03 Luglio 2019

Ha vissuto nell’imperdonabile. 35 anni fa Diego Armando Maradona palleggia al San Paolo diventando il dio di una nuova religione. In un documentario, il ‘Pibe de Oro’ come icona dei dissipati anni Ottanta, gli intrecci tra sport e politica, il calcio come cannibalismo

Il 21 giugno del 1994 ero incollato al televisore. Si giocava a Boston, ore 12.30, il caldo terrificante non scalfiva i volti degli eredi di Pericle, né i pimpanti gauchos. 25 anni fa, al Foxboro Stadium, tornava Diego Armando Maradona. La resurrezione della divinità durò l’attimo di quella partita del girone eliminatorio dei Mondiali d’America. Argentina contro Grecia. Maradona, roso dalla coca, dalla squalifica per un anno e mezzo, dall’annata inutile a Siviglia, dagli inferi nei Newell’s Old Boys, non giocava più a calcio. Interpretava il ruolo di Maradona. Ritornò, con serafiche urla, nel sepolcro.

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Nel 1994 è il Milan quadrato di Costacurta-Baresi-Tassotti-Maldini a vincere il campionato: poche reti (Massaro ne fa 11), poca fantasia (Dejan Savicevic, il genio montenegrino, parte dalla panca), tanta difesa. Il capocannoniere è Giuseppe Signori (23 reti), seguito dal Maradona italiano, Gianfranco Zola (18 reti, militando in un mitico Parma). L’Argentina, in quel Campionato del mondo, è sorretta dall’esplosivo Gabriel Batistuta. Contro la Grecia ‘Batigol’ fa tre reti. Ma il cielo e gli olimpici del calcio si fermano al minuto numero 60 della partita. Maradona prende la palla, i greci sono ipnotizzati come al cospetto della Sfinge, tiro da fuori, preciso, sotto l’angolo. Rete. L’ultimo miracolo. Il dio che urla davanti alla telecamera come se la tivù fosse il Sinai. Sappiamo come va a finire. Positivo all’efedrina, squalificato, Maradona che sobilla le folle dando aria al complotto. La fine. Per due anni DAM indossa la maglia del Boca come una casalinga (femmina o maschio poco importa) mette il grembiule per allestire la cucina.

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Esattamente dieci anni prima, 35 anni fa, 5 luglio 1984, Maradona entra, in tuta, nello stadio San Paolo di Napoli. Ottantamila persone a vederlo. Come se fosse l’oratore che annuncia un nuovo dio, come se fosse l’agnello sacrificale, nell’arena, come se fosse il mostro falciato da decine di migliaia di sguardi in forma di coltello. Tutto va come ha ordito il destino: sette stagioni, 259 presenze, 115 reti, due Campionati italiani (quello del 1986/87 e del 1989/90), una Coppa Italia e una Supercoppa, la Coppa Uefa, vinta battendo la Juventus nei quarti, il Bayern Monaco in semifinale, lo Stoccarda in finale. Il rapporto tra Napoli e Maradona è consustanziale: l’azzurro partenopeo è una religione di cui DAM è il profeta e il dio macellato. In mezzo, la coppa del mondo del 1986, in Messico, in cui viene ridotta a idolatria la fede in Michel Platini, e i fasti ubriachi di Italia 90.

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Il documentario di Matteo Marani, Ho visto Maradona, in onda su Sky Sport Football da venerdì 5 luglio (vedete tutto qui), ha un pregio. Non parla delle imprese calcistiche di Maradona – al di là di alcuni video, dove i gol hanno la violenza simbolica di un frammento di Eraclito. Piuttosto, di Maradona fa il fulcro di un momento, terribile e lucente. Il lusso degli anni Ottanta. L’era del consumo. La presa della pubblicità. I paninari. Wall Street. La morale dei dollari. Bettino Craxi. L’ascesa di Silvio Berlusconi. Le trasgressioni di Madonna. Eccitazione, eccedenza, eccezione. La Rimini nottambula e sessomane cantata da Pier Vittorio Tondelli. Drive In. Domenica In. L’Aids. Bret Easton Ellis. Heather Parisi. Timberland. McDonald’s. La politica dei faccendieri e delle mazzette, dove l’impossibile è un dirimpettaio. La droga. Enzo Tortora. Il Centro direzionale progettato da Kenzo Tange che dovrebbe fare di Napoli la capitale dell’Europa mediterranea, una nuova Bisanzio. Tutto questo, in forma televisiva e rotta, irrompe e si riassume nelle caviglie di Maradona. DAM è l’etica della contraddizione, il tendine che congiunge il caos all’armonia, la sregolatezza che s’incarna nel gesto atletico perfetto, la disperata vitalità incardinata nel ‘numero’, nel tocco a effetto, nel tacco, nel colpo da biliardo.

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Ciò che è insuperabile tende a superare ogni formula e ogni giudizio. La vita forse è questo: sorpassare i propri peccati con una forma superiore. Ciò non vuol dire implorare il perdono: la forma superiore, di per sé, è imperdonabile.

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Abbiamo una idea anglofila dello sport, connessa al record e non al gesto. Il record è superfluo, perché non tiene conto del momento e del carisma. Quando a Los Angeles, negli stessi giorni in cui Maradona faceva impazzire Napoli, un ragazzo di 23 anni stendeva tutti sui 100, poteva cogliere l’epiteto di “figlio del vento” nonostante quel 9,99, letto oggi, sia un tempo per sgranchirsi le gambe. Di Carl Lewis è leggenda la versatilità, l’imprevedibile. Dodici anni dopo, quando Maradona s’inabissa, Carl Lewis, ad Atlanta, dopo aver rischiato l’eliminazione, è ancora lì: a 35 anni, 8 metri e 50, medaglia d’oro nel lungo. Quattro Olimpiadi consecutive, nove medaglie d’oro. Cosa importa se qualche anno prima, a Tokyo, Mike Powell aveva saltato 8,95 metri? Cosa importa se da giovanotto, in quel mitico 1984, Lewis saltava molto meglio (8,79, il suo primato)? Conta l’istante, il carisma, il gesto nel momento decisivo. Non il record. Maradona non ha segnato tanti gol. Non segna quanto Messi. Non segna quanto Cristiano Ronaldo. Messi con la maglia dell’Argentina ha fatto 68 reti; Maradona ‘soltanto’ 34. Maradona segna i gol decisivi, è necessario. Indipendentemente dai record. Il campione sbriciola il record con il gesto superiore.

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Maradona ha divorato la vita, ma quanti hanno divorato Maradona? Il documentario diretto da Marani dà voce all’allora Sindaco di Napoli, Vincenzo Scotti – area DC, già Ministro con Cossiga, Andreotti, Spadolini e Craxi, poi Ministro dell’Interno con Andreotti e degli affari esteri con Amato. Candidamente, Scotti – oggi come ieri – ritiene che l’arrivo di Maradona al Napoli possa avvalorare l’effervescenza della città partenopea, la vigoria industriale, è il collante civico adatto. Per questo, ‘forza’ il Banco di Napoli perché faccia il bonifico necessario a tranquillizzare il Barcellona. Quanti hanno tratto giovamento da Maradona? La politica, i tifosi, il calcio, lo show, gli affari, di ogni sorta.

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Il cinema sembra dare segnali contrari al tempo, in un refluo di abissi. Agli Oscar vince Voglia di tenerezza, con Jack Nicholson e Shirley MacLaine, mentre il ‘Miglior film straniero’ risulta Fanny e Alexander di Ingmar Bergman. A Cannes spopola Paris, Texas di Wim Wenders. A Venezia il Leone d’oro va al film storico e turbato L’anno del sole quieto, di Krzysztof Zanussi. Sul set va in scena un’altra storia rispetto a quella che si svolge sui campi da calcio.

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Maradona è megl’e Pelé si continua a cantare, sfregiati dal sole. Come a dire che il simbolo ha sterminato l’uomo: in fondo siamo ancora lì, a 35 anni fa, a vedere quei piedi fatali, come un Big Bang permanente, una esplosione di vita, lo sfrigolio delle galassie, la sottomissione degli angeli, l’egida del luminoso.

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Negli Ottanta, il calcio è una specie di cannibalismo. L’idillio napoletano dura, sostanzialmente, cinque anni. Nel 1989 Maradona è pronto ad andare all’Olympique Marsiglia. La stagione 1989-90 consente al Napoli il secondo scudetto, due punti avanti al Milan del geniale Marco Van Basten, capocannoniere del campionato con 19 reti. Alle sue spalle, Roberto Baggio (17 reti con la casacca viola), Maradona (16 reti) e ‘Totò’ Schillaci (15 gol con la Juventus). Conta la fame, il famelico misurato dalle urla dei tifosi nella conca del campo. Tutti mangiano tutti: vince chi resta con un fiato d’ossa. Maradona è apparso. Come tutti i geni l’ansia di grandezza è commisurata all’estasi della dissipazione. A lui si può imputare tutto: tutte le gioie, tutti i tormenti. Ha vissuto nell’imperdonabile. (d.b.)

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