21 Agosto 2022

“A volte mi sentivo così felice...”. La letteratura contro il male

Quando mi è stato chiesto di riflettere sulla risposta dell’arte alla fragilità umana, sono ritornato idealmente al Castello di Brunnenburg, sopra Merano, dove vive, circondata da libri e cimeli Mary de Rachewiltz, la figlia del poeta Ezra Pound. In particolare, mi è tornato in mente un frammento custodito in una grande cassettiera rossa della Pound room: sul retro di una busta da lettera il poeta dei Cantos, ormai anziano e malato, annotò questi versi:

«Se hai due pani
vendine uno e con la mercede
compera subito giacinti
per nutrire la tua anima».

Al tramonto della sua vita, confidava nella bellezza come un balsamo per arginare il male. La Pandemia ci ha stremati. Ha reso più incerte le nostre relazioni. Ha minato la fiducia negli altri. I caratteri si sono fatti più violenti, con reazioni che spesso sfiorano l’isteria. Abbiamo ancora i nervi a fior di pelle e fatichiamo a progettare il futuro. È come se dovessimo ritrovare l’abc delle relazioni, imparare a riscoprire le piccole cose o, come direbbe Elizabeth Bishop, l’«arte di perdere» (anche se forse la poetessa statunitense la considerava sotto un’altra dimensione…). È tempo di ripartire dalle fondamenta. Un po’ come fa Tom Hanks nel film Cast Away di Robert Zemeckis (2000). Novello Robinson Crusoe scampato a un disastro aereo, deve “reinventarsi” la vita di tutti i giorni su un’isola deserta e dimenticata: scoprire come si accende un fuoco, come andare a pesca, e, persino, come cavarsi da solo (e con straziante dolore) un dente cariato… Il protagonista è un dirigente della società di trasporto FedEx e riesce a dare un senso alla sua solitudine grazie a un pacco rimasto integro dopo l’incidente. È una promessa che fa a sé stesso: sopravvivere anche grazie alla missione di poter un giorno consegnare quel pacco al suo legittimo destinatario. Dare un senso anche quello che sembra davvero un tunnel senza fondo, ritrovare il fine della nostra vita aiuta a parare i colpi inaspettati.

Tra i libri più belli che abbia mai letto sulla ricerca di senso c’è Uno psicologo nei lager di Viktor Frankl (1905-1997). È un libro profondissimo e alla portata di tutti, anche per chi ha poco tempo o poca confidenza con la lettura. Frankl, il prigioniero numero 119.104, passò per diversi campi di concentramento, tra cui Auschwitz e Dachau, e davvero perse tutto: i genitori, la giovane moglie e persino l’unico manoscritto del libro a cui stava lavorando, l’ultima àncora che lo teneva in qualche modo legato alla vita di prima. Nel suo diario, scritto di getto dopo la liberazione, emergono tutti gli orrori del Campo: la selezione prima della morte in serie, il processo di alienazione degli uomini, la fame, le torture, i flagelli delle malattie come il tifo petecchiale, la speranza sempre disattesa che un giorno la guerra potesse finire… In questo carotaggio dentro l’abisso però Frankl torna a scoprire la libertà dell’uomo, anche di fronte alle costrizioni più terribili.

Frankl è assediato da una serie di domande frontali: se l’uomo sia solo il risultato “casuale” della sua costituzione corporea, della sua inclinazione caratteriale o della sua posizione sociale. E poi, ancora, se in qualche modo l’uomo possa sottrarsi agli influssi della forma di esistenza a cui venga forzatamente sottoposto. Ecco la sua risposta dalle tenebre del lager:

“In base alle esperienze, proprio la vita nel lager ci ha mostrato che l’uomo è veramente in grado «di comportarsi diversamente». Potremmo riferire molti esempi, spesso eroici, che hanno provato come, in certi casi, si possa soffocare quell’apatia e quella irritabilità; come dunque sopravvive un resto di libertà spirituale, di libero atteggiamento dell’io verso il mondo, anche in quello stato, solo in apparenza di assoluta coazione, tanto esterna quanto interiore. Chi, tra coloro che hanno vissuto in campi di concentramento, non potrebbe parlare di persone che percorrevano le piazze d’armi o le baracche del Lager, dicendo una buona parola o regalando l’ultimo boccone di pane? E se pure sono stati pochi – bastano questi esempi per dimostrare che all’uomo nel Lager si può prendere tutto, eccetto una cosa: l’ultima libertà umana di affrontare spiritualmente, in un modo o nell’altro, la situazione imposta. Ed esistevano veramente, le alternative! Ogni giorno, ogni ora passati nel Lager offrirono mille spunti per questa decisione interna: la decisione dell’uomo che soccombe o reagisce alle potenze dell’ambiente che minacciano di rubare quanto egli ha di più sacro – la sua libertà interna – inducendolo a diventare solo una palla da giuoco e un oggetto delle condizioni esterne, rinunciando a libertà e dignità e rendendolo il «tipico» internato in un campo di concentramento”.

Tra i passi più toccanti del libro, due riguardano proprio la bellezza come possibile argine al male. Nel primo, un tramonto d’inverno che d’improvviso colora di rosso la foresta provoca un’emozione indicibile per i prigionieri, disposti a uscire di colpo dalle baracche e tornare al freddo pur di godere qualche istante di sospensione dal “regno del male”:

“La tendenza alla interiorizzazione, viva in molti detenuti, faceva sentire con grande immediatezza l’arte o la natura, non appena se ne presentava l’occasione. Quest’esperienza era talora così intensa, da far totalmente scordare l’ambiente e la nostra terribile situazione. Chi avesse visto i nostri volti trasfigurati dall’incanto, durante il viaggio in treno da Auschwitz a un Lager bavarese, quando scorgemmo, dalle sbarre di un vagone cellulare, i monti di Salisburgo, con le cime rilucenti nel tramonto, non avrebbe mai creduto che erano volti di uomini che consideravano praticamente conclusa la propria vita. Nonostante tutto – o forse proprio a causa della nostra situazione – la bellezza della natura, che ci fu negata per anni, ci entusiasmava. E più tardi, nel Lager, durante il lavoro, qualcuno richiamava l’attenzione del compagno che gli sbuffava accanto, su un quadro meraviglioso che si offriva ai suoi occhi; come avveniva, per esempio, nella foresta bavarese (dove ci toccava costruire enormi fabbriche sotterranee e mimetizzate, per la produzione bellica), quando il sole al tramonto irradiava di luce i tronchi degli alberi, proprio come in un famoso acquarello di Dürer. E accadde una volta che, di sera, mentre stanchi morti dopo il lavoro ci eravamo già sdraiati per terra, nelle baracche, con la ciotola della minestra in mano, un compagno entrò a precipizio, invitandoci a uscire sullo spiazzo dell’appello, nonostante la stanchezza e il freddo di fuori, perché non dovevamo perdere lo spettacolo di un certo tramonto. E quando, usciti fuori, vedemmo le scure nubi rosseggianti, a occidente, e tutto l’orizzonte animato da nubi multicolori e sempre mutevoli, con le loro figure fantastiche ed i loro colori ultraterreni, dall’azzurro cobalto al rosso sangue, e sotto, in contrasto, le tristi capanne di terra del Lager e il paludoso spiazzo dell’appello, nelle pozzanghere del quale si specchiava la bragia del cielo, allora, dopo alcuni minuti di silenzio rapito, qualcuno disse: «Come potrebbe essere bello il mondo!»”.

E poi forse l’episodio che più mi ha commosso riguarda la morte di una giovane donna che Frankl assiste negli istanti finali. È un passo bellissimo, un inno alla grandezza interiore della vita di ogni uomo:

“Questa giovane donna sapeva che sarebbe morta nei prossimi giorni. Quando le parlai, era serena, nonostante tutto. «Sono grata al mio destino, per avermi colpita così duramente», mi disse, e ricordo bene ogni sua parola: «Perché nella mia vita di prima, quella borghese, ero troppo viziata e non avevo nessuna vera ambizione spirituale». Nei suoi ultimi giorni era come trasfigurata. «Quest’albero è il solo amico nei miei momenti di solitudine», disse, accennando attraverso la finestra della baracca. Fuori c’era un castagno, tutto in fiore, e chinandomi sul tavolaccio della malata, potevo scorgere ancora un ramoscello verde con due grappoli di fiori, guardando dalla finestrella dalla baracca-infermeria. «Con quest’albero parlo spesso», disse poi. Ne fui meravigliato e non sapevo come interpretare le sue parole. Sta forse delirando, ha delle allucinazioni? Le chiesi dunque, curioso, se l’albero può risponderle – «Sì!» – e che cosa le dice. Mi rispose: «M’ha detto: Io sono qui – io sono qui – io sono la vita, la vita eterna…»” .

Con I racconti di Kolyma Varlam Šalamov (1907- 1982) ha offerto un potente affresco della vita nel sistema concentrazionario sovietico. I suoi testi sono brevi e ficcanti, affilatissimi e crudi, con la forza catartica della tragedia greca. Chi legge, resta inorridito e si augura, purtroppo invano, che tali orrori non debbano ripetersi. Tra i racconti più efficaci, ricordo Le protesi: gli aguzzini di un gulag siberiano passano in rassegna i prigionieri. Li perquisiscono prima di sbatterli in cella d’isolamento. Nella finzione drammaturgica, al primo viene sottratto un busto, non era infatti consentito averlo in carcere. Al secondo, un reduce della guerra civile, viene tolto un braccio di ferro. La spoliazione avanza inesorabile. A qualcuno viene strappato un cornetto acustico, a un altro una gamba di legno, a uno persino un occhio di vetro. Finché viene esaminato un uomo apparentemente integro. Gli aguzzini s’interrogano in modo sarcastico su cosa possano togliergli, fino alle battute finali del racconto, così potenti e luminose:

«Quello un braccio, quest’altro una gamba, un orecchio, la schiena, e questo qui: un occhio. Stiamo raccogliendo tutte le parti del corpo. E tu che hai?». Mi squadrò attentamente, ero nudo. «Tu cosa ci dai? L’anima?». «No», dissi. «L’anima non ve la do».

Tra le opere che hanno indagato più profondamente il tema del male, un posto particolare spetta a Moby Dick di Melville. E mi sono sempre chiesto perché nel nostro immaginario la Balena bianca sia spesso accostata a qualcosa di innocente, rassicurante, da classico per l’infanzia, quando essa è esattamente il contrario: Moby Dick è il mostro implacabile, segno del male e del mistero. Basta dare un’occhiata al personaggio del capitano Achab, che sembra uscito dalle fiamme dell’inferno dantesco, come Farinata o Capaneo:

“Il capitano Achab era sul cassero. Non pareva avere indosso segni di una comune malattia fisica, né di convalescenza alcuna. Aveva l’aspetto di un uomo staccato dal rogo quando il fuoco ha devastato, trascorrendole, tutte le membra, ma senza consumarle o rubar loro una sola particola della compatta e vecchia robustezza. Tutta la sua figura alta e grande sembrava fatta di solido bronzo e foggiata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso del Cellini”.

Moby Dick un romanzo intriso di male, che rinnovò la letteratura americana (anche se Melville rimase un incompreso per i suoi contemporanei) e che emana bellezza a ogni pagina. Sono innumerevoli gli scrittori innamorati di questo capolavoro. Tra i più recenti, lo sfortunato poeta friulano Pierluigi Cappello (1967- 2017). A sedici anni vide infranti tutti i suoi sogni dopo un incidente in moto. Era un corridore, voleva fare il pilota e invece passò il resto dei suoi giorni sulla sedia a rotelle. Nei durissimi mesi di solitudine dopo l’incidente, riprese in mano il capolavoro di Melville e in esso rafforzò la sua nascente vocazione di poeta:

“Cominciai per la seconda volta la lettura di Moby Dick che ero ancora molto debole. Avevo la flebo attaccata e mi stancavo con facilità. Dopo un po’ che leggevo, le braccia si facevano pesanti, allora rimettevo il libro sul comodino. Erano letture brevi, mezz’oretta al massimo ogni pomeriggio, già sufficiente a rompere la distesa sassosa delle ore vuote e a darmi l’impressione di riannodare un filo con le estati trascorse a leggere su un albero e quelle interminabili dei tropici. Filo dopo filo riannodato, trama dopo trama, Moby Dick non mi deluse nemmeno questa volta e nella calma senza scosse di quei pomeriggi, mi portò via di nuovo. Se la prima volta le descrizioni mi erano apparse come i nei ben portati da un corpo abbronzato, adesso le apprezzavo e le seguivo nel loro sciogliersi minuto. Il mio immaginario si rinverdì, spezzò la scorza delle ore desolate, e alla grandezza antica della descrizione dello scheletro del capodoglio e della sua enorme mandibola, dove avrebbe potuto passare una carovana con pariglia, tornò bambino… Piano piano passavano i giorni e io iniziavo a sentirmi più forte, le letture si prolungarono e le ore di noia di accorciarono”.

La storia di Pierluigi Cappello mi ha ricordato quella di Antoni Gaudì che da bambino fu spesso obbligato a lunghi periodi in casa per malattia. Il suo svago in quei giorni di solitudine era la contemplazione del giardino di casa: non avrebbe mai dimenticato la lezione della bellezza della natura e avrebbe cercato di riproporla in tutte le sue mirabili fantasie architettoniche (basti pensare al “bosco” di luce dell’interno della Sagrada Familia di Barcellona). Moby Dick è una grande avventura in mare aperto, ma soprattutto la metafora della vita di ognuno di noi di fronte alle proprie paure, ai propri tic, ai propri sogni.

*

Gli ultimi anni di Raymond Carver (1938-1988) furono segnati da una grande attitudine alla contemplazione. Sapeva di avere poco tempo perché il tumore che lo avrebbe ucciso a soli cinquant’anni avanzava inesorabile. Dopo una lunga stagione dedicata alle short stories (di cui era maestro, fu considerato il Čechov d’America) ritornò alla poesia. Amava passeggiare nei boschi e lungo i corsi d’acqua e significativamente la sua ultima raccolta, pubblicata postuma, s’intitola Il nuovo sentiero per la cascata. Tess Gallagher, poetessa e moglie di Carver, nell’introduzione a Orientarsi con le stelle che raccoglie tutte le poesie del marito, scriveva: «Molte delle [sue] poesie più recenti hanno la caratteristica di un diario in cui la natura e la vita vengono osservate momento per momento».

Carver cercava riparo nella bellezza della natura. Nonostante la malattia e gli snodi dolorosi del passato (un matrimonio in frantumi, il rapporto difficile con i figli, la dipendenza dall’alcol) ebbe un profondo sentimento di gratitudine nei confronti dell’esistenza. Come testimonia questa poesia dedicata proprio a Tess:

“A volte mi sentivo così felice che dovevo smettere di pescare. A un certo punto mi sono sdraiato sulla sponda
e ho chiuso gli occhi per ascoltare il rumore che faceva l’acqua
e il vento che fischiava sulla cima degli alberi. Lo stesso vento
che soffia giù nello Stretto, eppure è diverso.
Per un po’ mi son lasciato immaginare che ero morto e mi stava bene anche quello, almeno per un paio
di minuti, finché non me ne sono ben reso conto: Morto.
Mentre me ne stavo lì sdraiato a occhi chiusi,
dopo essermi immaginato come sarebbe stato
se non avessi davvero potuto più rialzarmi, ho pensato a te.
Ho aperto gli occhi e mi sono alzato subito
e son ritornato a esser contento.
È che te ne sono grato, capisci. E te lo volevo dire”.

È sempre Tess che ricorda una felicissima espressione di Milosz: «Quando soffriamo, torniamo sulle sponde di certi fiumi»: Carver volle che la sua ultima raccolta si aprisse con Dono, splendida poesia di Milosz:

“Un giorno così felice.
La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino.
I colibrì si posavano sui fiori del quadrifoglio.
Non c’era cosa sulla terra che desiderassi avere.
Non conoscevo nessuno che valesse la pena d’invidiare.
Il male accadutomi, l’avevo dimenticato.
Non mi vergognavo al pensiero di essere stato chi sono.
Nessun dolore nel mio corpo.
Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e le vele”.

Fin qui il poeta. Fin qui la letteratura, che in qualche modo può temperare l’urto del male. Il credente ha però un grande appiglio in più, come ha ricordato ancora Joseph Ratzinger in una splendida meditazione sulla speranza:

“Tutte le nostre angosce sono in ultima analisi paura per la perdita dell’amore e per la solitudine totale che ne consegue. Tutte le nostre speranze sono perciò nel profondo speranza del grande, illimitato amore: sono speranze del paradiso, il regno di Dio, dell’essere con Dio e come Dio, partecipi della sua natura (2 Pt, 1,4). Tutte le nostre speranze sfociano nell’unica speranza: venga il Tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. La terra diventi come il cielo, essa stessa deve diventare cielo. Nella Sua volontà sta tutta la nostra speranza. Imparare a pregare è imparare a sperare ed è perciò imparare a vivere”.

*Per gentile concessione si pubblica una parte del saggio di Alessandro Rivali, “La bellezza & l’abisso. Un viaggio da Frankl a Carver”, pubblicato su “Studi Cattolici” (n. 736, giugno 2022)

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