Il caso di Maksim Gor’kij è emblematico riguardo alle sorti puttane della storia della letteratura e della politica. Fino a qualche decennio fa il fondatore del ‘realismo socialista’ e – di fatto – uno tra i massimi scrittori russi del secolo, ‘benedetto’ da Lev Tolstoj e amico di Anton Cechov, era proposto in tutte le solfe e in tutte le salse, era impensabile schivarlo. Ora, con la caduta del comunismo, Gor’kij, quasi ne fosse l’icona e il megafono, è precipitato nell’oblio. Ormai lo leggiamo spulciando tra piccoli editori (le Edizioni Clichy hanno riproposto Bassifondi, nel 2016) o tra opere periferiche (il Lenin edito da Castelvecchi lo scorso anno). Nato poveraccio esattamente 150 anni fa, il 28 marzo, Gor’kij, in effetti, è l’emblema dello scrittore ‘rivoluzionario’ e ‘popolare’, perfino pop. Autore baciato dal talento (si impone con Konovalov e La madre), è in piazza durante i subbugli del 1905 (“dobbiamo impugnare pistole e coltelli, colpire con forza per seminare il panico nella polizia, protettrice dell’odierno governo poliziesco”), tre anni dopo, si sa, è a Capri dove specula di rivoluzione con Lenin, tra una partita di scacchi e l’altra. Animatore culturale dall’efficienza assoluta, nel 1918 subisce la sonora sculacciata dell’amico, lo zar dei proletari. Lenin, infatti, da ordine di chiudere ‘La nuova vita’, rivista di Gor’kij particolarmente animata, dove pubblicavano poeti ostili alla Rivoluzione – o semplicemente indifferenti ad essa – come Osip Mandel’stam. Gor’kij s’incazza (“è un errore credere che con questo atto, che io definisco di viltà, si possa arrestare l’onda dei sentimenti ostili ai signori commissari e alla rivoluzione”, scrive), lascia la Russia per un po’, ma nel 1920 è già lì a gorgheggiare peana intorno al capo di Lenin (“Lo scopo fondamentale della vita di Lenin è la felicità degli uomini”).
Vicino a Stalin, cantore dei successi del comunismo applicato in salsa Soviet – celandone gli orrori dietro un aggettivo – nel 1934 teorizza e propala il ‘realismo socialista’ come panacea estetica. L’intimità con il ‘capo’, comunque, lo distrugge. “Mi hanno circondato… accerchiato”, confessa, nel 1935, a un amico. Gor’kij muore nel 1936, in circostanze mai chiarite. L’“iniziatore della letteratura sovietica”, come lo censisce una enciclopedia del 1964, stampata in Urss, “doveva morire per diventare un mito” (Agnes Heller). La storia di Gor’kij, insieme a quella dei “poeti che fecero la Rivoluzione” sarà rievocata nello spettacolo teatrale La scienza dei commiati, in scena venerdì 9 marzo, ore 21, al Teatro degli Atti di Rimini (ingresso gratuito), con la presenza di Silvio Castiglioni, grande interprete della grande letteratura (memorabili gli spettacoli sulla Colonna infame di Alessandro Manzoni, su Silvio D’Arzo e Andrea Zanzotto, su Osip Mandel’stam e Vasilij Grossman), e con Davide Brullo a fare da cantastorie. Pangea ricorda Gor’kij riesumandone un testo nascosto, di alata bellezza. Il diario dell’incontro con Lev Tolstoj. Un incontro tra titani.
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I
L’idea che, visibilmente, più spesso di tutte le altre tormenta il suo cuore è l’idea di Dio. A volte sembra che non si tratti neppure di un’idea, ma di una resistenza a qualcosa che egli sente sopra di sé. Ne parla meno di quanto vorrebbe, ma vi pensa di continuo. Non credo che sia un segno di vecchiezza, un presentimento della morte; no, credo che nasca in lui dalla sua fierezza umana. E un po’ da un senso di umiliazione, perché quando si è Lev Tolstoj è umiliante sottoporre la propria volontà a uno streptococco. Se fosse stato uno scienziato, avrebbe certamente avanzato geniali ipotesi e compiuto grandi scoperte.
II
Le sue mani sono meravigliose: brutte, nodose per le vene gonfie, e tuttavia particolarmente espressive e ricche di forza creatrice. Forse anche Leonardo da Vinci aveva mani come le sue. Con simili mani si può far tutto. A volte, parlando, agita le dita, le stringe lentamente in pugno, poi d’improvviso schiude di nuovo la mano e pronuncia nello stesso tempo una parola bella, ricca di significato. È simile a un Dio, non certo a Sabaoth o a un Dio olimpico, ma al Dio russo che “siede su un tronco d’acero sotto un tiglio dorato” e che non ha un aspetto maestoso, ma è forse più scaltro di tutti gli altri dèi.
VI
“La minoranza ha bisogno di Dio perché ha tutto il resto, la maggioranza perché non ha niente”.
Mi esprimerei diversamente: la maggioranza crede in Dio per ignavia, e solo pochi per pienezza d’anima.
“Vi piacciono le fiabe di Andersen?”, mi domandò pensoso. “Non le avevo capite quando furono pubblicate, ma una decina d’anni dopo ripresi il volumetto, lo rilessi e d’un tratto sentii con grande chiarezza che Andersen era stato molto solo. Molto solo. Non conosco la sua vita; sembra che sia vissuto nella dissolutezza, che abbia molto viaggiato, ma questo non fa che confermare la mia idea: egli fu solo. Perciò si rivolge ai bambini, sebbene sia sbagliato credere che i bambini abbiano più compassione per l’uomo degli adulti. I bambini non hanno compassione, ne sono incapaci”.
VII
Mi consigliò di leggere il catechismo buddista. È sempre sentimentale quando parla del buddismo e di Cristo; di Cristo soprattutto parla poveramente; nelle sue parole non c’è né entusiasmo né pathos, e neppure una scintilla che venga dal cuore. Credo che consideri Cristo un ingenuo degno di compassione e, sebbene – a volte – lo ammiri, certo non lo ama. Sembra quasi che lo tema: se Cristo arrivasse in un villaggio russo, le ragazze lo deriderebbero.
XII
La malattia l’ha inaridito, ha bruciato in lui qualcosa; anche interiormente è diventato più leggero, più trasparente, più accessibile. Gli occhi sono ancora più acuti, lo sguardo più tagliente. Ascolta attentamente, come se cercasse di ricordare cose dimenticate o fosse sicuro di sentire un che di nuovo, di sconosciuto. A Jasnaia mi è sembrato un uomo che sa tutto e non vuole imparare più nulla, l’uomo dei problemi risolti.
XIII
Se fosse stato un pesce, avrebbe nuotato certamente solo nell’oceano, senza mai penetrare nei mari interni, e meno che mai nelle acque dolci dei fiumi. Attorno a lui si affolla e si agita la minutaglia, che non s’interessa a ciò che egli dice, non ne ha bisogno, e il silenzio di Tolstoj non la spaventa, non la commuove. Ma egli tace abilmente come un vero eremita. Sebbene dica molte cose sui soggetti d’obbligo, si sente che egli tace anche di più. Di certe cose non può parlare a nessuno. Senza dubbio ha delle idee che lui stesso teme.
XVII
Nel suo diario, che mi ha fatto leggere, mi ha colpito soprattutto questo strano aforisma: “Dio è il mio desiderio”.
Oggi, restituendogli il diario, gli ho chiesto cosa intendesse dire. “È un pensiero incompiuto”, ha detto, guardando la pagina con gli occhi socchiusi. “Senza dubbio volevo dire che Dio è il mio desiderio di conoscerlo… no, nemmeno questo…”.
Rise e, arrotolando il quaderno, lo ripose nell’ampia tasca della giacca. I suoi rapporti con Dio sono molto vaghi, ma mi ricordano talvolta quelli di “due orsi nella stessa tana”.
XXVII
Gli piace porre domande difficili e perfide: “Che cosa pensate di voi stesso?”; “Amate vostra moglie?”; “Secondo voi, mio figlio ha talento?”; “Vi piace Sofia Andreevna?”. È impossibile mentirgli. Una volta mi ha domandato, “Mi volete bene?”. Sono le impertinenze di un gigante. Egli ‘sperimenta’, prova come se stesse per battervi con voi. È interessante, ma non mi va molto a genio. È il diavolo, e io sono un lattante, farebbe meglio a lasciarmi in pace.
(I primi appunti intitolati Lev Tolstoj sono stati presi in Crimea, nel 1901; gli ultimi risalgono alla morte di Tolstoj, nel 1910. In volume Lev Tolstoj è stato pubblicato in forma incompleta nel 1919 e in edizione definitiva nel 1923)