03 Ottobre 2019

La letteratura è un fagiano arrosto che torna, magicamente, a volare. Incontro con Luca Doninelli. Ovvero: gli scrittori non hanno più il coraggio di affrontare l’enigma

Il finale è al ristorante greco, scelto per caso, probabilmente perché è di fronte al museo dove è custodita la Pietà del Bellini – come riposa quel Cristo dal corpo omerico, d’Achille, con la pelle scandalosa come uno scudo? “Il problema, oggi, è che non diamo spazio ai morti, non c’è più spazio per i morti”, mi dice, Silvio Castiglioni, il grande attore, il grande interprete dei poeti. Cita quel libro bellissimo di W.G. Sebald, Le Alpi nel mare. Poi Antonio Moresco, di cui ha messo in scena La lucina. Tra qualche giorno torna a fare Filò, il poemetto micidiale di Adrea Zanzotto, redatto lì per lì, evocato da una richiesta di Federico Fellini.

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Leggo dalla sua ‘scheda’. Cos’è filò? Ci si riuniva nella stalla, durante l’inverno, e si passava la sera a chiacchierare, chi era morto, chi era nato, chi si sposava, si facevano scherzi, c’era da mangiare e da bere. Una volta nelle campagne venete questo era far filò. E Andrea Zanzotto? Grandissimo. Ha scritto una poesia in lingua veneta che si chiama proprio Filò. Una dichiarazione d’amore per la lingua materna. Un ringraziamento ai nonni che l’hanno custodita e tramandata; e alle mamme che la reinventano per i loro bimbi. È potente, ti scava dentro. È in veneto, ma non è affatto un problema. La ascolti e t’incanta. La capirebbero anche in Lituania. È iniziato tutto da lì”.

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“Il problema della vita è che non c’è più spazio per i morti”, mi dice. Sulla tovaglietta su cui mangiamo baluginano i nomi di Zeus, Ares, Atena… Parliamo di Euripide. Poco prima Luca Doninelli ha parlato della Lucia dei Promessi sposi – si illumina e si lancia quando parla di Manzoni – come dell’ingresso di una dea, “Manzoni la descrive con gli attributi che si danno ad Atena”. “Il problema è che un tempo il mondo era popolato primariamente dai morti, poi c’erano i vivi…”, torna Silvio. Mi pare che tutto il trauma del tempo presente sia proprio qui: in questo eterno, frustrato, vacuo, vampiro presente. I morti radicano il passato e gettano nel futuro – il presente è un atto di liturgia, una venerazione al vuoto infuocato, alla pupilla di diamante dei morti. Si scrive, proprio, per reclamare i morti, per dire ‘evviva!’. Senza i morti, siamo morti viventi.

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Luca Doninelli arriva con il treno in ritardo – riparte. Resiste, affaccendato nell’inafferrabile. Dico che se Dostoevskij ti cambia la vita, Tolstoj ti getta nella vita. Lui ci spiega – a Rimini, sala di Palazzo Buonadrata audacemente fitta, che generosità anacronistica, meravigliosa – perché Tolstoj ha bisogno di quattro pagine per raccontare di un calesse che esce dal portone. La vita, la vita, la vita…

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Con Castiglioni torniamo su Alessandro Manzoni – Doninelli ci ha lasciato il virus manzoniano addosso, la pestilenza. Manzoni dice il male come nessuno, è memorabile, scorge il vuoto dietro i gesti umani, la crudeltà del tempo. Con I promessi sposi fonda il romanzo italiano (perfino europeo, direi), con la “Colonna infame” lo affonda. Passa dalla fiction al docufilm, dal genio narrativo alla devastazione di tutte le regole narrative. Eppure, siamo ancora tutti lì, assorti ad ascoltare quella storia di tortura, del male fatto per caso, della lieve delazione, della lieta, banale incomprensione: “La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi…”.

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Doninelli dà una delle sue folgoranti definizioni di cosa sia la letteratura. Me la appunto. “Facciamo che andate a cacciare un fagiano. Lo beccate. Lo mettete nel sacco, poi, a casa, lo spennate, gli togliete le viscere, lo allestite per essere mangiato. Poi lo infilate, ben predisposto, nel forno. Alcune erbe insaporiscono la carne. Ci sono anche delle patate, intorno al fagiano, che vanno ad arrostirsi. Poi togliete il fagiano dal forno, pronto alla degustazione. Beh, in quel momento è come se per magia, scuotendo le mani, quel fagiano arrosto riprendesse vita, viscere, penne, ali, e volasse via dalla teglia… ecco, questa è la letteratura”.

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Luca Doninelli sa spiegare la letteratura come pochi – ne parla come s’impasta la pizza, come si aggiusta, con il coltello, un legno a dargli dignità di sedia. Quest’anno ha vinto lo Strega Ragazze e Ragazzi – che è meglio dello Strega adulti – con Tre casi per l’investigatore Wickson Alieni. Il suo primo libro è stato Pinocchio, il figlio, da piccolo, dice, gli ha dato diversi spunti narrativi. Nell’intervista istituzionale dello Strega ha consigliato al suo lettore “di essere più pazzo che può”.

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Secondo me – e anche secondo lui – il romanzo più bello di Doninelli è Le cose semplici. Per quello che dice – e per come, che è poi la letteratura. Il libro è uscito nel 2015 e secondo me in pochi lo hanno capito. Poco importa. Segno due frasi che mi piacciono.

“Questa è la somiglianza con Dio. Quando chiediamo l’impossibile, noi somigliamo a Dio. E l’umanità in effetti ha fatto questo, fin dalla sua comparsa sulla Terra: chi attraverso l’arte e la poesia, chi attraverso sogni e conquiste, chi cercando strane avventure. La stranezza dell’uomo sta nelle sue richieste fuori misura”.

“Chantal è stato il grande stupore della mia vita. Si è opposta allo sfacelo accettandolo”.

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La terza frase che amo è questa. “Leggendo la letteratura di tutte le civiltà e di tutte le epoche non è difficile capire che il grande enigma è sempre lo stesso: che cos’è l’uomo? Se lo domandarono rozzi guerrieri, navigatori imprudenti, allevatori di somari, drammaturghi amareggiati dal mediocre corso della storia, filosofi di genio, re sanguinari, raffinati intellettuali, apologeti di regimi odiosi, difensori della giustizia (ma anche difensori dell’ingiustizia), poeti ciechi, poeti teologi, poeti disincantati, poeti di corte interessati solo alla lode del protettore di turno, teatranti visionari, preti di campagna, sindacalisti comunisti, implacabili fannulloni, esimi studiosi delle strutture e delle devianze sociali, medici, chirurghi, progettisti di città ideali, padri che guardavano con perplessità i loro figli, avventuriere, profughe ebree, sante e santi, massoni. Tutto questo fino a un certo punto della storia. Da quel momento in avanti, quasi più niente: decenni e decenni di letteratura senza che quella stessa domanda faccia più capolino tra le pagine”.

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Prima di incontrare Doninelli, faccio una gita in libreria. Tanti nomi, tanti marchi, tanti bravi scrittori, bravi editori, brava gente. Sento la claustrofobia. Copertine luccicanti, bandelle che promuovono l’ennesimo genio. Certo, è un problema mio. Poco dopo, Doninelli accennerà a un poeta ‘laureato’ che discettava delle proprie sorti progressive, della propria carriera lirica, “mi diceva: il primo libro sarà un successo, il secondo la conferma, il terzo la consacrazione”. Invece, ci vogliono i fallimenti. Ci vuole la ribellione. L’incendio. Non può esserci alcun programma, ma una devozione minuscola, a dita che gemmano fiamme. Magari destinare il proprio amore ai morti. Magari scrivere una poesia, seppellirla a terra. Gesti che abbiano il canone dell’assurdo – ma non questo. (d.b.)

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