Siamo ai suoi piedi; solo ciò che è debole e prossimo alla sparizione per pietra può partorire Dio. Il collo teso e l’ovale del viso prefigurano Modigliani; la tenerezza è tutta interiore, remota, più lontana di Andromeda, però, gli occhi non sono diversi dalle ferite sul costato – sono spaccature. Ciò che è, è stato, sarà: tutto converge sul corpo di una ragazzina ebrea, pronta al mistero. La Madonna è severa, perché ha l’inesorabile a fior di labbra: potremmo averla vista passeggiare per le strade di Urbino, rigida di fronte alle guasconerie dell’artista; ha i tratti, piuttosto, di un’icona. Umana per eccesso, potremmo dire, intimidisce per umiltà. Spoglia di ogni tratto divino – non è Atena e non è Iside, non è Ishtar né Diana né Izanami – attrae perché si consegna, ci si inginocchia a lei perché ci copra. La tunica di questa Madonna è acqua. La testa è inclinata, verso il piccolo Giovanni, nella stessa diagonale del Figlio, enorme e innaturale – pare un piccolo Buddha – che le sta sulle gambe, e benedice – e chi sceglie muore per lui, benedizione è unzione alla morte. Il crocevia degli sguardi tra la Madonna, Giovanni e il Bambino, forma un triangolo e triangolare è la composizione del quadro. Il doppio triangolo ci sega le braccia, restiamo puro torso, pari a un’accetta, suono, forse. Dunque, l’opera non si ammira: ci si getta. Ammirare la bellezza della Madonna è sacrilego; lascia che ti inghiotta.
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Gustav Friedrich Waagen, storico dell’arte tedesco, la vide nel 1841, e vide bene. “La Madonna col Bambino sulle ginocchia […] nell’atto di guardare Giovanni, un’opera d’arte su legno con figure a grandezza naturale; si suppone che sia un Perugino, io però la considero un’opera tra le prime di Raffaello”, scrive a Ignaz von Olfers, diplomatico incaricato di custodire le collezioni imperiali. “Devo assolutamente impormi di acquistarlo per 150 talleri Luigini, poiché questo dipinto presumibilmente sarà uno dei più richiesti del mondo”, conclude. Così l’opera, pezzo di spicco della collezione del marchese Audiface Diotallevi di Rimini, compratore ispirato – “il ritratto di un giovane dal grande fascino”, che per Waagen era un Leonardo, è ora, attribuito a Boltraffio, al Museo Puškin di Mosca – passò a Berlino, al Bode Museum, dove è custodita.
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La Madonna Diotallevi di Raffaello che torna a Rimini, da Berlino, pur per lo spazio di una mostra – a cura di Giulio Zavatta, a cui sono debitore per le informazioni, ricavate da Raffaello. La Madonna Diotallevi, NFC, 2019 –, mi ricorda quando la Madonna Sistina fu esposta a Mosca, nel 1955. Quell’esposizione colpì profondamente Vasilij Grossman, che a partire da lì scrisse un articolo memorabile. Secondo Grossman, la Madonna Sistina raffigura “qualcosa che rimane inaccessibile alla mente umana… la bellezza che si nasconde, profonda e indistruttibile, dovunque nasce ed esiste la vita – negli scantinati, nelle soffitte, nei palazzi, nelle prigioni”, tanto che “se anche l’uomo morirà, altri esseri che resteranno sulla terra al suo posto – lupi, ratti, orsi, rondini – verranno, camminando o volando, ad ammirare la Madonna”. Dieci anni distanziano la Madonna Sistina dalla Madonna Diotallevi: un millennio per un pittore come Raffaello. La Madonna Sistina è di una umanità commovente; la Diotallevi è inalterabile; una ha timore, afferra il suo bambino con le mani, l’altra regge il Bimbo sulle gambe e ha la ferma serenità di un re. A una vorrei confessarmi, all’altra consegnarmi. Se la Madonna Sistina era esposta come un vessillo di vittoria – “le truppe vittoriose dell’Esercito Sovietico ritornando in patria dopo aver sconfitto e annientato l’esercito della Germania fascista portarono a Mosca i quadri della Pinacoteca di Dresda” – esporrei la Madonna Diotallevi per le strade, come segno di salvezza. Si dice che Eraclio I, imperatore di Bisanzio, riuscì a vincere Cosroe II a Ninive, nel 627, ergendo davanti a sé una icona della Madonna. A Lei si appellano i re e i derelitti e credo che la cronologia stia su un palmo di mano, che tra Berlino e Rimini, Bisanzio e Mosca non ci sia distanza. Anche le costellazioni e le galassie sono desunte nel panno con cui si cinge la Vergine.
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Madonna Diotallevi, poi, elevando il segno grafico – Madonna-Dio-ti-allevi – è la Donna elevata a Dio, la Madre che alleva il Figlio e ne è allevata, sollevata al mondo, “Vergine madre figlia del tuo figlio”.
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Il fatto che di lei non si sappia quando sia stata dipinta e perché, che per decenni l’abbiano attribuita al Perugino, rende ai miei occhi ancora più sacra la Madonna Diotallevi. Essa sfugge all’idolatria estetica e all’identità artistica, non si fa cogliere, è ritrosa alla didascalia e alla didattica, è pura, severa pietà.
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Nel Liber de Nativitate Mariae viene raccontata la “presentazione al tempio” di Maria con queste parole: “I genitori deposero dunque su uno di questi gradini la beata vergine Maria, ancora piccola… la Vergine del Signore salì tutti i gradini, ad uno ad uno, senza che nessuno le desse la mano per guidarla e sollevarla… Il Signore operava già qualcosa di grandioso durante l’infanzia della sua Vergine”. La scena sembra la descrizione di una delle opere più mobili, sinuose, ardite di Tintoretto, la Presentazione della Vergine al Tempio, custodita a Venezia nella Chiesa della Madonna dell’Orto. Mentre nei Vangeli canonici, di fronte all’angelo, Maria trema, è turbata, in questo testo, apocrifo dell’VIII secolo, è inflessibile, “non si spaventò della visione angelica né si stupì per la luce immensa”. Una Madonna scolpita sembra la Diotallevi – senza sconfitta.
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Il centro del quadro è un triplice nodo: quello che regge la tunica blu della Donna, quello che ne sostiene il vestito, rosso; in mezzo, in forma di sigillo, le mani del Bimbo. L’occhio di entrambi i nodi replica le dita del Figlio: ogni cosa ha legami se ti leghi a Lui.
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Questa Madonna, eternamente giovane, sembra aver subito tutte le nascite, sembra aver partorito Cristo e tutti i poveri cristi della terra. È consapevole della morte: guarda Giovanni e già vede la testa spiccata e composta sul vassoio d’argento; del Figlio sa la regalità in Croce, una basilica fondata sui chiodi e sull’abbandono. Mi sorprende il blu alle spalle della Donna – ieri, in bicicletta, alla foce di un fiume, ho fotografato il cielo. La luce di ottobre, albina, rende il cielo nuovo: forse è lo stesso che guardava Raffaello, forse soltanto l’azzurro non cambia – la verità è immodificabile, ma Dio è detto e contraddetto fino a usurare i cardini della pazienza. Il cielo di Raffaello è al contempo vero – vedo il vento – e mistico: è una scala che comincia, all’orizzonte, con un lucore bianco, un albume, e diventa, all’estremità dell’opera, nero. Il blu deflagra – tra il lapislazzulo degli Scrovegni e il blue Klein – ed è un boato, una bocca. Sussulto nella preghiera – osceno è ‘andare in visita’ alla Madonna Diotallevi, da te pretende vita, per lo meno verità – ma è lei ad assumermi nel suo silenzio. (d.b.)