24 Aprile 2021

La Storia è un mattatoio: Lombroso, la Rivoluzione francese e l’incontro con Tolstoj

La Storia è sancita da un capriccio, l’uomo agisce da sonnambulo, spesso da vampiro, ignaro che tra agnello e lupo, tra carne e carnefice, tra preda e predatore la distanza è una finestra, una filastrocca. Più che guida, egli è guidato dai dettami della bramosia, dalla necessità di uccidere, da ambigue ambizioni. In una frase, di epigrafica sapienza, Cesare Lombroso dice tutto: “Quella che si suole chiamare Rivoluzione dell’89, non fu che una grande rivolta e un grande delitto politico che servì ad aumentare una triste serie di comuni delitti”. In una frase, appunto – sintetica sentenza che identifica la geologia dello stile, la prestanza stilistica – Lombroso riassume i temi fondamentali del dibattito: la Rivoluzione francese non fu una rivoluzione, “effetto lento, preparato, necessario… espressione storica della evoluzione” ma una rivolta, “precipitosa, artificiale”, che risponde “a cause poco importanti, non di rado locali”. La rivoluzione comporta un cambiamento radicale, la rivolta una muta superficiale, mediata, mediatica, presto sopita. La rivolta, soprattutto, è affamata di sangue, si afferma nel sangue, ne ha bisogno, proclama la felicità – “Lo scopo della società è la felicità comune”, recita il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793 – perché propugna l’infelicità.

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A differenza dell’epica consolidata, secondo Lombroso la rivolta di Francia fu una combine di delinquenti comuni, omicidio installato sul trono. Il motto catartico Liberté Égalité Fraternité si comprende appieno, in effetti, sorbendone la chiusa: ou la mort. La libertà si impone ammazzando, cioè negando la libertà altrui. “Un centinaio di sconosciuti installati al municipio con un colpo di mano notturno rovesciano uno dei poteri dello Stato, soggiogano l’altro; sostenuti da 8 o 9 mila fanatici pervertono il corso della giustizia, impongono all’assemblea i loro capricci, che diventano leggi. Si appropriano dei tesori, a pagamento dei loro delitti. Per poter rimanere al Governo non hanno che la minaccia e l’audacia”. La contraddizione – e l’assenza di contraddittorio – è l’etica dei rivoltosi: “La stessa dichiarazione dei Diritti dell’Uomo che parve e fu veramente la più bella delle manifestazioni di quell’epoca fu contraddetta nei giorni stessi in cui si emanava e da coloro che la dettavano. Mentre proclamavano che nessuno sarebbe stato condannato senza una sentenza di tribunale, essi lasciavano scannare, anzi colle proprie mani scannavano, centinaia di detenuti, auspice e complice lo stesso ministro della giustizia Danton. Mentre proclaman la libertà del pensiero, fanno ghigliottinare, auspice Robespierre, chi ricusava di adorare il loro Ente supremo”. I ‘valori’ che fondano l’adorato Occidente nascono in uno scannatoio, sono argentati nel sangue: non diversamente da altre divinità feroci la Ragione divinizzata chiede stuoli di olocausti, la ghigliottina si eleva ad altare, tutto ha fame.

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Nel 1897, a Firenze, Cesare Lombroso tiene una conferenza su La delinquenza nella Rivoluzione francese. Il testo è straordinario per schiettezza d’idea e audacia formale: è un pamphlet rigoroso nel ribaltare gli dèi di cartapesta del pensiero comune, rasoterra. Come una macchina infernale guidata dal caos, la rivolta di Francia elegge la turba a norma e la violenza a filosofia di vita: “Quando non ebbero più aristocratici né nemici politici da scannare, i Settembristi scannarono dei ladri comuni e quando non ebbero nemmeno più questi giunsero a freddare i poveri ammalati di Bicêtre e della Salpetrière; violando prima, e dopo uccise, delle prostitute e, orribile a dirsi, delle impuberi orfanelle che giacevano nei dormitoi, e quando il ferro, il foco non bastava giunsero agli annegamenti in massa ed alla mitraglia”. La figura chiave, il delinquente comune che Lombroso identifica come il motore della rivolta è Jean-Paul Marat, “il tipo che fuse in sé i caratteri del pazzo e del criminale… era alto cinque piedi, aveva una testa enorme, in sproporzione col corpo, assimetrica, la fronte sfuggente, l’occhio obliquo, gli zigomi voluminosi; lo sguardo torbido e irrequieto; il gesto rapido e a scatti; il volto in contrazione perpetua; i capelli neri e untuosi, sempre arruffati; nel camminare saltellava”. Il problema non è dare dignità scientifica all’estro fisiognomico, ma identificare una presenza, che si trasferisce in prepotenza nella Storia. Meglio ancora, esiste una fisiognomica nello stile letterario di Lombroso – non importa, qui, verificare la correttezza delle sue intuizioni, spesso sconfitte dai fatti – desto, rapace, rapinoso, romanzesco. Ci sono frasi (questa, su Marat: “La sproporzione del suo ingegno colla straordinaria vanità, la sovraeccitazione continua, la copia dei suoi scritti, tutto caratterizzava il suo delirio ambizioso, cui come nel paranoico andò man mano associandosi il persecutorio, che gli faceva vedere invidiosi e nemici dapertutto. Medicastro, mal retribuito, di corte, nel passaggio dalla vita di studi all’azione, dal disprezzo a un poter sconfinato, da mattoide diventa monomane ed omicida”) che sembrano sketch di Poe, sentenze lapidarie di Stevenson.

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Il discorso di Lombroso è raccolto da Treves in un libro, La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l’Impero, che raduna diversi interventi, di altri. In quel 1897, il 23 agosto, Lombroso atterra a Jasnaja Poljana, a casa Tolstoj. Lombroso era stato invitato a partecipare al XII Congresso medico internazionale, a Mosca; in L’uomo di genio aveva scritto che di “Leone Tolstoï” lo colpivano le “rughe del dolore” e l’“aspetto cretinoso o degenerato”, dal vivo quell’uomo gli parve un titano, fibra biblica, d’uomo inesorabile, “ciò che più di ogni altra cosa colpisce lo psichiatra italiano è la vigoria corporea incredibile per un uomo della sua età, tale da apparire agli occhi di Lombroso come un indizio di atavismo, di ritorno al primordiale” (Leana Rota, Un dialogo tra irriducibili: Tolstoj e lombrosismo a confronto, 2018). L’incontro, durato un paio d’ore, si risolve in nulla: “Tolstoi, prevenuto contro il Lombroso, e sospettoso che ei volesse trovarlo matto, non lo lasciò penetrare nel suo animo” (Gina Lombroso Ferrero, Storia della vita e delle opere narrata dalla figlia, 1915). Gli stessi caratteri di Tolstoj, Lombroso li coglie in Dostoevskij: il genio si accoppia con l’alienazione, con il fervore blu dell’epilettico. Nel Sogno di un uomo ridicolo, le intuizioni di Lombroso vengono anticipate, in gergo narrativo, da Dostoevskij: “Quando furono diventati cattivi cominciarono a parlare di fratellanza e di umanità… Quando furono diventati colpevoli inventarono la giustizia e si prescrissero interi codici per difenderla, e per far osservare i codici installarono la ghigliottina”. Naturalmente, i vasti e vaghi concetti – la libertà, l’eguaglianza – sono imposti “a fin di bene”, perché alcuni ne possano beneficiare e altri ne siano soggiogati. Il male si compie sempre “a fin di bene”.

Jean-Paul Marat (1743-1793) secondo Joseph Boze

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Lombroso, nella sua prosa irritante, crudele, coglie due aspetti. Intanto, che la rivolta è la congiunzione feroce tra la natura omicida dell’uomo e l’idea, l’utopia. La ghigliottina è la traduzione del Contratto sociale, Rousseau è il remoto responsabile della Rivoluzione francese, “Sognatore e selvaggio, dominato dalle idee di persecuzione e dall’ambizione, si foggia gli uomini sul proprio stampo. «L’uomo è buono, l’ambiente lo guasta, tornate alla natura.» E perciò egli invece di punire il malvagio, puniva il gendarme che deve contenerlo”. L’altro aspetto è la fisionomia della folla, piaga devastante, massa oscura, buco nero nel tempo, l’uomo che nel gruppo è prono a ogni affrettata efferatezza. “Chi ha studiato l’uomo, o meglio ancora sé stesso, in mezzo ai gruppi sociali, di qualunque genere siano, avrà osservato come esso sovente si trasforma, e da onesto e pudico che egli era e che è tutt’ora da solo e tra le pareti domestiche, si fa licenzioso, e fino immorale”. Qualcosa di magico agita la massa, che si coagula intorno ad alcune parole, a certi proclami pari a uno scettro infero, e poi esplode, con bocca centuplicata. La massa urla, la massa azzanna, la massa pretende la morte dell’innocente. “La massa aizzata si forma in vista di una meta velocemente raggiungibile. La meta le è nota, precisamente designata, e vicina. Essa si propone di uccidere e sa chi ucciderà. Con determinazione senza confronto essa persegue il suo scopo; è impossibile distoglierla”, scrive Elias Canetti in Massa e potere. “Quando la folla è ridotta in questo stato e non le basta più uccidere, ma vuole che la morte sia accompagnata dai più atroci supplizi e dagli scherni più orrendi, quando l’istinto sanguinario giunge a tal punto di frenesia, non tardano a risvegliarsi insieme a questo anche gli istinti libidinosi. Crudeltà e lascivia allora si appaiano, e l’una aumenta il vigore dell’altra. Come il degenerato che funesta la poesia dell’amplesso amoroso coi tormenti e col sangue, la folla accresce la turpitudine dell’assassinio colle offese contro il pudore, e questa oscena follia di libidine e di sangue trova talvolta nel cannibalismo l’ultimo grado del parossismo”, scrive Lombroso, con corrusca veemenza.

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La massa agisce per istinto di conservazione: la rivolta di Francia va letta come reazione ai cambiamenti della società francese, una reazione in avanti, all’avanguardia. Il discrimine è tra il nuovo, ciò che è giovane, radicato nell’autentico, e la novità, trastullo verbale, moto inerme, moda, ciò che si muove – la massa, nell’insieme, dall’alto, ha la forma del polpo e del serpe – verso una più violenta immobilità.

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A proposito di caratteri e di segregazione del destino in un viso, non è secondario ricordare che nella Bibbia è sempre lo strano, il deforme, il balbuziente, l’epilettico, lo sconsiderato, lo scalmanato, il troppo giovane, l’inadatto a essere scelto come re, come alto profeta, come esegeta ed esecutore della parola di Dio.

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C’è poi un’analisi più sottile, più intrigante. Riguarda il linguaggio, il suo giogo, la mania, la malia verbosa che prepara la rivolta, che inebetisce le folle e gli individui che non agiscono in obbedienza al fato ma venerando l’astrazione, esuli nella malizia. Lombroso parla della “passione della parola che ha un’azione in Francia più ancor che nelle altre razze latine… che fa preferire alle teorie giuste, le frasi ben dette, la forma alla sostanza, e non s’imbeve solo dalla forma, anzi, più che della forma (che almeno potrebbe tradursi in qualche capolavoro estetico) di un’adorazione feticcia di quella, e tanto più inesatta, tanto più sterile e cieca, quanto maggiore fu il tempo che inutilmente vi si consumava; da ciò il disprezzare per una parola sbagliata, una persona, una teoria; da ciò lo immaginare gli uomini tutti foggiati ad un conio, senza badare alle varietà nascenti dal clima, dalle classi, dal sesso, dall’età; da ciò il non poter cogliere la importanza delle leggi storiche, le quali appunto mostrano nulla svolgersi di sicuro e di utile se non per lentissime evoluzioni”. Singolare è l’analogia con gli anatemi che Emil Cioran scaglia contro la lingua di Francia, esangue – che dunque ha bisogno di sangue, di morte – ad esempio in Antologia del ritratto, dove però è più caustica e corretta l’anamnesi del disastro: “La Rivoluzione fu provocata dagli abusi di un regno in cui i privilegi appartenevano a una classe che non credeva più in nulla, nemmeno nei propri privilegi, o piuttosto che vi si aggrappava per automatismo, senza passione né accanimento, giacché aveva un’inclinazione dichiarata per le idee che stavano per annientarla. La condiscendenza verso l’avversario è segno distintivo di debolezza, cioè della tolleranza; tolleranza che è, in ultima analisi, una civetteria d’agonizzanti”.

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Se l’uomo è la malattia, la Storia ne è il sintomo, la civiltà il contagio, il virus, la rivolta uno dei ripetuti eczemi. Per natura, l’uomo di massa è una pecora, caprone o agnello sacrificale. “Migliaia e forse milioni di persone, nell’animo loro, avran dubitato della bontà, della saviezza dei governi Giacobini… ma, radunatisi insieme, ogni dubbio loro svaniva, sembrava fino una colpa che si scontava con nuove e più vigliacche dedizioni e idolatrie, e quello che è più strano con una più calda e fanatica convinzione di esser nel vero, salvo a dissiparsi alla loro completa rovina. Così certo, le pecore, cadute nel baratro dietro al pastore, fino al momento in cui sentono il cranio frangersi sul duro fondo, opinano di andare per la via diritta”. Nel Manusmṛti, antico testo hindu – citato con un certo sprezzo da Lombroso –, è scritto, norma aurea, “Cibo e divoratori di cibo: così considera il mondo”. Tutto, in effetti, è mattatoio.

*Per gentile concessione si pubblica la nota introduttiva a: Cesare Lombroso, “La delinquenza nella Rivoluzione francese”, Aragno, 2021

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