
“Un’avventura a Budapest” di Ferenc Körmendi: piacere allo stato puro
Letterature
Silvano Calzini
Jérôme Prieur Nato nel 1951 a Parigi, Jérome Prieur è un autore letterario e cinematografico specializzato nello studio dei “fantasmi”: dal cristianesimo delle origini alle fantasmagorie degli esordi del cinematografo, dalla costruzione del Louvre agli scavi archeologici, dalle fotografie della Grande Guerra alle Olimpiadi di Berlino, dal pittore Ingres a una serie di grandi scrittori del Novecento: Antonin Artaud, Paul Paulhan, Léon-Paul Fargue, Réné Chair, e soprattutto Marcel Proust. Ha collaborato alla sceneggiatura del film Le Pont du Nord di Jacques Rivette, cineasta perennemente affascinato dal tema dei revenants.
All’autore della Recherche, Prieur aveva già dedicato nel 2000 un testo, classificabile come un breve saggio e insieme un accorato omaggio, dal titolo Petit tombeau de Proust, edito in sole 25 copie illustrate e recante in copertina la stampa dalla lastra del ritratto di Marcel, raffigurato il 18 novembre 1922 sul letto di morte in una rapida incisione a puntasecca, eseguita con non poca riluttanza dal pittore bretone Paul Helleu, su insistenza di Robert, fratello del romanziere. Proust fantôme è stato pubblicato da Gallimard nel 2006 nella collana “Folio”, e offre la cronaca degli ultimi anni e giorni di quello spettro.
Perché il ragno che tesseva la tela delle sue memorie, rinchiuso da anni nella sua stanza al 44 di rue Hamelin, non era forse già un fantasma?
Alfonso Zadro
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Proust fantasma (frammenti)
Delle voci d’oltretomba, delle voci nasali si passano il testimone al telefono: “Il signore è morto!”; “E’ appena morto Marcel!”; lui che da anni si era spesso trovato allo stremo, lui che non ne poteva più in maniera cronica, lui che ammetteva in modo reiterato d’esser moribondo, ma se ne scusava con talmente tanta gentilezza, questa volta era vero.
Le vie di Parigi sono ancora più vuote di domenica.
La città è deserta come nei sogni. Assomiglia alla notte, quando certe notti fa pieno giorno.
Céleste apre la porta, è uno spettro, è pallidissima.
L’indirizzo tenuto segreto è il 44 di rue Hamelin.
Cacciato dalla banca che aveva acquistato l’immobile di sua zia dove abitava nel suo guscio [al 102 di boulevard Haussmann, NdT], cacciato dalla paura dei lavori e dal panico del rumore, aveva deciso di emigrare in una via di provincia, al riparo dietro l’Étoile – era stata appena celebrato otto giorni prima il milite ignoto sotto l’Arco di Trionfo.
Era una sorella gemella della piccola rue Laurent-Pichat, dove, dopo il baulevard Haussmann, era stato ospitato per tre mesi – ultime vacanze, ultimo viaggio sul limitare dell’avenue du Bois de Boulogne di cui non aveva potuto contemplare il sipario d’alberi se non al di là del coprifuoco.
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Cimitero:
Alle prime luci dell’alba, è August Strindberg a percorrere i vialetti. […]
È a caccia d’anime, e vale a dire dei corpi smaterializzati, convinto che il fogliame degli olmi e dei tigli, persino le rose che marciscono, le lacrime degli uni e delle altre, tutto ciò esali il fluido degli scomparsi.
Strindberg non ha cercato soltanto di risvegliare i morti, di captare la loro presenza oltre la tomba. Lungo tutto il suo appartamento, fin nel suo studio di lavoro, disporrà delle immagini fotografiche di tutti i cari da cui è separato, dei volti a dimensioni naturali, dei ritratti in piedi, degli ingrandimenti di cui si circonda alla fine della sua vita.
Come altri che vollero registrare con l’apparenza visibile degli umani l’aura delle loro passioni e delle loro pulsioni, Strindberg pretese pure, letteralmente, fotografare l’invisibile. Le sue “celestografie” sono colte senz’apparecchio né obiettivo, senz’altro intermediario che la superficie d’impressione della placca sensibile. Intendono fotografare l’anima, fare della fotografia uno strumento di divinazione, un medium.
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Potremmo fare il sogno di avere tra le mani qualche “celestografia” di Proust, per prendere a prestito la formula di Strindberg. Ma non più di quanto non scarabocchiato degli appunti o tenuto dei libri di bordo, Céleste non ha scattato la benché minima foto del suo signor Proust.
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Di Proust adulto non esiste che una ventina di scatti. Al di là delle rarissime immagini del termine estremo della sua vita, quelle foto risalgono esclusivamente al periodo che si dispiega dall’inizio dell’ultimo decennio dell’Ottocento, dopo il suo servizio militare, all’inizio del primo decennio del Novecento. Civetteria di commediante o rifiuto di apparire, Proust non lascia infatti nessuna sua immagine successiva all’epoca 1903-1905 […].
Quei ritratti ci hanno insensibilmente abituati a vedere attraverso delle maschere giovanili, a volte imbronciate, a volte sorridenti, sempre intrise di malinconia, un Proust mutante e che deve invecchiare, ma eternamente fedele a se stesso.
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Nel maggio 1921, Proust riappare finalmente nel bagno rivelatore. Di lui vengono scattate tre foto, certamente all’inizio del pomeriggio, davanti all’esplanade du Jeu de Paume, con una piccola [Kodad, NdT] vest-pocket istantanea di cui si doveva esser munito Jean-Louis Vaudoyer che lo accompagnava alle Tuileries.
Data ad allora l’ultima fotografia, la più famosa: si tiene il più dritto possibile, silhouette marziale che tiene il suo bastone come una spada di legno. Resiste con tutte le sue forze alla pressione atmosferica, dilata i suoi polmoni prima di prendere il volo. Le due altre foto sono dei piani più stretti del viso e del busto, con uno spezzato, una grossa cravatta frettolosamente annodata. In una, Proust chiude le palpebre proprio nell’istante dello scatto, come se rientrasse in se stesso, e nella seconda, il cui sfondo di fogliame è scomparso, offuscato da una nube, il leggero contre-plongée del punto di vista accentua il carattere estatico della sua fisionomia. Stavolta lo sguardo è aperto ma vuoto, assente, le occhiaie profonde, la parte bassa del volto tumefatta, mentre la sua veste attaccata dallo scolorimento già sembra a piqué sotto l’effetto del verde-rame.
A confronto, è sui ritratti mortuari di rue Hamelin che Proust ha l’aria ben più viva, assorbito dall’ultimo sonno, al riparo dai suoi sogni.
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Le visite a domicilio hanno sempre luogo in piena notte. Sono dei sogni a occhi aperti, delle visioni che egli mette in scena, delle allucinazioni.
[…]
È nel suo letto che è naturale. Seduto, ha sempre l’aria a disagio, contorto, attorcigliato, ritorto, meccanico.
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A letto lavora a delle frasi, le fa, le disfa, le rifà come una maglia; delle pagine che sposta, sistema, ritaglia, stringe.
[…]
Scrive stando sdraiato, come Michelangelo dipingeva la volta della Cappella Sistina. Scrive sulle sue ginocchia, senza leggio, senza nulla. Scrive soltanto a letto, sepolto tra il suo disordine di fogli, le migliaia di lettere che spedisce, i quaderni gonfi del suo manoscritto, il dorso di buste, i recto di ricette mediche o di fatture disseminate di frasi, le famose paperoles, i journaux [i diari? i quotidiani? NdT] affastellati sulle lenzuola. Scrive sommerso dalla carta come da un sudario.
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Tra sabato 18 e mercoledì 22 novembre, Céleste non ci crede. “Mio Dio,” mormora, “fa’ che mi dica qualcosa.”
Céleste vorrebbe un miracolo, come la sorella di Lazzaro la cui adorabile capigliatura era lustrata di nardo puro. Aspetta ai piedi del letto, veglia fino al quarto giorno.
Gli occhi del defunto non divorano gli ospiti in visita.
La sua barba nera, tutti l’hanno evocata, la sua barba da vacanza, la sua barba da lupo di mare, la sua barba da straccivendolo gli fa da aureola, la si vede soltanto sui ritratti mortuari, mai su nessuna delle foto scattate quand’era vivo.
Il volto galleggia sopra le lenzuola bianche.
È un annegato che discende la corrente, è una testa liberata dal corpo, staccata dal tronco come il capo di Giovanni Battista che Salomé offrì a Erodiade su un piatto d’argento.
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Il 4 novembre 1922, Howard Carter scopre una scala di pietra che sprofonda nella sabbia, i gradini conducono alla porta di una tomba. È rimasta sigillata, e la stanza retrostante si rivelerà esser ricolma di statue, di letti, di sedie, di scrigni, di armi, di vasi. A pochi giorni di distanza, Proust non verrà mai a sapere che la camera funeraria conteneva il sarcofago del giovane Tutankhamon.
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Da anni non viveva più all’aria libera. È per proteggersene che Proust si era recluso, sequestrato, chambré. Condannato a fuggire sin dalla giovinezza tutto ciò che era vita all’aria aperta, lui che adorava la campagna e il mare, partì un giorno di primavera per Cabourg a bordo di una vettura chiusa per odorare i biancospini dall’altro lato del finestrino.
Fare le pulizie o aerare la casa fintanto che è là è fuori questione. Le finestre non vengono mai aperte, né il tappeto sbattuto. Il trambusto comincia non appena se ne va. Si dice che i suoi servitori abbiano preso le sue manie, che dormano anche loro di giorno. Si mormora che paghi gli operai a peso d’oro per piantare i chiodi in silenzio.
Lui che non sopporta i pollini, la sua camera è una serra. Il suo libro una pianta. Una pianta mostruosa che non cessa di svilupparsi, e che pota, cui aggiunge innesti e talee. Una pianta che cresce di notte, perché tollera solo la luce artificiale.
[…]
È soltanto al crepuscolo che comincia a vivere. Ha per sempre infranto la legge della natura. Per lui, la notte era il giorno, e il giorno è la notte.
Se parla di “sera”, bisogna intendere le sei o le sette del mattino. Attende l’alba per mettersi a dormire. Ma dormiva mai? Vive al contrario, ha distrutto l’istinto del sonno. Quando deve sprofondare nel sonno, ingolla del trional, del veronal. La caffettiera è tenuta al caldo, Ad aspettarlo, il suo caffè proviene esclusivamente da Chez Corcellet, in rue de Lévis, nel XVII arrondissement. Da anni la caffeina lo mantiene in veglia artificiale, l’ha immerso in uno stato di sfasamento orario perpetuo.
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Il mondo è come un paese lontano che ha voluto penetrare.
[…]
Ha bisogno di sangue, di sangue fresco.
Le riunioni mondane, le cene parigine, i balli in costume, non sono che delle tele dipinte, dei décor teatrali. Le chiama: “le grandi stragi”.
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Lui così attento alla sua persona, è letteralmente infagottato nei maglioni di lana, impacchettato, avvolto in fasce di gilet.
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La sua camera è immersa nella bruma delle inalazioni, fa bruciare le polveri in fondo a dei piattini. Non usa mai i fiammiferi, per via dell’odore dello zolfo. […]
Si allena a fare il morto, lui che trattiene il respiro e non muove un ciglio quando la sua inserviente, alla sua chiamata, entra nella stanza? […]
Ma quand’è che aveva finito di vivere? O faceva finta?
Vivere la vita di scrittore, vuol dire ancora appartenere alla specie umana?
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Quell’uomo è un simulacro d’essere umano.
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Vivente o morente, nessuno lo può toccare. Ma qualcuno, dall’infanzia, lo ha mai potuto toccare?
Jérôme Prieur
*traduzione di Alfonso Zadro