27 Settembre 2023

Alcolico, irreparabile, bellissimo. Il mio viaggio “Sotto il vulcano”

La letteratura inventa lo spazio che esplora lei stessa per la prima volta. Durante le giornate trascorse “Sotto il vulcano” scrivevo a M. e D., nomadi nella letteratura quanto me, probabilmente per non perdere la bussola, per afferrarmi a loro durante la traversata, per rassicurarmi ci fosse un fuori, per lasciare testimoni nel caso scomparissi, cosicché se gli avessero chiesto notizie su di me avrebbero potuto rispondere “L’ultima volta che si è fatto vivo con noi era Sotto il vulcano”. Di seguito i dispacci inviati di volta in volta (a.c)

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Cari M. e D.,

#1

sono alle prime 40 pagine di Sotto il vulcano: ogni romanzo decide il suo tempo, questo di Lowry lo avevo sullo scaffale da anni. Ricordo di averne sentito dire fosse di lettura particolarmente impegnativa, per ora è un piacere e basta, mi ricorda quel che mi è piaciuto di Déon, e Déon scrive dopo Lowry, e in qualche parte quel che mi piace di Quignard, che viene dopo Déon. La traduzione è di Monicelli, non l’ultima di Rossari. Monicelli scrive non ostante, per dare un’idea della lingua comunque pastosa, saporita, con molti spagnolismi intatti, immagino gli stessi che in originale, e fin dal primo momento vado matto per i coltivatori di cactus.

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#2

Chi andava dicendo che Sotto il vulcano fosse un capolavoro, mi dispiace doverlo dire, non mentiva affatto anzi non diceva abbastanza. Sono a pagina 76 di non so ancora quante. In Lowry si sente il poeta: si sente nel mare clamoroso a notte, nella floribundia, negli abarrotes, nei pellicani mattinieri, nel peschereccio che con la sua alta alberatura ricorda una giraffa bianca. C’è la storia? Sì, c’è anche lei, di amore e alcolismo, di distacchi e ritorni, di inglesi e francesi e di hawaiane dai genitori comunque europei, che vivono anni decisivi in una città immaginaria del Messico. Leggo Lowry e so che devo stare attento, non devo sprecare nessuna spericolatezza di frase, nessun inserto dialogico apparentemente fuori contesto, nessuna prodezza della scrittura così tenera e spaccona.

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#3

Sono a pagina 102, ora so che nella mia edizione il romanzo ne conta 387 ma seppure fosse finito qui, col terzo capitolo, sarebbe un romanzo perfetto, scritto con tecnica contemporanea perfetta. Ho quasi dispiacere ad andare avanti: senza spiegare nulla in queste 102 pagine ha già mostrato tutto e molto altro. Quanto spero che nelle prossime trecento non si metta a chiarire, a raddrizzare le traiettorie sghembe, a ripetere la sua bravura ormai lampante! I temi sono stati tutti enunciati e denunciati con la completezza che solo la reticenza può garantire: l’amore infedele – what else?, l’alcolismo, il fallimento, l’irriparabilità, l’irreparabilità. Ora però voglio dire dell’uso intransitivo che Monicelli fa del verbo ‘lontanare‘, ecco un esempio: “il giardino lontanava in pendio fino a perdersi in una indescrivibile confusione di radiche e di rovi”. Di Rossari, il traduttore appresso, non so ma andatevi a leggere la biografia di Giorgio Monicelli su Wikipedia, vi anticipo solo l’ultimo rigo: “Morì nell’autunno del 1968 per una cirrosi epatica”. Quando traduce le pagine della dipendenza alcolica si sente che non sta traducendo e basta: sta trovando le parole nella sua lingua per dire quello che Lowry è riuscito agonisticamente e esteticamente a dire nella sua. Giorgio Monicelli, a stare alle foto, è stato un bell’uomo come lo è stato Malcolm Lowry, stando alle foto. Bellezza e talento devono far insorgere una sete di vita incredibile, inestinguibile, che perciò si estingue male, nei modi peggiori, pur di poter darsi tregua, pur di non dover bruciare sempre. S’è creata una tossica e meravigliosa alchimia, mi pare, in Monicelli che traducendo Lowry traduce anche parti di sé.

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#4

Sono a pagina 201 di Sotto il vulcano. Non so se è per darmi ragione da me se i tre capitoli successivi ai primi tre non scuotono altrettanto il romanzo e chi lo legge: viene dettagliato Hugh, credo più ricavato sull’esperienza giovanili e marinare di Lowry da giovane, e si guarda al terzetto da più prospettive: Hugh e Yvonne, Hugh e Geoffrey, Hugh Geoffrey e Yvonne che passeggiano assieme, come fosse possibile, come se un abisso possa mai essere ricolmato. La scrittura è sempre inventiva e movimentata, una menzione di sicuro la merita la scena della bambina con l’armadillo nella corte del castello riconvertito in birreria.

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#5

Sono a pagina 251, dunque sulla corriera verso Tomalín dai cui finestrini è possibile vedere “le finestre barbate d’erba”.

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#6

Mi mancano 99 pagine alla fine del romanzo, e qualcheduna per finire il decimo capitolo, sulla corrida, che assieme al nono, con l’indio ferito e non assistito, conferma – non che occorresse – la qualità formale e esemplare di questo romanzo secondo me segretamente d’ispirazione, e di scuola, per tanti altri. Pensavo sarebbe potuta essere una lettura più lunga, per la quale ci sarebbe voluto un rodaggio più impegnativo: sintonizzare la propria psiche linguistica a quella di uno scrittore che segna una frattura e un ricominciamento non è facile il più delle volte, eppure il Lowry monicelliano s’è subito aperto il suo corso, ha sbocciato i suoi scenari e i suoi personaggi scegliendosi i tempi e i modi, mi ha spintonato nel suo mondo fragile e violento, maschile e femminile senza soluzione di continuità, così intimo e così politico, e ora torno a Hugh e al toro prima che la battaglia dell’Ebro che fa da sfondo al romanzo termini nella notte che ricoprirà l’Europa.

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#7

Il romanzo di Lowry spira tra zaffate di mercaptan e habanero. Siccome è un grande romanzo le sue vicende esplodono poi collassano e le relazioni intessute caoticamente tra i personaggi diventano opera-mondo e forniscono l’equivoco perfetto per dare mostra di come il terrore politico del tempo in corso di Lowry, come in ogni epoca precedente e successiva, sappia procurarsi qualunque alibi. Il romanzo, esteticamente ipersaturo, scritto-scritto pagina per pagina, è pure una denuncia universale dell’abuso umano, uno svelamento della vigliacca prepotenza istituzionalizzata che sa come cercare e trovare sempre un’ottima scusa per commettere i suoi crimini, incriminando chi i crimini da lei commessi glieli denuncia esasperatamente in faccia. Sotto il vulcano è un romanzo che cresce di capitolo in capitolo: i primi tre sarebbero stati sufficienti e perfetti, sia, se Lowry avesse voluto raccontare una storia di sentimenti e fallimenti, ma grazie a quelli successivi Lowry racconta tutta la sua epoca e dunque anche quella a venire: la prepotenza coloniale, la decadenza da inevitabile senso di colpa che imposta la civiltà cosiddetta egemone, la miseria degli ultimi e l’ignominia dei nuovi-primi ancora troppo rancorosi per il loro passato recente da ultimi. Ieri sera avevo guardato su una piattaforma Drive diretto da Refn, con per protagonista un Ryan Gosling con indosso il bomber con ricamato uno scorpione sulla schiena (Gosling l’avevo visto qualche sera prima nel Barbie diretto da Greta Gerwig e devo dire che la dissonanza cognitiva si sente guardando Ken che in un ascensore calpesta la faccia a uno fino a fargli esplodere il cranio) e quando stamattina ho ripreso il romanzo c’ho trovato le frasi: “ma forse lo scorpione, non volendo essere salvato, si era trafitto a morte”. Ah, con Lowry non può finire così, va da sé. Si comincia con una nuova omnia, la sua.

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#8

Ho letto il poco che si trova online a proposito di Lowry e del romanzo, si parla tanto di capolavoro-da-scoprire mappoi si resta sopra-sopra e proprio nessuno segnala, per esempio, come questo di Lowry sia un libro beffardo che ridicolizza il mito dell’alcolizzato tremendo come un angelo di Rilke, quindi anche sé stesso, e ogni teatrino della virilità così cara al maschio che si vuole latino pure se è nato in Inghilterra figurarsi se è messicano o vuole conciarsi come un cowboy.

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#9

Siccome da un romanzo come quello di Lowry bisogna correre via presto e lontano perché non ti tenga con sé nei suoi crepacci – ogni genio vuole compagnia nella lampada ma infine da solo in una lampada ha l’autodisciplina per restarci giusto un genio, mica uno che da lui ha solo voluto farsi esaudire il desiderio di esperire la sua letteratura avverata, sua del genio, e nel caso di Lowry più che in una lampada il genio ha preso dimora in una bottiglia di mescal – ho iniziato a leggere Paradiso. È il terzo romanzo di Gurnah che leggo, ma il quarto della sua produzione e tra quelli tradotti è il meno recente, è del ’94. Probabilmente se mi sta piacendo così tanto il merito è del protagonista Yusuf, un dodicenne sottoalimentato, un kifa urongo, un morto-in-piedi. Sono grato a Gurnah per come procede un passo sobrio dietro l’altro: non si può sopravvivere a lungo nella scrittura esagerata di Lowry, ma sarebbe offensivo dire: Gurnah mi piace perché a differenza di Lowry non mi fa sentire a repentaglio. La scrittura di Gurnah è al servizio della storia, la rispetta, non ha bisogno di caricarla, di farla ruotare alla velocità della terra su sé stessa eppoi attorno al sole: è la storia di un bambino che viene sfruttato, tanto basta ad asciugare il palato, a tramutarti in sale sulla pagina: “Laggiù gli avevano riempito la bocca di sale, prendendolo a schiaffi se provava a sputarlo”, così veniva torturato Mohammed, il mendicante preferito di Yusuf che bazzicava casa sua divorata dai tarli, prima che dovesse abbandonarla, dove se a sua madre diceva di avere fame Yusuf si sentiva rispondere: mangia i tarli, mangia i vermi. Allora per la nausea all’idea la fame passava. Mi piace questo romanzo di Gurnah per il brodino di ossa, per la moneta da dieci anna, per zio Aziz, per i vibarua al servizio dei tedeschi, per gli spinaci in salsa di cocco, per gli uomini-lupo più veloci delle zebre. Per sottrarmi al precipizio anche dantesco che è Sotto il vulcano, per tirarmi nel precipizio chiamato Paradiso. Non bisogna mai darsi il tempo di crearsi idoli, mai offendere gli scrittori impupattandoli in feticci, specie se sono morti e di culto più o meno largo ma già conclamato.

antonio coda

Gruppo MAGOG