Marta ha saputo della malattia lo scorso ottobre. È andata in pensione a novembre. Da allora, mi assicura, è uscita di casa pochissime volte. “Quattro, cinque al massimo.” Ogni giovedì suo figlio le porta la spesa e tutto l’essenziale per la vita domestica. Saponi, detersivi, varie ed eventuali.
GG: Non vai in ospedale per qualche terapia?
Marta: Ci sono andata all’inizio. Non c’era molto ottimismo tra i medici. Nessuno di loro credeva che una terapia avrebbe migliorato fattivamente le cose. Così, dopo alcune sedute, ho preferito interrompere. O guarisco, mi sono detta, oppure niente. A che mi serve allungare la vita di qualche settimana se poi devo soffrire in quel modo?
GG: Nessuna speranza?
Marta: Un miracolo. Ma io ai miracoli non ci credo. A un certo punto, la vita fa di tutto affinché tu smetta di crederci.
GG: Questo “certo punto” quando è stato, per te?
Marta: Quando è morto il mio primo figlio, nel 1989. Aveva sette anni. Eravamo in vacanza a Canepina, un paese vicino Viterbo. Avevamo affittato una piccola palazzina, davvero graziosa. I tre piani erano collegati da una scala a chiocciola. Un giorno, non l’avessimo mai scelta quella casa, Giovanni è inciampato ed è caduto dall’ultimo piano di testa. Si è aperto tutto qui dietro.
Marta mi mostra il punto e, con il movimento della mano, simula la ferita e il sangue.
Marta: Siamo corsi in ospedale, con mio marito. In macchina, sul sedile posteriore, mi tenevo stretta Giovanni e pregavo. Lui, neanche a dirlo, perdeva sangue su sangue, nemmeno aveva la forza di piangere. Gli veniva sonno, anima di mamma. Mi chiedeva il permesso di dormire. “Ma devi stare sveglio!”, gli gridavo io. “Dormi stasera. Adesso resta sveglio, per favore.” Pregavo la Madonna, all’epoca la pregavo sempre. A un certo punto le ho detto, col pensiero: “Vergine Santa, facciamo un patto. Tu mi salvi Giovanni e in cambio ti dono tutti i figli che farò. Gli altri te li potrai prendere dal primo respiro, te lo prometto, ma fa’ che Giovanni non muoia. Ti faccio tanti figli, li faccio solo per te. Ma per favore non Giovanni”. Siamo arrivati all’ospedale. Il tempo di caricarlo su una barella e Giovanni è morto. E ti dico una cosa. Io non credo ai miracoli, ma non credo nemmeno alle coincidenze. A pochi passi da Giovanni, c’era un altarino della Madonna dove i pazienti attaccavano bigliettini con le grazie richieste o ricevute. Hanno portato via Giovanni e io ho gridato: “Madonni’, mi hai preso proprio per il culo”. Mio marito è scoppiato a ridere isterico, non si fermava più. Tutti si sono affacciati a guardarci. Che scena. Dopo un mese e mezzo ero incinta di nuovo. Ma col cazzo che ho continuato a pregare la Madonna. Niente di personale, ma preferisco i santi semplici.
GG: A oggi che rapporti hai con la religione?
Marta: Non credo nei miracoli, ma in Dio ci credo.
GG: Quasi un paradosso.
Marta: No, perché? Io credo in Dio ma non gli affido la vita come fanno quasi tutte le persone credenti. Dio non ha il potere di cambiare le nostre vite. Può migliorarle, può darci un aiuto, ma certo non ribalta le cose. Siamo noi, a volte con il Suo zampino, i responsabili della nostra gioia. Se uno è malato, come posso essere malata io, non dovrebbe pregare il Signore per poter guarire. Dovrebbe pregarLo per avere abbastanza forza da affrontare le cure. Ci vuole coraggio per credere senza aspettarsi nulla in cambio. Bisogna pregare tanto per le piccole cose, per i disturbi minimi, per i fastidi passeggeri, per un incoraggiamento. Le grandi cose, però, spettano solo a noi.
GG: Potresti fondare un tuo movimento eretico.
Marta: Ma no, che eretica. Io mi sento una cattolica che ha capito quasi tutto. Non tutto, ma molto sì. Però, nel dubbio… vieni, ti faccio vedere una cosa. Non si può mai sapere…
Seguo Marta dal salone al corridoio. Un armadietto nella rientranza del muro. Marta lo apre. Tre ripiani. Nel primo una figura in gesso di Gesù, una piccola croce di ferro, una Vergine Maria di ceramica e tanti altri ninnoli religiosi: targhe, santini, biglietti di preghiere. Nel secondo ripiano molte divinità delle tradizioni orientali. Riproduzioni di Buddha a braccetto con Shiva, qualche miniatura di Confucio (dai baffi sembra lui, ma non ci metterei la mano sul fuoco). Altri dei e dee, emissari e vassalli di cui non conosco il nome. Nell’ultimo ripiano, in basso, una statuina della Santa Muerte circondata da minuscole candele.
Marta: La Santa Muerte me l’ha portata mio figlio dal Messico qualche anno fa. Lì è una tradizione molto sentita. Comunque, hai visto quanta roba? Mi tutelo, voglio stare sicura. Perché non si sa mai. Magari ci sbagliamo e dall’altra parte, invece di San Pietro ad aprirci il cancello, troviamo Viṣṇu oppure Maometto. Che ne sai? Tu no, ma io certe domande devo pormele con urgenza.
GG: Ecco, Maometto. Qui manca l’Islam.
Marta: (alza le mani, scherzosa) Ho il Corano di là sul comodino. Sono in regola.
GG: Cambiando argomento. Mi hai detto che da novembre a questa parte sei uscita pochissimo di casa. Come mai?
Marta: Perché non ne ho voglia.
GG: Tutto qui?
Marta: Non voglio incontrare gente. Voglio ricordarmi le persone care senza più cambiare idea su di loro. Guarda, ho staccato il telefono di casa e per tutto il giorno tengo spento il cellulare. Lo accendo solo la sera, dalle sette alle sette e mezza, per sentire mio figlio. Non rispondo a nessun altro. Tu sei l’eccezione che conferma la regola. Solo perché sei il figlio di Irma.
GG: Parli come se fossi già morta. Potresti fare tante cose fuori.
Marta: Ne faccio altrettante qui dentro. Leggo tantissimo, come non ho letto mai in vita mia. Mi diverto a cucinare, sperimento nuove ricette. Navigo su internet, mi informo su quello che succede nel mondo. Se non fossi malata, mi sentirei in colpa a starmene qui dentro. Invece, ora posso farlo: sono giustificata. Voglio rimanere a letto tutto il giorno? Non devo renderne conto a nessuno. Sono malata e faccio quello che mi pare. Poi, se mi prende il matto, nessuno mi impedisce di uscire, figurati. Posso chiamare un taxi, prendere la macchina, andare a piedi, tutto quello che desidero senza impedimenti. Spero di non perdermi la guerra atomica tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord, di vivere abbastanza da poterla vedere.
GG: Questo sì che è alieno.
Marta: Alieno?
GG: Sì, va be’, un modo per dire bizzarro. Anomalo.
Marta: A te l’idea della guerra non mette curiosità?
GG: A volte capita che io mi immagini come una specie di eroe alla guida di un manipolo di soldati ribelli in lotta contro l’oppressione. Ma, alla fine delle fantasticherie, ci sono sempre io che vengo fucilato, o ghigliottinato, o impiccato, o legato stretto e pestato a morte davanti a una folla oceanica. L’eterna gloria dello sconfitto, roba del genere.
Marta: Che fantasie.
GG: E questa è solo una minima parte.
Marta: Come ti piacerebbe morire, Gabriele?
GG: Sicuro non mentre dormo. “Io voglio sentire di morire”, scrisse o disse qualcuno che non ricordo. Ecco, uguale io. Voglio capire la mia morte, studiarne i secondi precedenti e, se possibile, quelli successivi.
Marta: Allora un tumore con metastasi. Non passerà un secondo senza sentire la morte.
GG: Mi hai fatto pensare ai palloncini delle feste. Che giorno dopo giorno si sgonfiano senza che nessuno li tocchi.
Marta: Sono io un palloncino. Guarda che panza.
Marta si alza la maglietta fino al petto. Non indossa il reggiseno.
Marta: Ogni volta che mi guardo allo specchio ho voglia di tirarlo fuori da me, tutto questo male. Quasi due chili. Con un coltello, zac, da sotto a sopra. Mi frega la paura del sangue, a me.
Gabriele Galloni