo inferiore’… e con questo arriviamo al tantra: più sgamati, i buddhisti del livello tantrico (quello esoterico di Evola e Yourcenar) affermano, infatti, che tutto ciò non è così ovvio e quindi occorre pensare tre volte prima di agire. Meglio concentrarsi sulle motivazioni, renderle finemente chiare e poi tentare. Ma abbiamo subito una sorpresa: distruggiamo pure ogni impulso ma tanto come ci muoviamo un disastro viene sempre fuori. Tanto sono intricate le cose… non è così Professore?
No, non è l’interferenza tra i grumi, ma l’infinita serie, che però noi possiamo sentire e prevedere, di tutti i passaggi tra un grumo e l’altro. La teodicea buddhista non riguarda però tutti, ma solo gli Iniziati, che sperimentano, proprio come farebbe un occidentale nel suo laboratorio, la realtà dell’uscita dal karma. Ma ciò si conquista con una sintesi di volontà e sapienza (non con l’intelletto del razionalismo occidentale) e quindi il Tantra evoliano e di Marguerite Yourcenar si volge al lavoro interno per la preparazione alla distruzione dell’Io, più che alla sua realizzazione nella Liberazione.
Quando si sente dire che una farfalla sbatte le ali a San Francisco e a Tokyo viene un terremoto, i buddhisti del Sutra del diamante, quelli del livello tantrico, dicono che è proprio così, ed è soprattutto colpa vostra. Forse alla fine tutto questo non importa se agiamo in nome dell’azione. Basta tenere a mente che, quando le relazioni si ingarbugliano, gli effetti diventano cause e le direzioni si invertono, così come le logiche. E siamo punto daccapo allo Zen. Credo che Filippani Ronconi mi avrebbe bocciato. Però magari gli avrei strappato una risata in questa goffa divulgazione dei misteri orientali…
Non credo che l’avrebbe bocciata. Anzi, si sarebbe divertito di questa rielaborazione, molto soggettiva, del sistema dello Zen e del suo rapporto con il karma. Un saluto a Lei e ai lettori.
L’intervista a Marco Giaconi è a cura di Andrea Bianchi
*In copertina: Il corpo yogico in un manoscritto indiano del XIX secolo