26 Maggio 2022

Marchette tra colleghi. Onore al genio del genere: Antonio D’Orrico

«Poche pagine dopo, infrangendo un fondamentale comandamento narrativo(non si elimina mai un personaggio promettente all’inizio della storia), e beandosi di farlo, Cazzullo e Roncone ammazzano a bruciapelo il cardinale. Addosso al cadavere viene trovato un telefonino. Qui i due autori, dopo aver disobbedito ai comandamenti narrativi, ritornano all’ortodossia letteraria e rivolgono un reverente pensiero al maestro Dumas e ai Tre moschettieri. Come funziona lo straordinario romanzo di D’Artagnan & Co. che resiste al tempo e alle mode? Qual è il segreto della sua eternità? Semplicissimo: nei Tre moschettieri si racconta la storia di alcuni diamanti che devono essere recuperati pena la rovina della regina di Francia. Tutto qui. È una caccia al tesoro. Peccati immortali funziona con lo stesso meccanismo. Il telefonino trovato addosso al cardinale contiene fotografie di un’orgia molto hot che potrebbero provocare il finimondo in Vaticano e negli altri palazzi del potere. Il fatto è che intanto il telefonino è sparito. Chi ce l’ha? La caccia al tesoro comincia».

Antonio D’Orrico, “Corriere della Sera”, 21 settembre 2019

Come vedete, il segreto dell’eternità di un classico come I tre moschettieri è semplicissimo: basta dover recuperare un oggetto estremamente prezioso, come in una caccia al tesoro, e il gioco è fatto. Parola di Antonio D’Orrico, il famigerato book-jockey del “Corriere della Sera”, ovvero l’alfiere di quella critica-discount che da oltre un ventennio tira i fili dell’irrisolto demi-monde letterario nostrano. Non serve dirgli che di romanzi e film con al centro la ricerca di un oggetto inafferrabile sia pieno il mondo, e che la maggioranza di questi (fatti salvi capolavori come Il Signore degli Anelli) trapassi senza lasciare traccia. Per lui il giallo-thriller dei colleghi Aldo Cazzullo e Fabrizio Roncone, Peccati immortali (Mondadori 2019), pur disobbedendo al “fondamentale comandamento narrativo” del sotto-genere, si candida certamente all’immortalità dei capolavori.

Torniamo su questi temi perché abbiamo ricevuto nuove osservazioni sul nostro discorso intorno al recensionismo nostrano contemporaneo di cui ci siamo occupati. È vero, come ci viene fatto notare, che esistono le recensioni filo-autoriali e quelle conniventi, nonché le perniciose auto-recensioni incensanti, quelle che hanno aperto un baratro davanti alla narrativa italiana; ma esistono anche – e prosperano – le cosiddette recensioni aziendali, ovvero le marchette intra moenia, quelle con cui i giornalisti, spesso dotati di un certo potere, promuovono i capricci letterari dei colleghi della stessa testata, trasformando le pagine culturali di quest’ultima in una specie di house-organ mascherato.

Negli anni questo squallido filone si è ben sviluppato, al punto da esser divenuto una specie di prassi indiscutibile, soprattutto nei giornali più importanti. Il caso introdotto in epigrafe è fra i più rappresentativi per la visibilità che un giornalista navigato come Antonio D’Orrico riesce ancora a mantenere nel nostro sistema mediatico, restandovi saldo come pochi altri. Come sappiamo, fu lui a inventare un nuovo tipo di “critica” letteraria, apparentemente trasgressiva e spiazzante, che, con stroncature sbrigative o esaltazioni improbabili di amici, colleghi e personaggi protetti – spesso improvvisatisi scrittori – attirava l’attenzione delle altre testate giornalistiche, costringendole a rispondere con contro-giudizi che andavano ad alimentare la polemica e creavano l’effetto-risonanza a cui egli puntava. Un’abilità manipolatoria difficilmente eguagliabile, la sua, che per lungo tempo ne ha fatto un personaggio di tutto rilievo. La sua capacità di influire sulle classifiche di vendita e sulle scelte del mercato venne definita marketting, quasi un marchio di fabbrica: l’applicazione mirata di tecniche del marketing alla diffusa pratica giornalistica incline a promuovere amici, colleghi e protetti. Una specie di arte “marchettara” che all’epoca veniva presa maledettamente sul serio.

Per meglio definire il marketting, nella sua capacità – oggi depotenziata – di creare un rumore mediatico che porta profitto, si può citare un esempio emblematico, uscito sul Magazine del “Corriere della Sera” il 16 marzo 2006. Qui D’Orrico annunciava in sei pagine di incensamenti e anticipazioni di aver scoperto “il nuovo Nabokov”, celato sotto lo pseudonimo di Paolo Doni, autore del romanzo Ci vediamo al Bar Biturico edito da Guanda, e si premurava di negare ogni ipotetico favoritismo che gli fosse stato imputato dai maligni:

«A questo punto sento già l’obiezione, anzi la duplice obiezione. Eh no! Prima levocazione di Lolita, addirittura sbattuta in copertina. Poi il trucco dello pseudonimo che scatenerà i cronisti alla caccia del vero autore. Qua nessuno è fesso, questa è una preordinata manovra di marketing. In una parola: un vero e proprio complotto. Giuro su quanto ho di più caro al mondo (la testa di Philip Roth) che non è così. La scelta di griffare Ci vediamo al Bar Biturico con uno pseudonimo è dovuta a ragioni sintetizzate dal vecchio adagio: “Chi si ferma è perduto”».

Come vedete, questa simpatica verve era il punto di forza di D’Orrico, una dote (come il facciabronzismo che non l’ha mai abbandonato) che lo faceva cadere sempre in piedi. Infatti, com’era da aspettarsi, il “nuovo Nabokov” era il suo amico e collega al Corriere Giuliano Zincone, di cui D’Orrico si era fatto sponsor, portando addirittura il dattiloscritto all’editore che aveva deciso la pubblicazione – come disse in un’intervista a “Il Mattino” – «Anche perché oggi si trovano autori italiani sempre più interessanti e c’è una situazione più in movimento, grazie anche agli stimoli della critica». Naturale: erano gli “stimoli” della critica-marketting dorrichiana, quasi un marchio registrato.

Ma oggi questo gioco si è fatto scoperto, non serve più simulare: così, i colleghi di punta del “Corriere della Sera”, Aldo Cazzullo e Fabrizio Roncone, diventano una coppia di romanzieri votata al successo con Peccati immortali, edito da Mondadori nel 2019. Duecentosessanta pagine che «portano il lettore nei bassifondi e nell’empireo della capitale, nei campi della mafia nigeriana e nelle feste dei padroni di Roma, sino alle stanze segrete del potere e in fondo agli abissi dell’animo umano», come tuona la promo diffusa in Rete. «Cazzullo e Roncone hanno ritratto il mondo di mezzo con perfetta alternanza di situazioni», dice il Venerdì di “Repubblica”. «Peccati immortali va letto e riletto perché, al pari di un rebus, s’illumina di significati ulteriori», istiga la Lettura del Corriere. Una mescolanza – ovviamente – di sesso, politica, perversioni, religione, criminalità, corruzione. Sul Corriere Antonio D’Orrico apre il fuoco con un richiamo in prima pagina che porta a due pagine nella sezione Cultura, col titolo “Romanzo capitale”, in una iper-recensione che si chiude così:

«Dopo Peccati immortali (un libro che asfalterà le classifiche di vendita), il giornalismo nazionale rischia di perdere due protagonisti. D’ora in poi Cazzullo & Roncone (onoriamoli con la “e” commerciale, se lo meritano) saranno una coppia fissa letteraria. Categoria? La più chic (ma anche pratique): quella del bestseller di qualità».

Tutte parole al vento, visto che il successo non c’è stato e la “coppia fissa” è fallita. Partiamo dunque dagli elementi della trama di questo Peccati immortali. «Di scatto infilò il telefonino sotto la tonaca. L’avrebbe aperto ed esaminato, con calma, più tardi. Conoscendo il cardinale, era preparata al peggio. Ma quello che avrebbe visto da lì a poco era più nero dell’abisso più fondo che potesse immaginare». A Roma, il governo di Salvini è caduto dopo che un barcone di migranti è affondato davanti a un porto chiuso. Salgono al governo il Partito Democratico e il Popolo dell’Onestà, con un premier debole, così il nuovo ministro dell’Interno cospira per prendere il potere. Ma arrivano il cadavere del cardinale Michelangelo Aldrovandi e un telefonino con quattro foto che compromettono il leader emergente del Popolo dell’Onestà. Il telefonino, ovviamente, viene rubato, e qui si scatena la caccia al tesoro. “Per quelle foto, che possono far saltare il governo e il Vaticano, si tenta di uccidere. Si uccide. Ci si uccide. Sulla scena compaiono i servizi, i gendarmi del Papa, un vecchio senatore che sa tutto di tutti, un killer con uno strano vizio e un peso sulla coscienza. E compare una ex spia, Leone Di Castro detto Gricia per la sua voracità, che con suor Remedios forma una coppia di investigatori sottovalutata e quindi sorprendente”.

Fin qui il promo. Ora vediamo come si sviluppa l’inno dorrichiano ai “nuovi Fruttero & Lucentini”.

“In Peccati immortali, il romanzo di fantapolitica in uscita da Mondadori scritto dall’inedita coppia Aldo Cazzullo e Fabrizio Roncone (firme che i lettori del «Corriere della Sera» conoscono bene), c’erino [espressione flaianesca, NdR], invece, per riprendere la lista di Flaiano: Fausto e Lella Bertinotti (corrente Comunisti presenzialisti), Ugo Sposetti, Roberto Calderoli, Paolo Romani, Maurizio Gasparri, Pierferdi Casini, Clemente Mastella, Matteo Salvini (ministro dell’Interno costretto alle dimissioni su sollecitazione simultanea del Quirinale e del Papa) e Matteo Renzi (nel romanzo come nella realtà fresco fondatore di un nuovo partito: ormai la fantapolitica è direttamente politica). La nomenclatura, cioè, della Prima, Seconda e Terza Repubblica”.

Qui restiamo davvero perplessi. Se questa è narrativa d’evasione (e sfidiamo chiunque a dire che non lo è), chiaramente il lettore vuole evadere, vuole di-vertere, divertirsi, vuole allontanarsi dai pensieri della realtà quotidiana e dalle sue infestazioni mediatiche. E qua, invece, vengono offerti i personaggi veri, quelli stessi che occupano i giornali e i telegiornali, quelli che ci assediano quotidianamente senza requie, per di più intenti alle stesse cose che fanno nella realtà. Ci si rende conto della scemenza? Invece di raccontare una grande storia avventurosa, ci viene servita la rimasticatura di una realtà politica che è già caricaturale di suo, quindi chiediamoci che senso può avere la caricatura di una caricatura: come evocare un grottesco al quadrato.

“E poi, nella tribuna d’onore dell’Olimpico (gioca la Maggica), c’erino gli habitué: Massimo D’Alema, Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola, Sabrina Ferilli (con Flavio Cattaneo), Claudia Gerini, Giovanni Malagò (che ha lasciato il Coni per diventare presidente della Roma), Francesco Totti e Enrico Vanzina in un irresistibile cammeo”.

Irresistible cammeo? Enrico Vanzina? Quello dei cinepanettoni? E anche Massimo D’Alema, Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola, Sabrina Ferilli, Claudia Gerini? Quindi gli stessi personaggi della romanità stantia, quelli che ci vengono somministrati di continuo dalla televisione pubblica e dal cinema finanziato ora ci vengono ributtati addosso esattamente come sono?

“Peccati immortali è un libro multitasking. Romanzo a chiave (chi sarà mai Veronica Grassi, «giornalista di scrittura modesta, ma con una diabolica capacità di stare nell’intrigo, e di intrigare»?)”. Non lo sappiamo, D’Orrico, non osiamo nemmeno pensare chi possa essere Veronica Grassi, la giornalista modesta, e dove s’infila la chiave, non c’interessa, non lo vogliamo sapere! “Manuale di cucina (ricetta della pasta alla gricia, piatto che, come si sarà capito, ha un ruolo non minore nella vicenda: pecorino romano, guanciale salumificio Sano di Accumoli, spaghettoni del pastificio abruzzese Mancini). Guida all’happy hour romano. L’aperitivo giusto? Dipende. Se Negroni, al Locarno; se Martini, all’Inghilterra (sembra quasi di rileggere Hemingway: «Il mio daiquiri al Floridita, il mio mojito alla Bodeguita»)”.

Sembra quasi di rileggere Hemingway? A questo punto siamo sconvolti. Prendiamo aria, cerchiamo di riordinare i pensieri: partiamo dal concetto – chiaro a tutti – che un romanzo a chiave è un romanzo fallito. Ma qui diventa peggio: happy hour romano e i suoi derivati; Matteo Renzi, Maurizio Gasparri, Roberto Calderoli. E anche Pierferdi: cioè, Pierferdi, capite? E non è tutto, perché andando alla recensione del Corriere spunta in video la faccia di Gianrico Carofiglio, con la didascalia: “Un frammento del capitolo di «Peccati immortali», letto dall’ex magistrato, in cui entra in scena il protagonista”. Qui non sappiamo davvero che dire, siamo raccapricciati. “La voce dell’ex magistrato per un frammento del romanzo fantapolitico di Aldo Cazzullo e Fabrizio Roncone” si legge sotto, mentre scorrono quindici secondi di pubblicità che non si riescono a saltare.

Non si capisce se sia tutto vero o ci si trovi in un sogno balordo. Di fatto le cose sono lì, chiare e tangibili. A cominciare dal libro, col suo incipit: “Essere immortali è facilissimo. Tutti gli animali ci riescono. Tutti, tranne l’uomo: l’unico che sa che deve morire. Il cardinale Michelangelo Aldrovandi amava compiacersi dei propri pensieri, davanti allo specchio, dopo la messa, mentre si cambiava per andare a donne. E magari fossero state solo donne”. Ecco che nelle prime righe si profila l’ombra dei diavoleschi trans.

“Celebrare messa gli era sempre piaciuto. Celebrarla, non dirla. Le omelie lo annoiavano. Per essere bravo, era bravo: sapeva far piangere, ridere, pensare; e spaventare, se veniva. Ma l’essenza della messa è il gesto, il paramento, la schiena rivolta ai fedeli inginocchiati. Meglio ancora le fedeli, che adoravano quel principe della Chiesa alto, potente, sprezzante; con l’espressione di chi non ha mai passato una notte in un divano letto. I vescovi comunisti che al Concilio avevano girato il celebrante verso la folla, spalle a Dio, non avevano capito niente (uno dei motti con cui il cardinale amava scandalizzare le anime buone era che «i poveri hanno rotto i coglioni»)”. “Sorella Remedios era la ragazza più pura che avesse mai incontrato; e al cardinale la purezza procurava un brivido di perversione. Ogni volta ricordava a Remedios con tono di rimprovero che non gliel’aveva mai data, vedeva il rossore degli inizi mutarsi in fastidio, diceva a se stesso che talora esagerava; ma esagerare era il vero lusso che si era preso nella vita”.

Naturalmente non intendiamo recensire questo romanzo, perché ci stiamo occupando di altro. Diciamo solo che la trama è falsa, nel senso che è talmente artefatta da risultare implausibile: artefatta soprattutto nella costruzione, che rivela la sbrigatività con cui è stata assemblata, senza curare nemmeno le giunzioni. Accorpare diversi elementi – che di per sé potrebbero essere suggestivi – senza esserne capaci non può dare un risultato d’insieme. Lo schematismo dei personaggi ricorda le squalificanti prodezze veltroniane “di genere”, le scene dentro e fuori i palazzi del potere sono evidentemente posticce, così come l’agire dei personaggi reali, che per il semplice fatto di essere fin troppo noti perdono qualsiasi credibilità. I passi in cui si esibisce un linguaggio forte sono privi di spessore, al punto da risultare semplicemente volgari. L’intera operazione risulta fallimentare, su questo non c’è dubbio. E la spacconata con cui D’Orrico conclude la sua marchetta intra moenia (“un libro che asfalterà le classifiche di vendita”) non può convincere nessuno, perché un romanzo concepito così, con tali carenze che ne indeboliscono la struttura e con l’appeal fissato su un presente di così scarsa consistenza da diventare superato nel giro di poco, non ha senso. Lo stesso mescolare personaggi inventati a persone reali tende a sconcertare il lettore medio, anche quello che beve tutto: nemmeno a questo si è stati abbastanza attenti.

Visto che il parterre di politici ritratti sparirà presto e il Popolo dell’Onestà pure, anche questo romanzo-bravata si dissolverà nel niente, a prescindere dal presenzialismo televisivo degli autori e dalla loro occupazione di una fetta dei media. È ovvio che costoro seguiteranno a esercitare il loro potere per ricavarne tutto il profitto possibile, senza saziarsi, sfruttando la prerogativa di un potere professionale che deve resistere e auto-confermarsi, finché i media che li nutrono resisteranno. Ma di queste marchette non resterà nulla, meno di zero.

Gruppo MAGOG