Luciano Bianciardi era uno scrittore strepitoso e un uomo buono e incazzato che ce l’aveva un po’ con tutti, ma che ha finito per fare del male solo a se stesso. Amava il Risorgimento, il calcio e le gambe della Carrà. Non faceva sconti a nessuno e vedeva lontano. Ho deciso di dedicargli un pomeriggio d’estate, facendo una passeggiata nelle strade che hanno fatto da sfondo ai suoi anni milanesi e che, più o meno mascherate, sono presenti nelle pagine de “La vita agra”, il suo magnifico romanzo che è anche un ritratto preciso e spietato, migliore di tanti saggi storici, della trasformazione sociale, culturale e oserei dire antropologica che si è verificata in Italia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta.
Prima di iniziare questo breve viaggio, va detto che Bianciardi non è mai riuscito a entrare in sintonia con Milano. Ci ha vissuto per molti anni, ha conosciuto un sacco di gente, ma è sempre rimasto un estraneo. Non c’è da stupirsi. Per come era fatto e per come la pensava era destinato a sentirsi un esiliato ovunque, a cominciare dalla sua Grosseto. Il passaggio tratto da “La vita agra” riportato qui di seguito la dice lunga in proposito.
Bastano pochi mesi perché chiunque si trasferisca qui si svuoti dentro, perda linfa e sangue, diventi guscio: tra 20 anni tutta Italia si ridurrà come Milano.
Era venuto a Milano per incontrare gli operai delle grandi fabbriche e invece ha trovato ragionieri ottusi, caporedattrici stronzette e segretarie con le gambe secche. Era sbarcato speranzoso alla Stazione Centrale un mattino del giugno del 1954 per lavorare come redattore alla Feltrinelli e finirà per morire, distrutto dall’alcol, nel novembre del 1971 in un letto dell’ospedale San Carlo solo come un cane.
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Partenza d’obbligo da Brera. La vecchia casa di ringhiera con i muri scrostati di Via Solferino 8 dove ha vissuto con Maria Jatosti, la sua donna, in una pensioncina al terzo piano non esiste più e al suo posto c’è un palazzo nuovo, moderno e razionale. Non gli sarebbe piaciuto.
Poi il dedalo di viuzze che Bianciardi ha percorso in lungo e in largo. Sono ancora tutte lì, ma molto cambiate. Giorno dopo giorno la Brera dei pittori, delle latterie e delle trattorie economiche è stata soppiantata in modo inesorabile dall’avanzata degli show room degli stilisti e da una pletora di ristorantini finto poveri. Le vecchie case di tolleranza prima sono state chiuse dalla legge Merlin e quindi si sono via via trasformate in costosissimi locali alla moda. Resiste il Bar Jamaica, ultimo baluardo sempre lì al suo posto, ma anche qui la clientela è cambiata; gli artisti squattrinati sono stati sostituiti da frotte di turisti russi e giapponesi.
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Pochi passi ed eccomi in Via Palermo, fermo davanti al numero 10 dove c’era lo sferisterio. Un posto incredibile che sembrerebbe inventato se non fosse stato vero. Negli anni Sessanta tra gli spettatori più fedeli c’era anche Luciano Bianciardi che parlerà di quelle serate allo sferisterio di Via Palermo nelle pagine de “La vita agra”. Alcuni dei giocatori della pelota condividevano con lui le stanze della vecchia pensione in Via Solferino.
Aldezabal, Gazaga, Barranocea. Nomi composti da sillabe che sembrano rimbalzare contro un muro come una palla di caucciù. Chi si ricorda più di loro? Eppure ci fu un tempo in cui per vederli giocare un sacco di gente andava alla sera allo sferisterio di Via Palermo. Sulle gradinate arrivavano fino a 800 persone, con punte di 1200 nel fine settimana. Ai milanesi la pelota basca piaceva, e poi si poteva anche scommettere. Dopo ogni incontro infinite discussioni tra i delusi del risultato; c’era sempre chi gridava alla combine, i toni si accendevano, ma poi cominciava una nuova partita da seguire e su cui puntare per rifarsi.
Attorno al campo giravano le puntate e le urla di una Milano molto varia. C’era il bullo di quartiere, il malavitoso, l’avvocato di grido e con il passare degli anni arrivarono anche le signore “bene”, attratte dalla fama di quella sala piena di fumo.
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Un rapido passaggio in Via Fatebenefratelli 15 per vedere il lussuoso palazzo dove c’era la prima sede della Feltrinelli, la casa editrice che ha licenziato Bianciardi per scarso rendimento (Vergogna! Vergogna! Vergogna!). Lo accusavano di arrivare tardi in ufficio e di trascinare i piedi quando camminava nei corridoi. Lui comunque si è vendicato scrivendo pagine al fulmicotone nelle quali fa a pezzi un certo mondo “tutto fumo e niente arrosto” dell’editoria di allora e anche di oggi.
La verità è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici: gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera ma che dà l’impressione – fallace – di star lavorando. Si beccano persino l’esaurimento nervoso.
Di sicuro quello non era un mondo fatto per lui. Un episodio su tutti. Ogni tanto Giangiacomo Feltrinelli convocava i dipendenti della sua casa editrice per interminabili riunioni durante le quali li intratteneva per ore con infiammati discorsi rivoluzionari. Durante una di queste riunioni Bianciardi, infastidito dalla retorica pseudobarricadera del suo datore di lavoro arci miliardario, si alzò, si avviò verso l’uscita della sala ma invece di mettersi il suo vecchio paltò più volte rivoltato si infilò l’elegantissimo, e costosissimo, cappotto di cammello di Feltrinelli. A quel punto si voltò un istante, diede un’occhiata intorno, alzò il pungo e gridò: “Viva la lotta di classe!”. Dopo di che uscì, orgoglioso del suo nuovo cappotto.
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Passo dopo passo mi spingo fino in Largo Donegani, angolo Via Moscova, dove il grattacielo della ex Montecatini, il “torracchione” come lo chiamava Bianciardi, è sempre lì in attesa di un anarchico che lo faccia saltare in aria. Il protagonista de “La vita agra”, alter ego dell’autore, viene a Milano proprio con l’intenzione di distruggere l’odiato simbolo del capitalismo e vendicare così la morte di 43 minatori avvenuta nel maggio del 1954 nei pozzi di Ribolla in Maremma di proprietà della Montecatini. Una tragedia che al tempo colpì molto Bianciardi e alla quale dedicò anche un saggio, “I minatori della Maremma”, scritto a quattro mani con Carlo Cassola.
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Adesso mi sposto in zona Fiera, più precisamente in Via Domenichino 2, davanti al condominio dove Bianciardi era venuto ad abitare con Maria, la sua donna. Per ironia della sorte, lui, che detestava i grattacieli, finì per trovare casa proprio in un grattacielo. Dalle sue finestre poteva vedere dall’alto il panorama di una Milano in buona parte ancora industriale punteggiato dalle ciminiere delle tante fabbriche installate in città. Non è escluso che sia stato proprio il fumo di quelle ciminiere a ispirargli il soprannome di “la Fumigante” per Milano. L’appartamento era di proprietà di Carlo Ripa di Meana, che allora dirigeva la libreria Feltrinelli di Via Manzoni e che Bianciardi ha voluto ricordare nella dedica iniziale de “La vita agra”. Forse per ringraziarlo. Chissà? Va detto che questa, molto probabilmente, è stata la sua unica vera casa milanese.
Qui non è cambiato niente da allora; al pian terreno del condominio c’è ancora il grande supermercato, uno dei primissimi aperti a Milano e in Italia, il tempio del consumismo che lo mandava in bestia. Navigando su Internet è possibile trovare una meravigliosa fotografia di Luciano Bianciardi che si aggira tra i banchi ricolmi di merce di un luccicante supermercato. Credo proprio che sia stata scattata in quello sotto casa sua. Quel che è sicuro è che lui ha lo sguardo atterrito, come di chi si senta sperduto in una foresta ostile popolata di orribili mostri pronti ad annientarlo.
Lungo lo stesso marciapiede c’è anche il bar dove alla sera dopo cena, con Maria, scendeva per andare a vedere la televisione. Non c’è da stupirsi perché in quegli anni la televisione era una novità e per molti versi aveva assunto il ruolo di cantastorie moderno con il potere di radunare la gente intorno a sé. Oggi queste piccole folle riunite davanti a un televisore nei bar fanno sorridere per la loro ingenuità, ma a pensarci bene tutto sommato era uno spettacolo meno malinconico dei tanti piccoli zombi dei nostri giorni, ognuno chiuso nella propria stanzetta, con il proprio apparecchio tv personale, la propria cuffia, isolato dagli altri e da tutto il resto del mondo.
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Sono in Via Monte Rosa e attraverso la strada come faceva Bianciardi nelle sue passeggiate mattutine prima di cominciare a massacrarsi con le traduzioni. Ecco l’edicola di Piazza Amendola dove si fermava sempre a comprare i giornali. Poi entro a prendere un caffè nel bar tabacchi all’angolo con Via Previati, ma alla cassa non c’è più la vecchia padrona che lo guardava storto perché aveva la barba lunga e andava in giro a quell’ora del mattino. Ritorno sui miei passi e per riposarmi un po’ mi siedo su una delle panchine dei giardini che stanno al centro della Via Domenichino. Ogni tanto lo faceva anche lui. Si metteva lì con il bavero del cappotto alzato e le mani infilate nelle tasche circondato dal traffico degli anni del boom che scorreva intorno a lui e probabilmente pensava a questa strana città che gli è sempre rimasta estranea anche se alla fine, almeno un po’, aveva finito per affezionarsi.
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Ultima tappa in Via Boccaccio, la stazione finale della personalissima “via crucis” milanese di Bianciardi. Tornato dall’esilio di Rapallo si era sistemato qui in un appartamento del primo Novecento trovato da Maria, che però, per salvare se stessa e il loro bambino, se ne era andata a Parigi lasciandolo più disperato che mai a completare la sua autodistruzione. Mi guardo un po’ in giro, ma me ne vado via subito. Non so a che numero fosse venuto ad abitare e poi quando è arrivato qui ormai Bianciardi, per dirla alla milanese, aveva tirato giù la clèr ed era partito per altre strade. Da un pezzo ne aveva pieni i corbelli di tutto e di tutti.
Silvano Calzini