Ieri, venerdì 19 aprile 2019, è giunta la notizia che gli alpinisti austriaci David Lama e Hansjorg Auer e l’americano Jess Rosskelley sono scomparsi travolti da una valanga sullo Howse Peak nelle Rokie Mountains canadesi.
Ora, il primo pensiero è che l’alpinismo è vivo perché, a volte, ha a che fare con la morte. Anche quando questa non si presenta. Rispetto a tante attività sportive che io stesso pratico, che riducono le proprie azioni a una quotidianità consuetudinaria, l’alpinismo che si confronta con l’inesplorato, deve fare i conti con la possibilità che si cada dove la vita finisce. L’imprevedibile, che non si può eliminare del tutto in nessuna faccenda umana, qui è maggiore che altrove. Questo alpinismo tocca continuamente le colonne d’Ercole, i confini col mondo conosciuto. E talvolta le supera, spostando più oltre le colonne stesse. Niente a che vedere con l’esaltazione nostalgica dell’alpinismo eroico in auge negli anni della propaganda nazista, quando si inneggiava all’alpinista che avrebbe salito per primo il Nanga Parbat a tutti i costi, compresa la vita. Ma c’è poco da fare: l’alpinismo, come tutte le attività che lambiscono più da vicino la morte, porta l’essere umano in uno stato di coscienza che deve tener presente il proprio limite mortale. È il cicaleccio mentale che, ogni scalatore, anche quando scherza e ‘banalizza’ quel che fa, scherza e ‘banalizza’ proprio per eludere la morte che bussa e a cui spera di non dover mai aprire.
*
Ecco perché gli alpinisti riescono ancora a ‘sognare’, a confrontarsi con un’‘idea’, con una visione. Sogno, idea, visione, sono parole rimosse anche da gran parte del vocabolario artistico, cioè rimosse dai vocabolari che eludono la questione della morte. In questo ambito, in questa terra non ancora del tutto dissodata dell’alpinismo, in questa novalis, lo scalatore, assomiglia al poeta. Gli alpinisti sono dei visionari. Più di uno scalatore, prima di partire per delle imprese al limite, si è confrontato con il ronzio fastidioso del proprio cervello che suona “se non dovessi tornare […]”. In sostanza, mentre è occupato da questioni organizzative, di permessi, di materiali, di equipaggiamento, in un angolo del cervello deve tenere sempre a bada, costantemente, anche se latente, una questione metafisica fondamentale, come si faceva quando si dialogava con i sacerdoti nell’imminenza di un viaggio a rischio di un guado dell’Ade. Allora ci si chiedeva: dove andiamo? Ecco: è il timore di incrociare lo sguardo della Gorgone che pietrificava chi la guardava, ovvero, nel caso degli scalatori che cadono, li ‘trasforma’ nella roccia del terreno sul quale finiscono.
*
Ora, qui non stiamo idealizzando: ci sono uomini di montagna il cui senso pratico non consente loro nessuna visione e, allo stesso tempo, la propria spartana semplicità, è il segreto stesso della loro forza sulle montagne del mondo. Ma anche loro sentono quel ronzío di fronte a una valanga gigantesca che fa sentire il suo fruscio sulla pelle.
Non stiamo neanche dando giudizi alpinistici sulle vie scelte. Non ci addentriamo in questioni tecniche, non è questo lo scopo di queste parole. Il senso di queste parole è un azzardo di comprensione.
Ora, quando un alpinista dice che lui sullo Sperone Mummery, al Nanga Parbat, non ci andrebbe mai perché, anche se facile tecnicamente, ha pericoli oggettivi altissimi, ha ragione. Ma questa è una valutazione da specialista, che distingue le sue scelte alpinistiche al Nanga, da quelle che ha fatto, per esempio, Daniele Nardi, che lì ha fatto la sua caduta esiziale.
Una valutazione che non modifica di una virgola questo ragionamento: l’alpinista di frontiera, vede sempre, dalla parete che sta scalando, un paesaggio meraviglioso con, all’orizzonte, le ans(i)e dell’Ade.
Lorenzo Scandroglio
*Lorenzo Scandroglio (nella fotografia in copertina) è poeta e alpinista. Tra le tante cose, è stato capo redattore di “Alp”, ha realizzato reportage alpinistici dal Pakistan per La7, ha pubblicato con Neri Pozza, Gribaudo, Lietocolle, ha ideato il festival “LetterAltura”. Qui i suoi articoli pubblicato da “il Giornale”.