21 Giugno 2021

Quando Schwob trasformò l'amore per una prostituta in fantasma infantile

Marcel Schwob è stato un grande della letteratura francese nel senso dell’aggregazione di forze linguistiche che seppe convogliare attorno a una lingua aulica in direzione d’uso, d’argot, di recupero gergale (Villon) e anglosassone (traduzioni da Defoe, da Wilde e Stevenson).  Ma con questo non si esaurisce – anzi – la sua verve di scrittore che si brucia, nel più classico dei modi, sul crinale dei trent’anni.

L’opera massima, per vigore lanciato quasi contro il decoro del sentire comune, è Il libro di Monelle che sarebbe riduttivo etichettare come il compianto del buon passatista di origine ebraiche sul tempo che fu, sull’amore interrotto di Schwob per una prostituta che, ci spiegano i biografi, esistette realmente se pur con altro nome rispetto a quello del breve libro del 1894: anno in cui Schwob un lavoro propriamente detto non l’ha ancora, a onta dei 27 anni e di un diploma in lingue sanscrite alla Ecole des Hautes Etudes (la stessa della buona medievistica).

Schwob si porta dietro, a ben vedere, una cicatrice privata o meglio personale in quel libretto su Monelle che mi sembra più elevato benché stilisticamente antecedente – con quella nostalgia realistica in più – alla Crociata degli infanti e ancor più bizzarro e notevole, a maggior ragione, se vien paragonato alle troppo note e quindi bistrattate Vite immaginarie. La cicatrice, il difetto originario e parziale di Schwob dicevo, consiste né più né meno che nell’aver fallito il concorso di ammissione alla Scuola Normale di Parigi a diciassett’anni. Certo l’altra Ecole in cui entrò non era da meno ma aveva un taglio meno ufficiale, certamente non statualizzato, rispetto alla Normale di Francia.

Penso sia questa la carenza originaria di un autore che è in grado di passare in un giro d’anni tutto sommato cavalcati velocemente, tra i 24 e i 26 anni, da quei raccontini del Re dalla maschera d’oro, dai Mimi e dal Cuore doppio, ritagliati sul grande amore Stevenson, fino al capitombolo sul fantasma di Monelle.

Ora Monelle non è altro che una prostituta: nel libro parla come una bambina di 13 anni e forse anche come fosse una ragazza di 14, ma nella realtà non ci scandalizzeremo se il biografo ci informerà che l’alter ego di Monelle era una ventitreenne e perciò una donna pressoché coetanea di Marcel Schwob. Quindi senza sfoderare l’arsenale lubrico dei grandi e meno grandi che si accompagnarono appunto con donne d’alto bordo o infimo rango (mai si dice abbastanza del divorzio di Dickens e del secondo matrimonio con una “ballerina”), val la pena di riflettere su quella riduzione a ragazza della donna che si è amato.

Schwob non si appoggia a parapetti e nel libro lo dice chiaro e apertamente che Monelle gli intima di non cercarlo più, che l’unico modo che lui avrà per ritrovarla è appunto perderla: è evidente che il gioco all’infanzia, rispetto a Stevenson, si è fatto più dimesso, stritolato nelle spire di una costrizione della storia che manda al macello i bambini – è qui che la crociata medievale degli infanti si fa emblema di una condizione non recuperabile, nemmeno nella forma del gioco, dell’acrostico steso su due pagine per recuperare una vita immaginaria.

Mi sembra del tutto evidente, allora, che il mancato incontro a Samoa tra Stevenson e Schwob si carichi di un significato ulteriore: il ponte tra Otto e Novecento si è rotto ed è come se fosse stata proprio la letteratura per l’infanzia a farlo saltar per aria.

Quanto detto sin qui non deve sembrare elegiaco: la realtà dei fatti è abbastanza eloquente perché dopo Le vite immaginarie, licenziate per la stampa a 29 anni, Schwob sostanzialmente si ritrae nella sua ombra per meglio prolungarsi nel Novecento. Non è un dettaglio da poco che uno dei suoi ultimi testi / corsi fosse frequentato proprio dagli araldi di un surrealismo che nel 1904 era ancora da definirsi nel senso di scuola, benché adunasse intorno a sé gente come Max Jacob, Paul Fort e un certo Pablo Picasso. Quel che conta per noi è che con quel testo finale, di taglio propriamente storico su Villon, Schwob chiude il cerchio e rientra nella finzione da cui tutto sommato non era mai riuscito a evadere: nemmeno con quello strumento che maneggiava sapientemente, la lingua francese d’uso volgare.

La qualità di sogno, di rientro in un passato vissuto con nostalgia, è quel che ha fatto di Schwob sia lo studioso di Villon che conoscono gli eruditi disattesi sia, ben più interessante qui, il recuperatore di un passato arcano, preverginale: non per nulla il suo traduttore inglese ha confidato nel 2013 alla Paris Review di esser partito a tradurre Il libro di Monelle dopo essersi imbattuto a una prima lettura in frasi tese come corde di violino sul genere di: “E Monelle disse ancora, Ti parlerò ancora di una cosa tra un momento e Ama il momento, il solo amore che dura è l’odio.” A detta del traduttore inglese questo è adolescenziale e non si riesce però a dargli ragione del tutto.

Ma tant’è: Schwob visse negli archivi, studiò lingue – letteralmente – morte eppure oggi lo si ricorda per un libro di commiato da una prostituta / amante che gli dice che lui non è diverso dagli altri perché solo lei può durare: un colpo atroce sulla maschera fissa di Schwob e su quel suo volto che nelle foto appare sempre teso da una percezione ben avvertibile di disfatta per non aver scritto nessun romanzo – disfatta uguale e di segno opposto al mancato ingresso alla Normale di Francia che perlomeno gli avrebbe dato una cattedra al liceo o magari una scrivania lucida in qualche distaccamento del Ministero della Marina.

Il suo destino e la sua gloria hanno voluto che di lui si parlasse come dell’autore del Libro di Monelle benché lui cercasse credito per altri lavori e altre scritture – eppure era solo quel libro sull’altra a rivelarlo pienamente proprio perchè lì cercò di essere del tutto assente. Per una volta mancò di compiere l’incantesimo della citazione perfetta, della pagina lastricata di periodi altrui – come un vero antesignano di Borges, ma con meno scialo di tango – tutte maschere incollata l’una sull’altra, prese a prestito non si sa con che data di scadenza.

Era come se credesse, ha notato giustamente il suo ultimo traduttore inglese, che “la vita personale e quella dello studioso fossero identiche nella prassi, sebbene destinate a rimanere separate sulla pagina: è per questo che Monelle è l’unico suo libro dove l’autore non riesce a esser prudente, è l’unico libro che sembra rivolgersi alle sue esperienze personali oltre gli studi”.

Se poi Monelle sembrerà un libro “di compianto, di quelli che iniziano a opera della felicità e che, per la forza delle circostanze, declinano nel lamento” questo avviene – ci avvisa ancora una volta il traduttore – perché la composizione del libretto deve molto alla cronologia di Schwob in carne e ossa: una caduta, una cascata totale, di modo che Monelle è “la ridisposizione anestetizzata per via estetica di un’esperienza vissuta. In tutto Schwob, fin dai primi racconti, si affaccia sempre una lotta permanente contro la perdita intesa come qualcosa di inevitabile”.

Tanto che possiamo prender per buone ancora oggi le parole con cui si chiude il libro per l’amica che rispondeva al nome di Luise e che si ripercuote al suono nitido di un triangolo, lieve ma pericoloso, fin dalla dedica del libretto: “Monelle! gridai, Monelle, lei è nel regno che è chiarezza! E il regno della chiarezza apparve barricato dal bianco. Poi domandai E dov’è la chiave per questo regno? Ma colei che mi stava parlando rimase silente”.

Andrea Bianchi

*in copertina Giugno in fiamme di Frederic Leighton (1895) conservato al Museo di Ponce, Puerto Rico

 

 

 

 

 

 

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