11 Marzo 2024

L’arte come rivelazione. Intorno all’opera di Lorenzo Peretti Junior

Qualora ci si chieda quanta rilevanza possano assumere le convinzioni filosofiche e, in generale, concettuali di un artista nella elaborazione formale e nella realizzazione materiale dell’opera, una delle prime figure cui si potrebbe pensare – sia pure non nell’ambito del “canone” codificato della pittura italiana – è senz’altro quella di Lorenzo Peretti Junior.

La pittura di Peretti Junior si configura, da un lato, come l’esperienza più autonoma ed impegnata nelle soluzioni di sperimentazione che la scuola vigezzina ha potuto offrire nello scorcio tra Otto e Novecento. Dall’altro, come l’incognita derivante da possibilità inespresse che, attuate nel pieno delle proprie forze, avrebbero potuto dare vita ad una delle personalità artistiche più rilevanti ed innovative dei primi anni del Ventesimo secolo in Italia.

Formatosi al magistero di Enrico Cavalli, tecnicamente solidissimo ma aggiornato verso la pittura francese del tempo, Peretti concentra tutta la sua attività artistica rilevante tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento, mostrando la rara prerogativa di saper coniugare capacità imitativa con doti di sintesi originale. Nella sua pur non sconfinata produzione, infatti, troviamo slittamenti – compiuti anche a brevissima distanza cronologica o persino in contemporanea – tra la maniera di varie scuole o singoli pittori italiani e francesi, senza però che l’imitazione divenga mai copia, in quanto il personalissimo stile del pittore emerge nell’utilizzo dei colori, nelle tematiche scelte, nell’impianto concettuale dato alle opere.

Lorenzo Peretti Junior, Conversazione campestre, olio su tela

Quel che è evidente è che per Peretti non si possa parlare – nemmeno prendendo un lasso cronologico molto determinato – di una maniera univoca, giacché le influenze sia direttamente artistiche che concettuali che risiedono dietro al suo lavoro sono svariate. Senza dubbio tra queste rientra anche quella divisionista, non tanto (come già rigettato da Dario Gnemmi) nella diretta presa a modello dell’opera di Giovanni Segantini, quanto in una ricerca pittorica approdata in alcune tele a esiti accostabili. È, chiaramente, il caso di due opere quali Toceno con lo sfondo delle Alpi e Chiesa di Toceno con il paese, in cui la pennellata si articola per l’appunto all’insegna di quella divisione della luce che, fatta propria dalle sperimentazioni segantiniane, aveva dato origine al movimento divisionista italiano. Che il divisionismo – seguendo una via del tutto autonoma (come radicalmente ipotizza ancora Gnemmi, del quale si veda l’antologia postuma Vigezzini di Francia, vera e propria “bibbia” per comprendere la pittura vigezzina tra Otto e Novecento) – fosse pervenuto in Valle Vigezzo agli stessi esiti della lezione segantiniana senza prenderla a modello, è una supposizione suggestiva ma parzialmente smentita dalle – sia pur scarne – interazioni dello stesso “Peretti di Val d’Ossola” (come i divisionisti lo chiamano nei loro carteggi) con Angelo Morbelli e Giuseppe Pellizza da Volpedo. Nelle due opere perettiane sopra citate, ad esempio, l’influsso non solo tecnico ma anche cromatico di Segantini è evidente, e lo stesso si deve parzialmente dire (almeno per una certa interpretazione “montana” e ingentilita di tematiche simboliste) di Laghetto alpino, in cui il tema del magico e del sovrannaturale è trattato in modo molto più sereno e urbanizzato rispetto alla onirica e quasi disturbante atmosfera del Bosco con i druidi. Una delle caratteristiche principali della metodologia produttiva di Peretti consisteva nel dipingere per assecondare il proprio lavoro intellettuale, tanto che – a quanto risulta da alcune testimonianze e dall’atteggiamento tenuto in tutti gli ultimi decenni di vita – egli considerava se stesso in primo luogo un “critico d’arte”, ed un pittore in secondo luogo. Per comprendere i risultati effettivi della sua attività critica avremmo necessità di analizzare i numerosi scritti (mai pubblicati) che compose tra la sua residenza e il suo studio di Toceno soprattutto a partire dai primi anni del Novecento, quando la sua attività di pittore si era probabilmente rarefatta e le sue velleità di riconoscimento pubblico per la propria arte erano (se mai esistenti) definitivamente cessate. Per comprendere appieno lo statuto di critico d’arte di Peretti, tuttavia, necessiteremmo di una documentazione oggi irreperibile, in quanto la ricca biblioteca raccolta dal maestro e dall’amico e collezionista Adolfo Papetti risulta oggi completamente smembrata.

Un modulo compositivo caratteristico delle opere di Peretti consiste nel conferire alla composizione un’ossatura “sfumata”, sulla quale prendono una forma più nitida delle linee verticali (spesso naturalisticamente rappresentate da alberi), che creano un suggestivo effetto linearistico, e superano la propria caratterizzazione inanimata per attingere una valenza simbolica di presenze vive che danno animazione al paesaggio. Così, ad esempio, nella Conversazione campestre (forse il capolavoro assoluto del pittore), l’immaginario dialogo non vige soltanto tra le figure umane, ma anche tra queste ultime e la natura, con il partecipe concorso dello spettatore, in un’atmosfera che potremmo dire “panica” e intessuta di simbologie monistiche, sia pure mediata da uno stilizzato simbolismo affine a quello di Pierre Puvis de Chavannes e da una atmosfera in parte attinta dalla pittura di Edouard Manet. Leggendo i brevi scritti “mistico-religiosi” che il pittore ha lasciato, in effetti, risulta evidente come alla base della sua concezione (ricostruita, almeno per quanto concerne i suoi ambiti di studio, anche dagli inventari passati della suddetta biblioteca, che comprendeva autori come Rudolf Steiner, Eliphas Lévi e René Guénon) vi fosse un deciso monismo, secondo il quale Dio, uomo e natura sarebbero un’assoluta e rigorosa unità. Se le concezioni di Peretti appaiono in modo estrinseco in una tematica suggestiva quale può essere quella del Bois avec des Druides, sono invece presenti in modo esplicito nelle modalità in cui il pittore unifica stilisticamente le singole opere, evitando le fratture nette e scegliendo appositamente di conferire alle sue tele un aspetto in cui luce e colore (trattati in svariati modi, anche molto diversi l’uno dall’altro a seconda delle circostanze) passino sulla scena rappresentata come una sorta di spirito vivificante, che rende ogni singolo oggetto lo specchio della totalità.

Il tema dell’identità, d’altronde, è proprio quello posto al centro di uno dei manoscritti più suggestivi di Peretti Junior che abbiamo a disposizione, recuperato proprio da quel fondo Peretti-Papetti in grande parte disperso dopo la morte del pittore. Ci riferiamo a una delle due “invocazioni metafisiche” – denominazione con la quale l’autore titola almeno uno dei due manoscritti –, e per la precisione a quella che si potrebbe ritenere un vero e proprio “testamento spirituale” dell’autore.

Il pensatore al quale Peretti – che, come attestano già i carteggi di Morbelli e Pellizza, era un insaziabile compratore di libri –, stando ai cataloghi della dispersa biblioteca e ai pochi manoscritti ancora in nostro possesso, risultava più devoto è indubbiamente René Guénon. Ancora una volta, nel segno della ricerca dell’unità: la dottrina guénoniana è un vasto tentativo di unificazione delle religioni mondiali, partendo da una simbologia antropologica comune a ciascuna di esse (in quanto comune alle modalità di espressione della stessa umanità), nonché dal tentativo di esaltare la propria componente spirituale a discapito di quella “materiale”, proprio per congiungersi alla divinità (concepita monoteisticamente). Il “testamento” di Peretti Junior è per la precisione un chiamare in causa questa divinità, con una allusione conclusiva, estremamente rilevante, agli “intermediari”, che nella dottrina di Guénon sono non solo angeli e santi (come nel cattolicesimo), ma anche i vari rappresentanti storici o mitologici delle varie religioni. Dottrina che, d’altra parte, si ricollega a quella tardo-platonica e proto-cristiana (tipica poi dello gnosticismo) degli Eoni: per l’appunto, intermediari che procedono dalla divinità per emanazione e la congiungono all’uomo. Riferimenti alle dottrine platoniche che – secondo le analisi di Gnemmi, e ancora una volta ad avvalorare tali supposizioni sarebbe il catalogo della scomparsa biblioteca – infarcirebbero esse stesse il pensiero di Peretti, a cominciare dalla dottrina del “non finito” che caratterizza molte delle sue scelte compositive in ambito pittorico. Il non finito, da questo punto di vista sarebbe – con rimandi già al Fedro platonico – la continua tensione che congiunge per difetto all’assente: vale a dire, la frammentazione che, rimandando al proprio “riempimento”, rinvia concettualmente, ancora una volta, all’unità assoluta.

Lorenzo Peretti Junior, Bois avec des Druides, olio su tela

Nella più breve delle sue due “invocazioni metafisiche”, invece, facendo di nuovo riferimento a Guénon persino nelle modalità di respirazione consigliate per essere adottate durante la preghiera, Peretti ribadisce più in breve le tematiche che abbiamo appena considerato, definendo in una concisa ma visionaria elencazione di dogmi dottrinari la gradualità spirituale del reale, che procede dall’uomo a Dio e viceversa. Per farlo, si avvale di nozioni attinte dal vedanesimo e dall’induismo (che vengono elencate e in parte esaminate metodicamente da Peretti), tra cui Paramatma Atma, che Peretti traduce con “spirito universale”, e Ishwara, che traduce con “essere universale”. Sono entrambi concetti che definiscono le prerogative monoteistiche della sfera divina cui Peretti fa riferimento, la cui costituzione “teologica” è tuttavia stratificata e foriera di attributi come nelle concezioni orientali cui si richiama. La conoscenza delle dottrine induiste e vediche è da Peretti utilizzata in funzione della affermazione monistica di cui sopra. La “suprema identità”, infatti, è il punto di partenza e la finalità ultima del reale, le sue determinazioni spirituali sono le più elevate e da esse si dipartono tutte le altre specificazioni ontologiche, fino a quella che le filosofie occidentali denominano “oggettualità empirica”, intesa anche nella sua componente grezzamente materiale, che è da intendersi più lontana dal principio divino in quanto “dispersione”, ove il principio medesimo era invece da considerarsi come una originaria unità. Il riferimento che il pensatore fa alla trinità mostra come – in modo più sfumato rispetto allo scritto precedente – anche in questo caso non sia esente ogni riferimento alla dottrina cristiana. Ciò nonostante, l’orizzonte complessivo in cui essa viene inserito è di tipo sincretistico, in una contaminazione che mira a scorgere (come da insegnamenti di Guénon) una unità fondamentale tra le dottrine delle varie religioni del mondo.

A riassumere il legame tra la concezione perettiana dell’arte e le sue letture di carattere teosofico-esoterico potrebbe essere citata una frase, tratta da La scienza occulta nelle sue linee generali di Rudolf Steiner, che Peretti sottolinea nella sua personale edizione del libro:

“L’arte è strumento di auto-rivelazione spirituale, guarda al cosiddetto mondo esterno come ad un gigantesco alfabeto espressivo”.

Come si può notare, si allude qui all’idea che i confini tra “mondo esterno” e “mondo interiore” siano una mera convenzione, con l’artista che gode della speciale facoltà di muoversi allo stesso modo nei due orizzonti, utilizzando la realtà materiale per plasmare il proprio universo estetico, ovvero per plasmare il mondo dell’artista stesso, in un’unione di carattere quasi mistico con la realtà presa nel suo complesso.

Lorenzo Peretti Junior, Bosco in autunno, olio su tavola

Malgrado le velleità e le testimonianze sopra riportate, Lorenzo Peretti Junior non divenne mai un “puro filosofo” o un mero studioso di esoterismo, perché la pittura restava la sua principale vocazione, per estrazione familiare (sia il nonno Lorenzo che il padre Bernardino erano stati celebri pittori), studi giovanili (sotto il fondamentale magistero di Cavalli), predilezioni estetiche. Se, a partire dal secondo decennio del Novecento e per tutto il resto della sua vita, la sua produzione divenne estremamente esigua non fu per pigrizia o per volubilità, ma per profonda distanza rispetto alle derive dell’arte contemporanea, con la quale aveva operato una netta e consapevole frattura a partire dai primissimi anni del Novecento, scegliendo – a differenza del grande amico Carlo Fornara – di non aderire al movimento divisionista e di restare isolato da ogni flusso commerciale. Paradossalmente, tuttavia, già negli ultimi anni del secolo precedente egli, proprio insieme al Fornara pre-divisionista, aveva precorso alcune delle sperimentazioni formali, materiche e tecniche che saranno poi proprie delle avanguardie primo-novecentesche. Il fatto che Peretti non sia riuscito ad andare oltre quei suggerimenti non sminuisce affatto né la rilevanza delle sue intuizioni né la funzione di precursore da lui esercitata, in una consapevole oscillazione stilistica tra differenti istanze, mediate tutte secondo un filtro espressivo unitario e originale.

Jonathan Salina

*In copertina: Lorenzo Peretti Junior, Ritratto della sorella, olio su cartone, s.d.

*Per uno sguardo complessivo sull’opera di Lorenzo Peretti Junior, pittore di estrosa sapienza, non canonizzabile in facili repertori, in parte ancora da scoprire, si veda qui

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