17 Ottobre 2020

Lucio Fraschetti, lo scultore dei fantasmi del mare, un artista indifeso, all’oscuro di se stesso. Sarebbe piaciuto a Pier Paolo Pasolini, ci ha folgorato

Lucio Fraschetti, un nome che non dice granché. Un artista come tanti, in ogni palazzo ce n’è almeno uno, a dar retta a tutti avremmo più mastri che gatti. Come dargli torto, ma nemmeno questo falò di luoghi comuni riesce a bruciare il talento cristallino di questo scultore dalla timidezza antica. Lucio Fraschetti è artista a sua insaputa. Ma a differenza di quelli che non ricordano d’aver fatto parte di partiti politici e consigli d’amministrazione, Fraschetti davvero ignora il suo talento. Non se ne rende conto, e se qualcuno glielo fa notare preferisce dirottare su quello degli altri. Nel tentativo di farlo conoscere al grande pubblico nonostante la sua ritrosia, Pangea l’ha adottato come si adottano quegli artisti essenziali ma indifesi. Perché all’oscuro di sé stessi.

“La famiglia”

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Un talento non scolarizzato

La sua ingenuità sarebbe piaciuta a Pier Paolo Pasolini, la distanza siderale a cui si è sempre tenuto dalle relazioni speculative – per intenderci, quelle su cui poggiano le carriere artistiche più vuote eppure più remunerative – sarebbero piaciute all’autore de Il Vangelo secondo Matteo. Sempre senza volerlo, Fraschetti risponde alla dottrina pasoliniana del talento puro, possibilmente analfabeta, incontaminato perché ignaro. Un talento “non scolarizzato” che Fraschetti esprime sotto forma di luce, classe purissima e misura: misura delle parole (parla pochissimo) e delle opere (che non manda in giro volentieri). Ultra settantenne, ex dipendente dell’Alitalia che fu – quella che i suoi soldati li mandava in giro per il mondo, almeno finché è stato possibile –, il maestro Fraschetti vive e alimenta la sua bottega in un quartiere popolare ancora a misura d’uomo della Capitale, Montagnola. Qui ha passato tutto il lockdown lavorando sul balcone di casa, scolpendo senza altre distrazioni mentre ai dirimpettai sembrava strana, persino un po’ ostentata, la sua serenità d’animo e d’orizzonte. Ma come? Ci chiudono in casa come cani in punizione e lui scalpella fantasmi di legno? Già perché a stupire non è come ma cosa, la trasposizione delle intuizioni di un uomo placido, apparentemente rinunciatario, molto assorbito dalle cose del mondo. Un piccolo Kafka che sente il destino degli oggetti che trova, un’anima inquieta dentro un borghese recalcitrante. Eppure in quella sagoma appagata si nasconde un vero intagliatore, uno stakanovista che – come gli scrittori veri, quelli che su un sostantivo ci passano settimane – con la materia ingaggia un corpo a corpo, una battaglia al cui termine o esce un pezzo vero o non se ne fa niente.

“La chioma di Berenice”

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Lo scultore spazzino

Quando può se ne va sul litorale scansato dalla movida e dalle isterie di Roma, e sulla battigia di quelle spiagge – indistintamente, sia d’estate che d’inverno – raccoglie legni, plastiche, corde e altri rifiuti che il mare ogni tanto espelle. Come il vomito di una indigestione secolare, il rigurgito di vissuti così dannati che nemmeno tutta quell’acqua ce la fa a contenere. Non è escluso che quelle tavole, quelle zattere ormai disintegrate e quelle corde siano appartenute ai profughi che il mare l’hanno attraversato nel tentativo di approdare in Europa, alcuni riuscendoci alcuni altri senza fortuna purtroppo. Sarà per questo che i suoi uomini di legno e latta, di plastica e monnezza, hanno anticipato di così tanto (Fraschetti li realizza da fine anni Novanta, NdA) la decomposizione degli esseri umani, la dematerializzazione delle forme viventi sulla terra. Sarà per questo che gli spettri a cui dà forma sono senza spina dorsale e nervi, senza vertebre e scatole ossee, sezionati dall’interno, oggetto di un’autopsia sociale che anziché la scatola nera degli uomini cerca quella degli effetti del mondo su di loro. Nei suoi lavori, prima di diventare narrazione i respinti acquistano il biblico diritto all’immortalità; gli scarti d’umanità incarnano il vero peccato originale, l’indifferenza. Dentro le sue opere si agitano le nostre colpe, pentimenti a cui nessuno riesce a dare un nome e soprattutto un senso.

“La materia dell’uomo”

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La voce dei materiali

Fraschetti è un vecchio uditore della natura, un nostalgico del rapporto col nòcciolo che quelli come lui sono chiamati a estrarre prima di mettersi al lavoro. Ha imparato qua e là da tante scuole e a sua volta da tanti maestri, senza mai perdere la gioia dell’imbarazzo, senza smettere di sentirsi inadeguato, ospite di una galassia troppo vorticosa per i suoi gusti. La timidezza e la ritrosia l’hanno sempre tenuto fuori dai giochi che contano, lontano dagli agenti e dai giri che condizionano le gallerie più influenti del Paese, tuttavia quei pochi musei e gallerie che si accorgono di lui ne restano folgorati dall’autenticità, dall’irregolare perfezione, dalle opere che sembrano aver preconizzato la putrefazione materiale e spirituale dell’uomo. L’elemento che preferisce è il legno, dal momento in cui ne raccoglie un pezzo solo lui sa dove condurrà quell’incontro. Ma è con marmo e terracotta che raggiunge l’apice delle sue espressioni, alcune delle quali di palese matrice classica. In ogni creatura si intuiscono studi, reminiscenze e letture via via sedimentate, ma la seduzione del passato non gli impedisce di leggere il futuro come pochi altri hanno saputo fare. Non interpretandone in anticipo i canoni estetici (genio che alcuni critici attribuiscono, piuttosto severamente, soltanto a Picasso), ma avventurandosi – trent’anni prima di molti suoi colleghi – in un territorio inesplorato come la riabilitazione materiale, in una terra straniera come la rianimazione degli oggetti rinnegati paradossalmente da madre terra. Questo ciclo biologico, che respinge e riaccoglie oggetti e destini allo stesso modo, fa di Lucio Fraschetti un modello d’artista unico: per l’età, che ormai gli permette di ignorare ogni vanità; per l’arte, che più passa il tempo e più sembra abbandonarsi tra le mani di questo maestro d’ascia di navi da deriva; e per il pudore, con cui licenzia tutte le sue creature come degli incidenti di percorso, delle bugie a fin di bene. Estremizzando si potrebbe dire che Lucio Fraschetti è uno “scultore spazzino” (fate attenzione, lo dicevo di sé stesso un certo Dino Buzzati), etichetta che solo un artigiano – oltre che un uomo davvero autentico – riuscirebbe a portare come la porta lui, con la semplicità degli onesti. Ha dedicato la vita ad ascoltare le cose che scolpisce, senza interessarsi se (e a chi) potessero interessare. Ecco la differenza tra lui e l’oggi. Lui c’è, l’oggi si chiede chi c’è.

Davide Grittani

*In copertina: Lucio Fraschetti a Roma, presso la Casa Museo Alberto Moravia

*Davide Grittani (Foggia, 1970) ha pubblicato la raccolta di reportage C’era un Paese che invidiavano tutti (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi Rondò (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli); E invece io (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017); La rampicante (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019, vincitore dei premi Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, finalista dei premi Città di Grottammare 2019, Etna Book 2019 e Il Litorale 2020, quindi inserito nella lista dei migliori libri del 2018 dall’inserto la Lettura del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mezzogiorno, cura la collana di reportage narrativi Dispacci italiani (Viaggi d’amore in un Paese di pazzi) per Les Flaneurs Edizioni.

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