La forma è quella del labirinto. Mi riferisco al romanzo intitolato “La mano” di Luca Doninelli, uscito nel 2001. Ricordo che rimasi deluso dallo spettacolo che se ne fece, cinque anni dopo la pubblicazione, a Milano. La parola degli attori veniva coperta dal frastuono della musica elettrica, imperante, continua, in contrasto con la precisione linguistica del romanzo, vero e proprio segno totale di abbraccio, di pietà, espressione di un senso più alto, inciso in quella storia drammatica in atto, che si muove in azione ogni volta che il lettore la legge. Ha questo potere di accadere, di toccarti.
La parola è assillo di salvezza, desiderio di perdono, vera necessità cristiana di preghiera. Ho avuto come una visione, a un certo punto, rileggendolo, e il testo che scrivo riporta questo sentire, vedere. Improvvisamente mi si è profilato davanti lo spettacolo dei due fratelli Jerry e Isabel, lui a torso nudo e jeans, lei, la giovane novizia, indossa un camicione bianco, è scalza, grida dal fondo della sua anima, delle sue viscere, del suo petto incendiato di pathos: “Quanto dovrò pregare per sentirmi perdonata?”. È disperata come un’eroina greca, come un’Antigone che rivuole il corpo del fratello, vuole che gli si restituisca la vita del fratello. Dopo una breve pausa, sempre con lo stesso animo inquieto ma più rassegnata, o colma di rassegnazione che cova sotto la cenere, Isabel dice:
“Non voglio precipitare, ma come si fa a non precipitare? Se smetto di parlare di Jerry, mi sento precipitare perché lo perdo. Se parlo di lui mi sento precipitare lo stesso per la gran pena”.
Nella mia immaginazione si profila uno scenario magnifico, quello della cattedrale di Santa Maria Annunziata di Otranto. Gli attori calpestano le oltre seicentomila tessere che formano il pavimento a mosaico. Figure distese che si affastellano, si confondono, si aggrovigliano, vivono nei nostri occhi attraverso le ramificazioni dell’albero immenso della vita, che procede rettilineo, al centro della navata principale, longitudinalmente, sviluppando il suo maestoso tronco dall’entrata all’abside, e spandendo i suoi rami ai lati, in cui campeggiano figure, o scene con figure, circonfuse dai rami, o clipei ad uso di cornice, che racchiudono infinite rappresentazioni sacre e non, ma più sacre che non. Tutto è sacro, come nella vicenda di Jerry e Isabel, è per questo che l’ho pensata lì, trasposta, per miracolo (penso io), in quanto non si tratta di pura immaginazione.
“Dunque io camminavo verso casa – dice Isabel –, da un lato sollevata ma dall’altro terrorizzata, più che terrorizzata, come se avessi visto un fantasma. Ma il terrore non era finito, anzi… A un certo punto sento una mano che mi afferra per la spalla, da dietro. Era la spalla sinistra, e la mano era una mano sinistra, la sua mano sinistra”.
La sua, del fratello, il suo amato fratello, che lei vede a poco a poco finire, smarrirsi, nell’ossessione di quella mano che non risponde più alla sua volontà.
“Ho frequentato una volta un corso di immaginazione – continua a dire Isabel –. Proprio così. Si trattava di un corso dove si insegnava a immaginare le cose con precisione. Ad esempio quando mi rilasso io non penso mai a degli alberi qualsiasi agitati dal vento. Penso a dei particolari alberi di cui conosco le caratteristiche. Non ci sono due alberi che si muovono al vento allo stesso modo. C’è in certi alberi una forza nascosta, la loro sommessa energia… Ed ecco il miracolo: ti pare di sentire davvero quell’energia, quel vento, quel profumo, ma soprattutto quella tranquillità fittizia, che diventa reale, e tu ti senti veramente tranquilla… Ecco, in questo modo l’immaginazione tocca la realtà, però la realtà resta un’altra cosa, puoi riempirti di immagini, di profumi, di cose deliziose, ma la realtà resta un’altra cosa. Una mano, o ti tocca o non ti tocca… Che Dio esista e abbia pietà di tutti. Vorrei che fosse così”.
Avere pietà di tutti, riuscire in questo! Vedo Isabel che si sposta sul pavimento prezioso, pavimento che si può calpestare nonostante la sua magnificenza, la sua maestà di opera d’arte, di capolavoro dell’arte di tutti i tempi, Divina Commedia dell’arte figurativa, a un secolo di distanza circa dal poema di Dante. Ebbene, Isabel cammina lievemente su quel portento d’opera, è scalza, sembrerebbe dirigersi senza una meta, invece cerca un’immagine, che è quella del serpente, di Eva tentata dal serpente, quindi la raggiunge, la indica, nel quadrato centrale del tiburio, e dunque si ferma, sorride:
“Non possiedo quasi niente, ormai. E quello che ho, non è per me, ma per Dio. Erik, il mio pitone, è l’unico essere che mi abbia accompagnato dalla vita pazza di prima alla vita santa di adesso”.
Storia estrema, borderline, c’è addirittura un pitone che si aggira. Isabel continua a recitare: “Io ho vissuto tutta la vita, si può dire per mio fratello. Mio fratello è Jerry Olsen. Il grande Jerry Olsen. Ora il suo nome fa paura per il modo in cui morì. Ma prima faceva paura per il modo in cui suonava la chitarra. Il figlio di Jerry è Ez, Ezra Mortimer, quello che suona tenendo in testa il cappuccio di Topolino, con tanto di orecchie a sventola”. Entrano in scena Jerry e Ez e iniziano a suonare le loro chitarre elettriche, sotto l’arco trionfale della cattedrale, che divide il tiburio dalla navata centrale. Intanto Isabel si è spostata sulla figura del leone quadricorpore e ha gridato, cercando di sovrastare il suono della musica: “Anche Ez, nella mia testa, ha qualcosa a che vedere con Dio. Non so cosa, dico solo: qualcosa”. All’improvviso la musica si ammutolisce e Isabel può dire con voce ferma:
“Ez ha dato a suo padre il dolore più grande della sua vita. Fu a causa di questo dolore che Jerry prese la decisione di tagliarsi la mano. Non fu per quelli là”.
Quelli là sono gli altri, il mondo, quelli che hanno diviso il fratello da lei.
La musica riprende, esplode di nuovo, Isabel corre incessantemente il perimetro della cattedrale, quando si stende in terra, sulle tessere del mosaico, stanca, afflitta, ansimante, dice:
“Nei pomeriggi più sfolgoranti, il sole filtra attraverso le vetrate. Io guardo quelle colonne di luce, piene di un pulviscolo che nessuno può toccare, e penso al tempo. I miei piedi, penso, si trovano nella preistoria, le mie gambe nell’antichità, il mio bacino nel medioevo, il mio petto nell’età romantica, la mia testa nel presente, le mie braccia, quando le sollevo, si spingono nel futuro”.
“La mano” è il romanzo della velocità. La velocità attraversa la storia e si fissa sui nostri corpi, incapaci di trattenerla, bensì solo di sognarla. Il misterioso senso di questo romanzo, è che in ogni punto è significativo, ogni punto spinge più lontano una biglia infuocata, divampante, che prende fuoco a contatto con l’aria rarefatta che circonda ogni cosa. Isabel, ancora distesa per terra, dice:
“Tutto è silenzio, ma io vedo un rosso come di tramonto, e sopra quel rosso un blu luminoso, pieno di una luce che sembrerebbe quella della luna, ma senza luna, e tutto percorso come un’autostrada da pianeti e stelle che girano, danzano, s’incrociano”.
Libro irrefrenabile “La mano”, libro-velocità, velocità di scrittura, a ogni riga successiva, di frase in frase, è come se si passasse fulmineamente, per una frazione di secondo, a un’altra scena, una nuova immagine; non si ha quasi tempo di finire il discorso, che la storia corre avanti e avanti, presa da un’emergenza del sentire che strazia i personaggi. La prosa è essenziale come una pietra scalfita, piatta, che può saltare sulla superficie dell’acqua, una volta lanciata. L’infinito, là in fondo, è cupo, il cielo è basso, un soffitto di nuvole riduce lo spazio fra terra e cielo a una fascia di luce orizzontale. Bisogna avere la fantasia visionaria di Isabel per vederlo diverso.
La narrazione, gli argomenti, subiscono una sorta di sisma continuo. A volte, a torto, si ha la sensazione che le tematiche presenti vengano superate, nonostante meriterebbero nuovi, interi capitoli. Ma è effetto del tempo che stringe, della pressione che i corpi subiscono dalla velocità torrenziale degli eventi. Bisogna portarsi avanti, c’è un’impellenza nelle cose, nelle parole di Isabel che racconta, e che le pagine sembrano imporre. È qualcosa che sta nel libro e che rimanda alla vita. Tutto scorre e si predispone alla nuova e imprevedibile ripresa, che ogni volta scavalca il narrato, senza tuttavia ignorarlo, bensì approfondendolo nel non detto, nel vuoto che suscita la tensione a dire, che costringe il linguaggio a contrarsi. Vengono in mente scrittori del calibro di Mauriac, Bernanos, Jouhandeau, Henry de Montherlant, Jouve, e personaggi quali Thérèse Desqueyroux, Mouchette, Paulina, personaggi, inutile dirlo, estremi. In questo penso di stupire il lettore, che ritiene di leggere un romanzo d’ispirazione americana. Il discorso è complesso, non bisogna dimenticare l’interesse dell’autore per una scrittrice come Flannery O’Connor, e altri ancora, sempre di area statunitense, per cui potremmo dire che questo è il romanzo americano di Doninelli. Tanti scrittori, italiani e non, hanno composto il loro libro americano. Bisognerebbe scrivere un saggio sui rapporti e le influenze fra letteratura italiana e letteratura americana, o fra la letteratura del mondo e la letteratura statunitense. Ma tutto è maschera e volto nel romanzo di Doninelli, anche quel certo tipo di stile, e tutto si lacera nel desiderio bruciante di perdono che esiste nell’uomo. Non è la maschera che siamo abituati a riconoscere in Pirandello, che è maschera sociale, atta a nascondere l’uomo agli altri, e ognuno a sé stesso. La maschera di Pirandello è il volto delle convenzioni e del conformismo presenti nel sociale, quella di Doninelli è maschera dell’infinito manifestarsi del volto, della personalità infinita dell’uomo, uomo a misura di Dio, uomo cristiano che aspira a Dio, alterità che richiama l’infinito amore di Dio, ma presente e già attivo in noi, adesso!
“Sei pronta? – dice Isabel, posta sul mosaico della scacchiera, fatta di quadrati bianchi e rossi, che simboleggia il gioco dell’uomo con Dio, per raggiungere la salvezza –, tenevo il cronometro con tutt’e due le mani, come fanno nei film le donne con le pistole. Tremavo. Poi mio fratello gridò: Ora! Feci partire il cronometro mentre lui eseguiva nuovamente il suo meraviglioso assolo. Le note mi giungevano come in un sogno, e in quel sogno mi pareva di non averlo mai sentito, e di non aver sentito mai nessuno, suonare in modo così perfetto. Io, però, ero tutta concentrata sulla lancetta dei secondi, che procedeva lentissima, come un’auto presidenziale in mezzo alla folla, mentre le note di Jerry erano come gli aerei militari, i Phantom, che incrociano i loro voli sopra i grattacieli”.
Isabel cammina lungo l’asse centrale della cattedrale di Otranto, è una sorta di passerella il tronco dell’albero della vita, e lei ci cammina sopra quasi in trance, fermandosi dove ci sono le scene di Adamo e Eva, al limite del transetto. Jerry è entrato da un lato e suona davanti all’altare, alla fine chiede: “Quanto?”. “Ventidue secondi – dice Isabel, e girandosi, dando le spalle al fratello ma in faccia al pubblico dice -. Subito prese fuoco per la rabbia. I suoi occhi mutarono in un istante, divennero altri occhi”.
“Ventidue secondi? – inveisce Jerry – Lo sai usare?”.
“Mi strappò il cronometro di mano – dice in modo dolente Isabel -, lo guardò a lungo, poi lo scagliò contro il muro, e alla fine si tolse la chitarra e cominciò a sbatterla contro il muro urlando: anche Mike!, anche Mike! E io scappai via. Si riferiva a Michael McWilliams dei T.”.
Si sente uno squillo. “Cinque minuti dopo mi telefonò – dice Isabel, ora ritornata sola sulla scena del mosaico –. Mi spiegò che quello era, nota per nota, l’assolo di Michael che apre l’ultimo cd. Ma quello di Michael quanto durava? Durava diciotto secondi. Lo stesso assolo, stesse note, stesso modello di chitarra”.
Isabel si mette a correre, ma stavolta andando su e giù per il grande fusto dell’albero della vita e, una volta arrivata all’entrata la tocca come per fare tana, quindi torna indietro per raggiungere il tiburio, e da lì ripete il percorso su e giù per il tronco dell’immenso albero, avanti e indietro.
“Ma non sono disperato – esclama Isabel mentre corre –, disse mio fratello, anzi, se vuoi proprio saperlo, sono contento. Prima non mi sembravi contento, risposi, tanto per fare un po’ di spirito. Jerry rise e fece: ok, ok, sono umori passeggeri, vecchia. D’accordo, dissi. Il punto è perché sono calmo?, disse. Me lo domandai anch’io subito. Perché era così calmo? Dal momento che i suoi occhi non dicevano nulla di rassicurante. Lui proclamò: sono calmo perché adesso ho tutto chiaro qui. Come mi chiamo io?, mi chiese. Prontamente risposi. Avevo paura. Bene, disse, e cosa significa questo nome? Rock, chitarra, blues, probabilmente il più grande chitarrista della storia, gli dissi. Della storia, ok, fece lui, ma adesso? Sai quanto ci mette mio figlio a fare quell’assolo? Diciannove secondi, io, ventidue secondi. E non è certo uno dei più bravi, ce ne saranno duecento migliori di Ez, dunque almeno duemila migliori di me”.
Isabel, stremata, si butta a terra. Il silenzio è totale e cresce intorno al suo corpo abbandonato sul mosaico bellissimo di Otranto. Il pubblico segue il suo petto che respira e s’immedesima in lei. Il suo cuore è pieno di gelo, di paura, ma è la pietà che lo anima, di fronte al dramma che emerge, racchiuso nel senso della salvezza che sta per raggiungere tutti. Perché Isabel è distesa sulla rappresentazione del peccato originale, a due passi dalla scena del ladrone, a cui Cristo promise l’ingresso in paradiso. Il mosaicista ha accostato i due momenti, ha voluto così. Sorprendente mosaicista!, chi potrebbe intendere oggi quello che ci dice, che ha lasciato composto in terra, umilmente, per essere calpestato, eppure è lì, ci suggerisce la vita che vivremo, la vita che ci aspetta, la vita che dovrebbe guidarci, e noi, desolati, impassibili, a chiederci che dobbiamo fare se non possiamo farci niente, se le cose seguono una via opposta al nostro vivere. Meglio tacere, meglio stare zitti, meglio tutto. È un’opera d’arte, vale per il suo senso estetico. La vita ci strangola!
Eccola Isabel, la non accolta, che i monasteri rifiutano, e ha un serpente in camera, che dice, ora in piedi:
“Il gioco di pace più bello è Dio stesso. Pensare a Dio, e perdersi. Chissà se Dio esiste davvero. Io non lo so. Certo, la mia mente sembra fatta per non pensare ad altro. Oggi è un giorno radioso. Le colonne di luce sono così nette da pensare fatte di materia solida. Suor Hannah si è accorta di qualcosa e mi ha detto una frase, che non ricordo. Ricordo solo che ero tutta emozionata. L’intelligenza di suor Hannah è troppo grande. Quando l’ascolto, la mia intelligenza si spalanca per un istante, ma subito perde tutto. Era una frase sulla luce. Tra quelle colonne di luce e l’ombra circostante non c’era nessuna comunicazione. La luce brulicava di una vita frenetica, e io guardavo la colonna sempre più in su: fin dove potevano spingersi i miei occhi, io vedevo vita, vita, vita”.
Jerry rientra e suona, si contorce sulla sua chitarra, affiancato dal figlio Ez che lo precede sempre in velocità, e pare un fantasma inarrivabile, in funzione di beffa, mascherato com’è da Topolino, il personaggio di Disney, con le sue grandi orecchie. Non ha volto perché è un’illusione, eppure è suo figlio.
“Oh Dio! Esisti! Ti prego, esisti!” grida Isabel sopra le note assordanti di Jerry e Ez, poi incomincia a ballare, si muove in sintonia con la musica, è totalmente presa, in balia del ritmo musicale del brano. Il suo corpo esprime una sensualità che è propria del suo animo, sebbene a un certo punto tenda a distaccarsene, qualcosa le pesa, il suo cuore le pesa e l’annienta, un cuore-macigno, che le appare come uno spettro e non l’abbandona più.
“Stamattina – continua – mi è tornata alla mente Abigail. I morti scompaiono a poco a poco anche dai miei ricordi, come se volessero morire del tutto. Anche Gail, lo sento, vuole andare là dietro, come chiamo io il posto dove finiscono i ricordi dimenticati. È giusto voler finire là dietro. Se ci fosse una via d’uscita, una porta di servizio per potersela dare a gambe, sarebbe magnifico. Invece là dietro non c’è nessuna porta, dunque i ricordi prendono sempre la direzione sbagliata. Abigail volle morire subito, quando era ancora al mondo. Quando sposò mio fratello aveva diciassette anni, ed era già morta”.
Là dietro c’è il labirinto, si fa fatica a uscire, non si trova la via, perché è un luogo mentale, fatto di ricordi. Sta nelle nostre teste la prigione. Assistiamo a un ribaltamento, un’inversione dei ruoli e delle parti: il pitone è buono e Topolino, la maschera di Topolino che indossa Ez, è malvagio, infatti procura inquietudine la sua maschera. Che cosa nasconde? Forse si potrebbe parlare di una sorta di Minotauro, Ez è il Minotauro, testa di animale e corpo di uomo, a cui sacrificare la propria vita, la propria vocazione, la propria giovinezza, e da cui si genera l’idea labirintica, di percorso, archetipo di tutte le narrazioni aventi il male al centro. Il male da cui cercare di salvarsi. Invece eccoli lì, fianco a fianco, Jerry e suo figlio Ez, mascherato da Topolino, che suonano per confrontarsi alla velocità dei loro assoli. Infatti Isabel lo dice, lo dice: “Lui non pensava ad altro che a quei ventidue secondi. Si può dire che in quei ventidue secondi c’era l’eternità. No, non in quei ventidue: nei quattro che lo separavano da Zac”.
Zac è il doppio di Ez, così come nell’antico labirinto si trovava il simbolo bipenne della doppia scure, o ascia, l’arma con cui Jerry si tronca una mano. Ora Jerry è lì, sotto gli occhi di tutti, disteso davanti all’altare, in un bagno di sangue. Isabel lo guarda, è serena, rassegnata e dice:
“Vorrei essere riempita solo da belle immagini: il cielo blu, la notte stellata, il cammino placido di un grande fiume, il mormorio di una cascata, il profumo di bosco. Ma non ci riesco, Dio perdonami, finché non tiro fuori tutto, non posso fermarmi. Mio fratello è morto e non torna più. Lui credeva nei trapianti. Questa era la sua soluzione, era la cosa cui cominciò a dare questo nome: soluzione. I ventidue secondi non gli andavano giù. Questo diceva lui, anche se non credo che c’entrassero davvero. Soprattutto lui credeva nei trapianti. Sostituire la mano con un’altra mano. Dunque, lui voleva farsi impiantare dodici o tredici microcomputer, di cui uno o due dentro il cervello. E poi saldarsi una mano nuova, artificiale”.
Isabel si rannicchia accanto al corpo del fratello, gli accarezza la testa, la povera testa insanguinata. Lo abbraccia, gli mette le braccia intorno per poterlo prendere e alzarlo da terra. Con fatica Isabel lo regge, tenendo il peso del suo corpo fra le braccia. Dice:
“Voglio stare sveglia per sempre, non dormire più, e morire sveglia. Voglio essere come un’automobile che corre, corre per la pianura, e corre tanto da fondere tutto il motore, e nonostante questo corre sempre di più. Poi prende fuoco la carrozzeria, con i sedili, il cambio, il volante, e l’automobile corre ancora di più. Infine, anche le ruote si bruciano fino a scomparire, ma la corsa dell’automobile non si ferma”.
Ripone in terra il corpo senz’anima del fratello, lei lo copre con un lenzuolo, si vede il lenzuolo che si macchia di sangue. Il sangue di Jerry.
“Io sono così – dice Isabel, al centro della cattedrale –. Prima non sapevo di essere così, un’ora fa non lo sapevo, mentre adesso lo so. So che vorrei morire, ma che nessun muro è degno di fermare la mia corsa. Ci vorrà un muro speciale. Io non voglio altro che questo morire”.
Isabel s’inginocchia, prega: “Oh, Dio! – dice – Adesso Jerry non c’è più. Ez, il responsabile, è in galera. Ma non per la morte di Jerry, solo per uno stupro, per colpa di quella cretina che gridava. Faceva caldo. In tutti i miei ricordi fa caldo. No, ce ne sono altri in cui fa freddo, ma non sono quelli che mi salgono alla testa. Jerry è morto, Jerry è morto”.
Qual è la consolazione di Isabel? È giusta la consolazione? L’amore non è amato. L’amore si è messo accanto a questa violenza assurda, inaudita. L’ha fatto con pietà, con pienezza, per sanare il cuore di Isabel. L’amore non cessa, la fame non cessa, la guerra non cessa, la vita non cessa, il sangue non cessa di scorrere, il Signore non cessa di amare. Tu hai promesso. Guardaci!
Silenzio. Un rintocco alla porta. È qualcuno. “Dev’essere suor Hannah – dice Isabel –. Mi aveva promesso della marmellata, dei fiori. È ebrea come me. È di Stettino, la sua famiglia ha molto sofferto”. Sono le ultime parole della giovane donna, poi lei si mescola al pubblico, entra nel suo grembo, grembo di nascita, Genesi per tutti, nell’immedesimarsi di Isabel in loro, negli spettatori, segnati dallo stesso sguardo, ora attonito, ora rapito delle figure antiche che abitano il mosaico. Se il labirinto significa la perdita, lo smarrimento o, quanto meno, la perplessità, secondo l’interpretazione di Borges, il mosaico di Otranto, con il suo tronco (colonna vertebrale della Storia, del Mondo), rappresenta dai secoli e oltre, la guida fedele per gli uomini. “La mano”, è il racconto della salvezza attraverso il dolore.
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Bibliografia minima:
Luca Doninelli, “La mano”, Garzanti, 2001
Cristina Rabosio, “L’albero della vita. I mosaici della cattedrale di Otranto”, Jaca Book, 2021