13 Gennaio 2022

“A pelle”. Per Vitaliano Trevisan

Il peggiore dei mondi possibili. Questa valle è il peggiore dei mondi possibili, pensai. Perché qui più che altrove vi domina la volontà di sopraffazione, una volontà che trova in questa valle la sua più compiuta realizzazione. Questa valle è attraversata dalla ottusità come è attraversata dal suo torrente ripugnante. Ogni cosa, ogni persona che vi si trovano a nascere ne rimangono irrevocabilmente segnati. I loro corpi, le loro facce: ogni cosa, pensai. Niente si salva. L’esistenza che vi si conduce è atroce.

La liturgia della pelle ha annientato la religione cattolica. Questo pensai mentre camminavo ai margini della collina che domina il centro storico, uno squallido agglomerato di case di sasso cresciuto senza alcuna logica. Tutto in questa valle ha la consistenza del cuoio. Un carattere indurito dai venti pedemontani, da secoli di contrabbando è divenuto micidiale nelle fabbriche. Non si dovrebbe offrire a chiunque la possibilità del riscatto sociale. Ad Arzignano meno che mai. Arzignano, questa disgustosa cittadina della valle del Chiampo, disgustoso come solo possono esserlo le cittadine del Veneto sconvolte dalla ricchezza improvvisa. Arzignano ha guastato la mia esistenza con la sua grettezza spietata, pensai, mi ha condotto alla malattia, una malattia che certo portavo dentro di me dalla nascita.

I genitori. I genitori sono i più dissoluti criminali; la famiglia ci corrompe da quando veniamo gettati in questo mondo schifoso e infelice. L’infanzia è l’età in cui veniamo feriti inconsapevolmente, in cui gli affetti ci travolgono e ci soffocano. La famiglia genera infelicità per soddisfare le proprie aspettative di rivalsa. E ad Arzignano la famiglia è orribile più che altrove, i genitori sono più orribili e generano infelici tarati dagli scarichi delle concerie che appestano la valle già ammorbata dalle continue processioni degli autotreni che la attraversano di giorno non meno che di notte. Mi domandai come, in passato, avessi potuto pensare di ambientarmi in questa valle. Avrei dovuto intuire che l’idea di potermi ambientare in questa valle fosse un evidente sintomo di malattia, che la mia mente era stata irrimediabilmente colpita dalla nevrosi che in questa valle si respira ininterrottamente. Osservai che niente di questa valle era intatto, che tutto partecipava della stessa desolazione. Che uno spirito sufficientemente acuto ad Arzignano non avrebbe avuto scampo.

L’alcolismo è un tratto inestirpabile a queste genti che si ammalano per sopravvivere. Le infezioni respiratorie vi si diffondono fin dalla più tenera età e la salute psichica è minacciata forse anche più gravemente dei polmoni, pensai abbandonando il sentiero e dirigendomi verso la piazza centrale del paese. Il puzzo della pelle trattata chimicamente stagnava sui banchi del mercato che ha luogo ogni martedì. La ripugnanza delle donne musulmane traspariva dai loro veli. Gli abiti impuzzolentiti dalle spezie. Le voci gutturali dei venditori che esibiscono merci di qualità e gusto scadenti, pensai, possono colpire solo chi vive in questa valle e nelle sue più lontane contrade. Un rito opprimente, sfacciato, che si riproduce senza sosta. Tutto ruota intorno a questa piazza come tutto ruota intorno alla pelle. Una industria brutale, che annienta ogni residuo di umanità.

Come possono non arrivare al suicidio, pensai, come possono concepire una esistenza che si consuma tra queste colline sconvolte dalla fatica? Così pensai giungendo all’angolo della piazza con il “Corso”, un breve rettilineo pavimentato che incrocia il Duomo e la Banca, la Chiesa e il Tempio. Soltanto la spavalderia, l’atroce arroganza di queste genti può chiamare “Corso” una tale meschina striscia lastricata. Pochi metri in queste cittadine disgustose sono sufficienti ai loro abitanti per sentirsi al centro dell’esistenza. Ci si conosce tutti in queste cittadine disgustose, niente sfugge alla Comunità. Il suo abbraccio è soffocante, spietato. Una famiglia oscena, dalla quale ci si libera soltanto con la fuga o con la morte, pensai, mentre un paesano corpulento, lo sguardo ostile, gonfio di vino mi si fece incontro. Il suo saluto fu pronunciato con la rozzezza bestiale del dialetto della valle, un dialetto atroce, di una ottusità indegna.

S. mi era stato presentato anni addietro, quando ad Arzignano, che già detestavo, presi alloggio. Costui aveva ripreso da poco tempo il lavoro di operaio in una delle innumerevoli concerie che funestano la valle. Un lavoro orribile, eseguito in fabbriche orribili, pensai, dove l’uomo che vi si trova impiegato viene guastato irrimediabilmente e condotto senz’altro alla demenza, come S., che aveva trascorso alcuni mesi nel padiglione psichiatrico dell’Ospedale di Montecchio. Il suicidio, pensai osservandolo, è preferibile all’annientamento dello spirito provocato dalla lavorazione della pelle. La demenza, in questi operai, è l’esito più naturale, più coerente perfino. L’alcolismo, le droghe non sono che il sintomo di una psiche distrutta, fatta a pezzi da una valle atroce, da un lavoro atroce, da una logica spietata. La logica, pensai, su queste genti, non può che provocare aberrazione. La logica, in generale, non può che provocare aberrazioni. Tutto in S. tradiva l’aberrazione del valligiano, la sua faccia sconvolta da tremori, abbrutita dalle esalazioni chimiche e dal vizio. La sua esistenza mi ripugnava, pensai, eppure la mia esistenza non era da preferire giacché anche io avevo preso alloggio in questa cittadina disgustosa. Noi riteniamo la nostra esistenza più degna quando ci rivolgiamo ai più umili, ai disgraziati come si usa dire in terre piagate dal cattolicesimo. Eppure non affermiamo altrettanto quando siamo oggetto del disprezzo, del disgusto dei benestanti, pensai. È la logica che ci rovina, che corrompe ogni cosa. La logica che ci fa commettere i crimini più atroci. Nessun pazzo è tanto pazzo quanto il pazzo che fa uso della logica. E ad Arzignano la logica era spietata, sconvolgente.

* Scrissi queste righe – prologo ad un racconto incompiuto e che tale resterà – in anni dimenticati ed imprecisati, quando ad Arzignano, ai piedi della valle del Chiampo ancora abitavo. Ignoravo che a vegliare su questa ripugnante concrezione di cattivo gusto e denaro vi fosse Lui, VT, ed il suo esilio a Campodalbero. Di certo T conosceva alla perfezione queste contrade – ne offre ampia esposizione lungo i suoi scritti. Affascinato da TB cercai di riprodurne il taglio scabro lungo le sponde del ripugnante torrente che attraversa la valle. Senza capire che T, questa biopsia l’aveva già compiuta, ed assai meglio di quanto mai avrei saputo fare io; spezzata in partiture ed improvvisazioni, i suoi standards ne colgono il segno più puro e sguaiato. Inconfondibile per chi ha esperienza del disagio non meno che della vita. Ammesso che disagio e vita siano districabili.

Un omaggio, un requiem tardivo, V. Ti sia lieve la terra.

Luca Ormelli, 10/01/2022

*Le fotografie pubblicate, di Luca Ormelli, sigillano il tributo che l’autore ha voluto porgere a Vitaliano Trevisan: ritraggono la casa dello scrittore, in seguito a un pellegrinaggio, un saluto ultimo.

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