“L’amore insensato”. Marguerite Duras su omosessualità, incesto, passioni scandalose
Letterature
Fabrizia Sabbatini
Rompere lo schema, questo è il cuore.
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Se siamo propensi – lo ha fatto Giuliano Ferrara su il Foglio – a proporre “Una medaglia d’oro alla Resistenza”, a fare di Lorenzo Orsetti, il volontario affiliato alla causa curda ucciso da Isis, un eroe, c’è qualcosa di sbagliato. Mi pare troppo facile proporre una medaglia in favore di chi ha fatto ciò che non sappiamo fare. L’intellettuale è un genio nel demandare ad altri la lotta, premiandolo, poi, con un sonetto o con un aureo ‘coccodrillo’.
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Anche il pensare, per altro, è un ‘atto’. A volte eroico.
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Gli sbagli, in realtà, sono tanti. Il primo è di genere. Il secondo di specie. Il genere è che Lorenzo Orsetti non lottava per la patria, per l’Italia. Compiendo una scelta consapevole, il fiorentino di 33 anni, prima cameriere, sommelier, cuoco (leggo qui) ha scelto di avvicinarsi alla causa curda. Una causa giusta perché dovrebbe corrispondere alla causa italiana e occidentale: la lotta contro i fondamentalisti islamici armati. La scelta di Orsetti è individuale: è morto da uomo consapevole. Che rappresentava se stesso pensando di rappresentare altri. Non l’Italia. La specie, appunto, è che Orsetti ha scelto quella guerra specifica – rispetto a tante altre – perché corrispondente ai propri personali ideali. Che non sono gli ideali dell’Italia e dell’Occidente, posto che qualcuno abbia ancora idea della sua esistenza. Eventualmente, perciò, la vicinanza va all’uomo, non a ciò che rappresenta.
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Piuttosto, la storia tragica di Orsetti, di rimbalzo, pone una domanda: in cosa crede l’Italia? Cosa crede di dover difendere l’Italia? In cosa si riconosce l’Occidente? E tu, in cosa hai fede?
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A seconda della risposta segue un gesto. Secondo San Francesco, se pensiamo alle radici cristiane dell’Europa, è lecita, anzi, necessaria la missione verso gli infedeli. Si va, però, vuoti di armi, con il sorriso in bocca – come ha scritto Orsetti, nella sua lettera commossa: “sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra” – consapevoli “che si sono donati, hanno sacrificato il corpo al Padrone Gesù Cristo, e per suo amore devono esporsi ai nemici, visibili e invisibili, perché dice il Padrone chi per me perde l’anima, la salva”. Il martire non uccide, si fa uccidere. Fosse così, i militari di Isis farebbero mattanza e macelleria.
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D’altra parte, benché una scelta individuale sia amabile e sostenibile (soprattutto se sostenuta da frasi come questa, tratte dalla lettera-testamento di Orsetti: “Vi auguro tutto il bene possibile, e spero che anche voi un giorno – se non l’avete già fatto – decidiate di dare la vita per il prossimo, perché solo così si cambia il mondo. Solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza. Sono tempi difficili lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza, mai!”), tale resta, una scelta individuale. Non si è eroi perché siamo in un tempo privo di eroi.
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Intendo dire, che non si deve avere fede soltanto nella propria scelta. L’obbedienza è data a qualcosa di più grande. E qui viene il difficile, il difficilissimo. L’identità, intendo, non è una cosa che ti crei, ma la cosa a cui obbedisci. Se ti dicono che devi combattere per difendere l’Italia, vai anche se non ne hai voglia, anche se l’Italia non ti piace tanto, anche se devi morire per quei cretini che restano in patria. Lo fai. Perché va fatto. Perché la statura dell’uomo si misura dall’obbedienza. Una obbedienza che non è servaggio.
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Provo a specificare. Si è più ‘eroi’ sparando o ritirandosi in una cella a pregare? In entrambi i luoghi, qualcosa fiammeggia. E cosa s’intende per “dare la vita per il prossimo”? I genitori danno la vita quotidianamente per i figli. Un padre che lascia la famiglia per una scelta di vita individuale è un disgraziato; un padre che lascia temporaneamente o definitivamente casa per obbedire a una chiamata che vince la propria individualità – patria, Dio – è un eroe.
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Oggi obbedire significa rompere lo schema. Dare la vita per il prossimo è l’imperativo cristiano. Umano, anzi.
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Esempio. La scuola. La scuola dell’obbligo ha degli orari. Insegna che il tempo è suddiviso in ore e in mansioni. Tutti i giorni, tutte le settimane, le stesse ore e le stesse mansioni. Tranne rari casi – le eccezioni che confermano la regola – non si cambia. Si educa alla regolarità. Anche gli alunni scatenati, comunque, si scatenano all’interno di una regola, anche la loro ribellione è normata, normativa. A scuola non si educa all’obbedienza – i prof sono ridotti a manichini – ma al servaggio. Per quanto ti ribelli, l’insegnamento è che esiste qualcuno che progetta per te un programma scolastico, che ti organizza il tempo. Sei educato a corrispondere al tempo pensato per te da un altro. Ottimo operaio. Adatto alla catena di montaggio dei giorni a venire – più guadagno meglio è, ma corrispondo sempre a degli schemi creati da altri, in funzione del sistema dei consumi.
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La scuola non insegna né a obbedire – l’autorità è niente – né a rompere lo schema – il tempo lo decidono altri per noi. Per altro, non si usa bene neppure il tempo concesso e concentrato. E se aiutassimo gli studenti – di ogni ordine e grado e latitudine – a liberarsi dal tempo imposto, imparando ad amare qualcosa e a perseguirlo con forza, costruendosi il proprio progetto di studio, cioè di destino? Troppo complicato: siamo efficaci nell’addomesticare masse non a educare persone.
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Rompere lo schema vuol dire imbracciare il tempo – non per forza un mitragliatore –, sprofondare nell’amare. Orsetti ha rotto lo schema. Non facciamone un eroe.
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Rompere lo schema – cioè, mettere le pupille in una fionda – è la stazione dell’obbedire. (d.b.)