28 Marzo 2023

Lovecraft, lo scrittore triste e razzista che annienta il pensiero progressista

Per me era una pacchia. Filari di gioia. Intendo. La certezza di vincere il rodeo. O meglio. Di riposarmi. Fosse solo per un giorno. E imparare. Finalmente. Come i bimbi al banco, la benedizione di vivere sotto dettatura, consapevoli che la grammatica va stortata come un braccio.

In Claudio Chianese il talento era equivalente al pudore, distillato in quote bianche, bellissime. Aveva scelto di giocare la parte dell’ultimo, all’apparenza dimesso, quello che guarda in basso, dal basso, che non vuole entrare in campo – e poi, con audacia incontenibile, quasi intollerabile, risolve la partita. Non so se gradirebbe la metafora sportiva, Claudio, l’ho conosciuto pochissimo, per folgori digitali e la stima che si permettono le anime malinconiche; nelle chat si firmava Baron Samedi, il traghettatore dei morti nella mitologia vudù, ramato di rum e di desiderio, con un cappello a cilindro. Ho sempre pensato che custodisse più vite – una ad Haiti, magari, come re dei defunti e gran guru del bere –, perché il corpo, a volte, è una cassettiera – o un forziere, vai a sapere cosa nasconde, quante esistenze tra i nastri.

Oltre alla pacchia, la pernacchia. Chiunque abbia letto Claudio Chianese si accorgeva che era qualcuno. Intendo dire: aveva l’argento sul capo, era un posseduto. Aveva stile senza essere uno stilista, aveva cose da dire senza cedere al didattico, scadere nel didascalico. I suoi pezzi erano – sono – meravigliosi. È tutto.

Nell’anno e poco più in cui ho diretto “L’Intellettuale Dissidente” – una responsabilità disattesa con una poetica dell’eversione e dell’evasione dai riti circoscritti del giornalismo, dalla circoncisione delle ‘cose serie’ – ho imparato tanto dai pezzi di Chianese. Lui riconosceva i ruoli, infrangeva le maschere; aveva, è ovvio, libertà d’azione totale, quella che si consegna ai numeri dieci, ma gli piaceva discutere con me la ‘traccia’ del pezzo, mi chiedeva se potesse andare bene. Di norma, andava benissimo. Leggere Chianese, per me, per lo più insipiente, era una goduria, un bagno nell’oro: il ragazzo era – è – molto più profondo (nel senso speleologico e spirituale del termine) di troppi editorialisti che lordano le prime pagine di giornali ingloriosamente noti. Che non scrivesse su testate ‘storiche’, ben remunerato, resta per me un mistero, patria ignominia.

La morte non manomette i valori, li rinfranca, li riporta all’origine, schietta, primaverile. Chianese sapeva sintetizzare un tema con logica implacabile, immaginazione, genio, deviando, sempre, dall’ovvio, dal chiacchiericcio, dal pantano degli urlatori, dalle meschinità dei pensatori di riserva. I suoi articoli, meritoriamente raccolti da Sebastiano Caputo come La banalità del bene – il primo, simbolico volume nato in seno alla rivista “Dissipatio” –, dimostrano una coerenza marziale nell’analisi del caos odierno. Chianese non esplicita, esplica; non concede e non retrocede, eccede; non accarezza ma accoppa (o corazza); non lesina lesioni. Ha detto, come pochi, la coercizione della scienza così come la intendono i paladini del progresso; ha narrato l’insensatezza paradigmatica dell’attuale idea di ‘sanità’; ha stigmatizzato non soltanto il moralismo imperante ma la visione morale che comanda. Ha detto dello sfinimento clericale, della fine dell’informazione, semenzaio di fogne. Alla violenza assertiva accompagnava, sempre, una citazione, un libro, una via di fuga, per così dire: credeva nell’individuo, dunque nella possibilità che ciascun lettore potesse farsi una propria idea. Magari contraria. Chiedeva, come ogni grande giornalista, anzi, ogni grande uomo, di essere sfidato – avrebbe accettato di essere vinto. Non si piegava al volontarismo ciarliero di quelli che sanno tutto, rifiutava l’aureola che si assegna ai buoni di cuore come il mitra che si rifila ai mercenari da talk. Non sapeva mentire. Ha raccontato l’era della sorveglianza di massa e quella del Vaccino Messia, i soprusi di potere perpetrati durante il Covid come nessuno, con austera serietà.

La sua morte, a 38 anni, la scorsa estate, ci ha spiazzato.

Un libro non riassume una vita e non è una medaglia al valore. Chianese mi diceva di voler scrivere un romanzo. Lo aveva abbozzato. Aveva estro e competenza; sapeva fare un passo indietro per poter scartare di lato. Mentre leggevo i suoi articoli, prendevo appunti. Non mi capita mai. Della vita ha difeso anche l’ultima rotula di luce, l’ultimo olio. Era di quelli che passano il fuoco, perché la sequela, pur nella tenebra, non si interrompa.

Qui pubblichiamo, per gentile concessione, uno dei suoi articoli più ‘letterari’.

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Lovecraft e noi

Nel corso degli ultimi tempi è riemerso il ciclico, soporifero dibattito sul razzismo di H.P. Lovecraft: con l’uscita di Lovecraft Country e dopo le accuse – francamente incomprensibili – rivolte a George Martin, tante anime belle hanno avuto il piacere di indignarsi nell’apprendere che lo scrittore del New England aveva chiamato il suo gatto “negro”.

Al netto della noia che i farfugliamenti liberal necessariamente suscitano, rimane un’osservazione da fare: se, guardando nella misera, ectoplasmica esistenza di Lovecraft la cosa peggiore ci sembra il razzismo, allora non abbiamo guardato bene. Perché c’è un legame angosciante fra la vita vissuta, la visione del mondo e le opere, una sinergia dolorosa da cui emerge una figura umana inquietante ed emblematica.

Lovecraft è un uomo triste, malato, oppresso dall’ossessiva presenza della madre e spaventato da tutti gli altri. Lovecraft è un ateo materialista che ammette tutte le implicazioni esistenziali di una posizione filosofica così pesante. Lovecraft è soprattutto un mitografo, come Tolkien e diametralmente opposto a Tolkien. Il professore di Oxford compone la mitologia di un mondo cristiano, eroico, un lungo medioevo che all’uscita de Il Signore degli Anelli era già in agonia, oggi è addirittura impensabile; il solitario di Providence, invece, scrive i miti per il mondo che verrà, oltre le ingenuità del positivismo, nutrito dai massacri meccanizzati della Prima guerra mondiale: il mondo in cui ci troviamo a vivere.

La potenza dei miti risiede nella loro verità, che è eterna e prescinde dai fatti: “queste cose non avvennero mai, ma sono per sempre”, con le parole di un altro mitografo, Saturnino Secondo Salustio. Dunque, la mitologia di Lovecraft è un cifrario perfetto per leggere il presente. Il saggio che Houellebecq dedica a Lovecraft ha un titolo icastico: Contro il mondo, contro la vita. L’horror di Lovecraft è l’orrore che si prova per la disgrazia di esistere, per l’umanità, per tutte le cose, filtrato attraverso il lessico del mito. Il suo – innegabile – razzismo è solo una manifestazione del disgusto per l’altro, tanto più ripugnante quanto più lontano dal microcosmo di Providence, a partire dagli immigrati di Chinatown fino agli Dei Esterni dall’altra parte della galassia:

“Pochi esseri sono stati posseduti, penetrati così a fondo, dalla convinzione dell’assoluta futilità delle aspirazioni umane. […] La razza umana scomparirà. […] I cieli saranno freddi e vuoti, attraversati dalla flebile luce di stelle quasi spente. […] Bene, male, moralità, sentimenti? Solo fandonie vittoriane. Tutto ciò che esiste è egotismo”.

Per la teologia manichea dei buoni, un razzista è un razzista e basta. Per chi invece pensa, il razzismo di Lovecraft appare lontanissimo da quello, delirante e mistico, di Alfred Rosenberg, l’ideologo di Hitler che ha scritto Il Mito del XX secolo. A Providence non resta, infine, niente da salvare, nessuna gloriosa palingenesi ariana che libererà il mondo dalle razze inferiori: ci sono solo gradazioni di orrore.

La mitologia di Lovecraft è meno pericolosa di quella nazista, ma anche più disperante. Il pensiero di Lovecraft è, infine, soltanto disperazione. Ed è il nostro pensiero, anche se non lo sappiamo. Azathoth, il caos nucleare, è l’immotivata esplosione del Big Bang; Shub-Niggurath, il capro nero dai mille cuccioli, è l’istinto di procreazione che spinge gli esseri viventi a “moltiplicarsi per morire innumerevoli”; Cthulhu è la gelida lontananza dello spazio, Yog-Sothoth l’inaccessibile assurdità del tempo. Sono tutte incarnazioni del nostro scientismo ateo, che domina il dibattito culturale, che insegniamo ai bambini, che spacciamo per progresso.

Se in Cristo si incarna la millenaria storia ebraica, allora i mostri di Lovecraft scrivono coi loro tentacoli la Bibbia della civiltà occidentale contemporanea. Il fatto è che Lovecraft potrebbe avere ragione. È persino probabile che abbia ragione: vivere non ha senso, non c’è niente dopo la morte, siamo soltanto elettricità che corre cieca nel labirinto dei neuroni. L’orrore lovecraftiano sta tutto qui, in ciò che è vero e al tempo stesso inaccettabile. I personaggi di Lovecraft, spesso professori e accademici, scoprono che l’uomo non conta nulla di fronte a potenze primordiali e invincibili, che la ragione non può rendere conto di una realtà senza logica, che l’intero universo è “invenzione di un non-dio la cui malvagità supera l’immaginazione”, come scrive Agota Kristof. La conseguenza è la follia, o il silenzio.

Se si pensa come Lovecraft, allora non si può che vivere come Lovecraft. Diventa, quindi, imbarazzante il contrasto fra lo scrittore eremita e le nostre rockstar dell’ateismo – gente come Dawkins, Pinker, Odifreddi. Diventa nauseante questa melassa di illuminismo scaduto e superomismo capito male che passa per pensiero, offensiva la serenità che “colpisce il dolore accumulato e privo di parole”. Se noi cresciamo con la favola che Dio non serve più perché possiamo essere felici anche senza, Lovecraft muove il suo attacco alla religione dalla parte opposta:

“Vedo che nella vostra filosofia la verità ha un posto minuscolo […]. Nella vostra mente, l’uomo è al centro di tutto, […] l’unico problema dell’universo”.

 Lovecraft ha una passione per la verità e il coraggio della sua verità, nonostante le conseguenze: 

“Le scienze, ciascuna rivolta nella propria direzione, ci hanno finora danneggiato poco; ma un giorno le disparate conoscenze, ricomposte insieme, ci apriranno così terrificanti scorci della realtà, e della nostra spaventosa posizione in essa, che o diventeremo pazzi per la rivelazione, o fuggiremo dalla luce nella sicurezza e nella pace di una nuova età oscura”.

Una bizzarra età oscura, la nostra, illuminata dai neon post-industriali, ma non meno illusa delle altre. Abbiamo rifiutato di riconoscere le terribili implicazioni di ciò che diamo per scontato, la nostra pedagogia ci insegna una verità e, al tempo stesso, suggerisce di non pensarci troppo. Cthulhu dorme nella titanica città di R’lyeh, mito del nulla, ma Pangloss – vestito ora da scienziato, ora da attivista di questa o quella grande causa – torna a raccontarci che va bene così. 

Lovecraft è un autore scandaloso, ma non in quanto razzista. Il suo attacco al mondo moderno è molto più radicale. La sua narrazione mitologica annienta tutto il pensiero progressista, dall’umanesimo rinascimentale, passando per Marx, fino al nostro entusiasmo per i diritti civili. Lovecraft ci attende oltre l’ultimo tratto di strada, quello che non abbiamo il coraggio di percorrere: alla fine della nostra tarda modernità c’è lui, smunto e austero, non l’arcobaleno del paradiso in terra.

Un altro scrittore infelice, Guido Morselli, la cui biografia ricorda a tratti quella di Lovecraft, prima di uccidersi rileva che non c’è nessuna Provvidenza a ricompensare il bene e punire il male, e dunque “tutto è ugualmente inutile”. Immaginiamo, allora, che tutte le utopie si realizzino, concediamo a tutti, ambientalisti, antifascisti, femministe, la vittoria, ammettiamo che Elon Musk, o qualche altro messia dei nerd, riesca a portare l’uomo su Marte. Comunque, non cambierà nulla. Niente si muoverà nella maligna indifferenza del cosmo, al cui centro il dio cieco e idiota, Azathoth, si contorce al suono di tamburi ignobili e flauti maledetti.

Claudio Chianese

pubblicato il 15 settembre 2020

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