Di Fëdor Dostoevskij mi basta quanto leggo – è un santo-vampiro, i ‘Karamazov’ hanno l’autorevolezza sinistra di un testo sacro – quanto scrive quel bastardo di Nikolaj Strachov – “Io non posso considerare Dostoevskij né buono né felice. Era cattivo, invidioso, vizioso. Per tutta la vita fu preda di passioni che lo avrebbero reso ridicolo e spregevole, se non fosse stato nello stesso tempo così intelligente e così perfido” – e come ne scrive Lev Sestov, il suo massimo esegeta – “Chi vuole avvicinarsi a Dostoevskij deve compiere tutta una serie di exercitia spiritualia, e deve vivere ore, giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie, che si escludono a vicenda”. Dostoevskij è troppo vasto perché se ne possa dire qualcosa – ti ficca denti in bocca, blocca ogni presunta opinione, perché prima devi convertirti, devi cambiare vita, devi folgorare di luce il fango, poi ne parliamo. Poi leggo questo, però. “Come sempre, ti afferrava l’anima, la palleggiava, la torceva e poi te la restituiva, pronta da rimettere nel petto… L’ho visto, di notte, quando scrive, la testa piegata tra le due candele, la penna che scorre sul foglio: è Dio, non c’è anima che possa nascondersi dinanzi a lui, egli la seziona, la fruga finché non ne abbia messo a nudo il germe del delitto, della crudeltà, della lussuria, che è in ciascuno di noi”. Che straordinaria descrizione di Dostoevskij, del suo gesto alchemico. Chi l’ha scritta e ha avuto l’ardore di dissezionare il cuore di Dostoevskij con un chiodo è Ferruccio Parazzoli – forse non poteva essere altri che lui – tra i ‘grandi vecchi’ della letteratura italiana, autore di una bibliografia d’invidiabile giovinezza. Lo schema narrativo è rotondo: attraverso lo stratagemma del libro trovato casualmente in Russia (“Il librino, stampato su carta dozzinale, mi fu regalato da un amico oggi scomparso – come ormai molti altri miei amici e conoscenti – di ritorno da uno dei suoi frequenti viaggi in Russia”), Parazzoli fa raccontare l’inquieto Fëdor da uno dei suoi personaggi minori, Razumichin, che in Delitto e castigo è il bonario amico di Raskol’nikov mentre ne Il grande peccatore – così il romanzo pubblicato da Bompiani, che, coerentemente, pubblica i romanzi di Dostoevskij nella collana filosofica del ‘Pensiero Occidentale’, tra Platone, Heidegger e Kant – è un lacché, un pervertito nel cuore, un uomo roso da fragori d’invidia, iroso nel rancore. Questo romanzo, che proviene dal retroscena del sottosuolo e ha un retrogusto pietroburghese – l’esercizio mimetico è riuscito: pare di sfogliare le confessioni di un russo arso dal tormento del tardo Ottocento –, di fatto, è una indagine sulla scrittura e sulla sconfitta dello scrittore, sulla mefistofelica malia dell’arte, sul demone del genio – avete presente Il soccombente di Thomas Bernhard? – sull’amoralità e l’anormalità dell’artista che lavora, come un santo e un folle, per la redenzione dell’uomo (ma mai per la propria). Insomma, ho preteso al dialogo Parazzoli. (d.b.)
Dostoevskij. Ancora Dostoevskij. Pare, davvero, l’autore ineludibile e inesorabile. Che ruolo ha avuto FD nella sua opera, quella marcia epica nell’etica, quell’indagine ossessiva nella colpa? In quale opera, in particolare, tolta questa, ha sentito il morso di FD?
Milano è la mia Pietroburgo. Striscia il fantasma di Fedor Michailovich – così lo chiamo da tempo, come ora fa Razumichin, il tarlo che gli entra dentro nel mio Grande Peccatore – in quasi tutti i miei romanzi, specie dei più recenti. Piazza Sennaja si confonde per me con piazzale Loreto, i vicoli, le strade sormontate dai grandi formicai dei piccoli impiegati, dei senza lavoro, prendono il nome di viale Monza, di via Padova, delle periferie oltre i terrapieni della ferrovia. F.M. mi ha insegnato ad osservare le facce della gente, a leggere dentro di loro, a conoscerne e a inventarne le storie. Così è nata la mia Trilogia di Piazzale Loreto, specie Piazza bella piazza, l’ultimo dei tre volumetti, dove ruotano storie buffe, drammatiche, fantastiche.
Il suo romanzo mi sembra, tra le altre cose, una riflessione sulla scrittura. La cito. “Era incapace di innalzare la sua arte fino al sublime se non partendo dalla più concreta miseria della condizione umana”. Qual è allora il compito dello scrittore: andare dove nessuno va, indagare i luoghi oscuri, sondare le miserie, scavare nel fango, cosa?
Compito dello scrittore è vedere ciò che gli altri non vedono, altrimenti che scriverebbe a fare? Lo scrittore scende dove deve scendere, ma anche sale dove deve salire, il sottosuolo ma anche il volo libero, il più alto. Ho pubblicato di recente un piccolo saggio Apologia del rischio che porta per sottotitolo Scrivere è una roulette russa dove sostengo che non basta guardare dai tetti in giù ma anche dai tetti in su. Uscire dalla pura cronaca dei fatti. “Non c’è artista che tolleri il reale”, diceva Nietzsche.
Che rapporto c’è tra etica ed estetica? Insomma, uno scrittore può essere un ‘figlio di’ e scrivere capolavori assoluti. Oppure, a suo avviso, c’è una coincidenza, una intesa, una grande opera può essere scritta soltanto da un grande uomo…
Gli scrittori non sono dei grandi uomini, altrimenti farebbero altro. Non credo ci sia un rapporto diretto tra etica ed estetica. Le vite degli scrittori, a studiarle bene, sono colme di vizi e di difetti, talvolta perfino spregevoli, secondo il comune senso del ben pensare e ben vivere. E poi, perché parlare di capolavori assoluti? Non esistono, ognuno ha dentro il germe della decomposizione, se non altro il Tempo. Il capolavoro ciascuno scrittore lo tocca quando non si permette di scrivere se non al meglio di quanto riesce a scrivere, quando nella sua roulette russa, esplode il Bang!
Un brano del suo romanzo esalta il tema dell’invidia. La cito: “frequentandolo sempre più da vicino, nella più nascosta intimità, sarei entrato nell’anima di FM come l’ammofila assassina nella larva di farfalla, l’avrei divorato, fatto mio, finché, come il bruco Monarca, avrei atteso a testa in giù che dalla crisalide uscissero le nuove ali e allora, finalmente, me ne sarei volato via verso il mio personalissimo sole”. Che ruolo ha l’invidia nella sorte – o nella disperazione – di uno scrittore?
L’invidia è un sentimento vicino all’amore. Razumichin, il mio personaggio nel Grande Peccatore, è roso dall’invidia per F. M., che vorrebbe saper eguagliare nella genialità come nel vizio, ma è altrettanto vicino all’amore per il suo idolo: se non lo invidiasse alla follia non lo amerebbe alla follia. Lo scrittore è colui che invidia e ama le vite degli altri.
Domanda duplice. Il ritmo che ha assegnato al romanzo è profondamente ‘russo’, risuona la nenia sintattica di molti romanzi russi dell’Ottocento tradotti in Italia, leggendolo, un esercizio di mimesi mirabile. Le chiedo, però, a fronte della sua esperienza editoriale, quale autore della letteratura italiana è a suo dire il più ‘russo’? E poi: quale autore ha studiato, ha letto con acribia per dare autenticità narrativa e sostanza formale al suo Razumichin?
A mia memoria sono molto lontani gli scrittori italiani dalla tormentata anima slava. Un solo nome, forse, potrei fare: quello di Tommaso Landolfi, il suo costante timore con cui si accosta al paradosso del mondo. Per dare vita all’infido fantasma di Razumichin non potevo se non rifarmi a Dostoevskij stesso, e al suo Delitto e Castigo facendone esattamente il contrario di quanto di lui dice l’autore, sostenendo così ancora una volta, come lo stesso Razumichin sostiene, che Dostoevskij fosse un gran mentitore nei suoi romanzi, proprio come deve essere uno scrittore che non crede che la verità degli uomini e dei fatti sia così come si presenta.
Oggi. Cosa le pare della letteratura italiana recente? Cosa le piace leggere? E dopo aver ‘sfidato’ Dostoevskij, dove s’inabissa la sua famelica scrittura, insomma, cosa sta scrivendo?
Leggo molto, ma solo per imparare a come si deve fare o non si deve fare a scrivere, cosa si deve raccontare e cosa non si deve. E non so quale delle due cose imparo di più. Naturalmente sto scrivendo, in quanto scrivo un poco ogni giorno. Forse è un altro romanzo, forse parlerà di un morbo collettivo che colpisce una grande metropoli, la cui causa sarà ben altro che non i topi della Peste di Camus.
A microfoni spenti titillo ancora Parazzoli, perché per me la letteratura è, anche, un groviglio di gossip. La domanda in corner è questa. “Qual è stato lo scrittore che più ha ammirato, tra i viventi, e con cui ha lavorato meglio?” La risposta mi sembra degna, bella, quasi dostoevskijana: “Jack Kerouac, quando venne in Italia, anche se era drogato e sbronzo, ma io, persona per bene, l’ho invidiato e l’ho amato… Purtroppo siamo stati insieme solo un paio di giorni”.