Gli Dèi inattuali. Ernst Jünger e la Biennale di Venezia: Arte, Tempo e Morte nell’epoca della Tecnica
Filosofia
a cura di Antonio Soldi
Il MARec, il Museo dell’arte recuperata in San Severino Marche, nasce come atto d’amore, ha la spregiudicatezza della cura. Inaugurato quest’anno, raccoglie il patrimonio delle chiese marchigiane inagibili dopo il terremoto del 2016. È spazio di ricovero, luogo di protezione, dove le opere vengono restaurate, ricucite, date. Il Museo non è un lascito, ma una testimonianza: nasce sperando di estinguersi. Le opere, infatti, sono custodite temporaneamente, in attesa di poter tornare nelle chiese, una volta ricomposte. La latitanza museale, però, crea nuovi rapporti, insoliti: divario tra rito privato e processione pubblica; museo come cenacolo, cena insieme, condivisione suprema. Museo come sepolcro vuoto, e capriole di annunci.
Tra i pezzi esposti spiccano le statue della Madonna con Bambino: alcune sono di severa regalità, altre tenerissime, spaventosamente carnali, impaurite, potrebbero sbriciolarsi sotto la grandinata di troppi sguardi. I San Sebastiano sono straordinari: ragazzi, spesso biondi, che risolvono il dolore in una stupefazione a volte impavida; mancano le frecce, abbonda il sangue, il santo pare una sagoma mitragliata, carne appestata, dunque, in diamante.
Per grazia di Barbara Mastrocola, che dirige lo spazio, legato al museo dell’Arcidiocesi di Camerino, visitiamo i depositi del MARec, l’invisibile del museo, il museo invisibile. Angelo Borgese, l’artista, è con me: osserva ogni dettaglio con arguzia impetuosa, impenitente. Nei depositi sono raccolte opere ancora da restaurare – da redimere? – in organizzata folla. Sono la maggior parte, in effetti, centinaia. In una stanza, appesi a diverse grate di metallo, decine di crocefissi: ciascuno ha la propria “Scheda di accompagnamento”, il modulo dell’“Unità di crisi” del Mibac, in busta di plastica. La varietà dei Gesù in croce è micidiale: c’è l’uomo che soffre, quello che urla, l’altro, più antico, serafico, quasi sereno; uno ha la corona di spine attaccata al braccio; uno ha i capelli autentici, in crine di cavallo; uno è ricoperto di sangue, un altro ne è privo, puro, esangue. Anche le fattezze del viso, pur riconducibili all’emblema miliare, cambiano: chissà a chi si è ispirato l’artista, a un amico, a un parente, a un passante, a un avversario… Gli artisti dei crocefissi sono anonimi e questo convalida per alterità la carneficina.
Credo sia la ripetizione a inquietarmi. L’uno diviso, l’unicità disfatta in mille, millesimata. Si è soliti pregare al cospetto di quel crocefisso che, senza dubbio, manda a Cristo; qui ne vedo a decine, l’effetto è quello della contraffazione, della bigiotteria, del negozio di souvenir, mercanteggio nel tempio. Ma forse sbaglio. Forse è la diversità a scoraggiare. Qui ci sono moltissimi poveri cristi messi in croce, nessuno riconducibile all’altro, ciascuno con la sua storia. Il figlio di Dio raddoppia, si moltiplica, in copie da cui è impossibile risalire all’originale. In realtà, ciò che spaventa è l’uguale, il gemello, l’equivalente che ti sostituisce, annientando la tua particolarità; qualcosa di umano, di terreno, trasuda da questa vigna di crocefissi. Una vigilia.
La ripetizione è l’ardore della liturgia. La liturgia non è mai uguale perché ripercorre gli stessi gesti, rivanga quelle parole scandite. Se siamo fuori dalla liturgia, semplicemente, siamo fuori dal mondo, dal tempo, da Dio; inesistenti, corpo che respira senza oriente, senza orientamento. Rimettendo mano al Libretto rozzo, Massimo Zamboni scrive di “una vera e propria liturgia nel suo significato originale di Azione per il popolo: un servizio”. Alla greca, la liturgia è così: “servizio pubblico”, “opera pubblica”. Si tratta di operazione terrena, di cui il pubblico è destinatario e partecipe, onorato e complice. Declinato all’algebra del tempio: il servizio reso a Dio pretende che tutto il ‘pubblico’ divenga sacerdote, che la vita tutta sia sacerdozio. “Liturgia, ne ho bisogno fisico”: così Giovanni Lindo Ferretti rilancia e rimedita le parole di Zamboni (per costanza e percussione GLF rimodula e riassesta i concetti di Zamboni, “ateo per grazia di Dio”, sotto la calura della traduzione). La liturgia non è corpus di formule redazionali, eventualmente redentive; è corpo messo in campo, offerto. Fa bene dire che di liturgia tratta il convertito e il senzadio, il silenziato e l’orante: non c’è altro di cui parlare, perché liturgia significa comporre il proprio modo di stare al mondo, verificare una postura.
Nel 1966, sulla rivista “Cappella Sistina”, Cristina Campo scrive alcune Note sopra la Liturgia.
“La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell’uomo arcanamente risponde… L’uomo così impegnato in gesti significativi adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti”.
Segue la naturale disamina dell’oggi, un tempo che vuole allietare il fasto in allineamento profano, che educa il sacro in bignami morale, a tutti comprensibile, utile:
“Oggi si direbbe che quell’insano terrore che induce l’umo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendo sempre più ciecamente cunei di vita profana, voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone”.
Se la liturgia esaurisce, l’angelo è ridotto in voliera, cibato a briciole, agonizza; interrotto il canto, Dio svapora tra paraventi cosmici. “Quando l’emerito smetterà di pregare per l’Europa, l’arcangelo Michele sguainerà la spada portando il disastro”, ha detto pressappoco Ferretti, in estasi, con la sua kippah di capelli.
Eppure, c’è un grado più alto della ripetizione rituale; l’intrusione nei crinali di Dio. La liturgia non adombra altro canto che quello interiore; scoscendere nei penetrali del mistero, finché indistinto è lo scisma tra nome e cosa:
“Colui che canta con la lingua e con il corpo e persevera in questo esercizio notte e giorno, questi è un giusto. Colui, invece, che è reso degno di entrare all’interno di ciò che canta con la mente e con lo spirito, questi è spirituale. Lo spirituale è più elevato del giusto; e da giusto, uno diventa spirituale… Dio, infatti, è nel silenzio e nel silenzio si canta quel canto che è degno di lui”.
Così scrive Giovanni di Apamea, maestro spirituale vissuto probabilmente nel V secolo, teorico della “preghiera interiore”, cioè della preghiera “più interna delle parole, al di sopra del canto”, che “tramonta alla parola” per stare “nel luogo degli esseri spirituali e degli angeli, senza parole”. Troppo umana la parola, laccata di menzogna, verminaio di promesse infeconde. Tibi silens laus, sussurra Girolamo rivoltando il salmo 65; “Inaccessibile alla lode… La lode adatta a Te è il silenzio”, scrive Rashi. Ammutoliti dallo sbigottimento, preghiera incessante che fa fanghiglia del verbo, unico raspare di respiro, indistinto. Lo scroscio dei crocefissi, dunque, tumulati dalle intenzioni degli oranti, singoli lamenti e lampi del grazie che da secoli acutizzano la pietà inflessibile del Cristo, sono un dito sulle labbra, grande X che scassa i denti, svacca la gola. Silenzio. Largheggia nella liturgia.
*Tutte le immagini provengono dal MARec di San Severino Marche: il museo visitabile e quello invisibile