24 Maggio 2018

“L’Italia è un Paese irreale, il prodotto di 30 anni di televisione trash, e la cultura è soltanto decorativa. Per gli scrittori veri resta un’etica monastica”: l’editoriale di Fabrizio Coscia

Dopo averlo scritto decine di volte, passiamo dall’orazione alla coltellata. Pangea apre lo spazio dell’Editoriale, una specie di altare da cui tirare pigne, su cui far giostrare la cerbottana, allo scrittore, al poeta. A chi ha occhi rosolati nel verbo, e può per questo sconfiggere la proverbiale ovvietà dell’opinionismo giornalistico. In particolare, abbiamo adottato una formula e uno scrittore. Lo scrittore, che chi legge Pangea e chi legge roba buona in generale già conosce, è Fabrizio Coscia. Napoletano, giornalista e critico letterario per “Il Mattino”, ha scritto alcuni dei libri più raffinati degli ultimi anni, “Notte abissina” (Avagliano, 2006) e “La bellezza che resta” (Melville, 2017); tra l’altro, ha da poco firmato un libro autorevole e autoriale su Francis Bacon, “Dipingere l’invisibile” (Sillabe, 2018). La formula è quella che noi facciamo la domanda la magica. Che riguarda, come si dice, la ‘stringente attualità’. Consapevoli che l’artista straccia l’attualità facendone pasta di diamante.

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Governo ‘verdeoro’, ‘carioca’, grillino-leghista. Si parla di tutto ma non dell’unica cosa che conta. La cultura. La gestione dei ‘beni culturali’. Cioè, l’Italia. Chi vorresti, nel libro dei sogni, tra vivi e deceduti, come Ministro della Cultura? Soprattutto, cosa ne faresti della cultura italiana?

Faccio una premessa che potrà sembrare provocatoria ma non lo è: “politica culturale” è, di fatto, un ossimoro. Non c’è niente di più lontano dalla cultura della politica. E ogni volta che i due termini si sono accostati il connubio è risultato, per la cultura, letale. Penso all’uso propagandistico che il potere totalitario ha sempre fatto dell’arte, ma penso anche ai danni del concetto di «engagement», e a tutte le «cicale scoppiate», come le chiamava Ariosto, per lodare il potente di turno. E penso, naturalmente, a tutti gli artisti perseguitati dai regimi, ridotti al silenzio o costretti all’esilio perché dissidenti o non allineati alle “politiche culturali” dei governi. Ma al di là di questi casi limite, mi pare che in generale politica e arte siano proprio incompatibili: la politica cerca la semplificazione, mentre l’arte indaga la complessità; la politica insegue la menzogna, l’arte la verità; la politica propaganda la coerenza, l’arte rappresenta la contraddizione; la politica lavora sull’attualità, l’arte, quando è autentica, è sempre inattuale. Non c’è possibilità di incontro, a meno che non torniamo nella Roma imperiale di Augusto o nell’Italia rinascimentale, civiltà capaci di conciliare splendidamente l’inconciliabile. Ma oggi siamo piuttosto, se vogliamo restare nella metafora storica, in pieno Basso Impero. E allora vengo alla domanda: che cosa ne faresti della cultura italiana? Io credo che l’unico investimento per la cultura che uno stato potrebbe fare, senza creare danni, è nella scuola, nella formazione. E se guardiamo cosa è diventata la scuola italiana oggi, allora possiamo avere l’idea concreta del fallimento totale, e perseguito consapevolmente, della politica culturale italiana. Del resto che cos’è diventata l’Italia? Un Paese irreale, così irreale da farci venire il dubbio se sia mai esistito o non sia stato piuttosto solo il prodigioso prodotto di un immaginario collettivo o, forse, il riflesso dell’immagine finta e superficiale proposta da oltre trent’anni di una televisione trash rivolta a un pubblico di analfabeti e di un quoziente intellettivo pari a quello di un bambino di sette o otto anni. Una televisione (che definisco berlusconiana per semplificazione) totalmente asservita al mercato e capace di creare danni devastanti, le cui conseguenze possiamo riscontare oggi nella piazza dei social e nel livello del dibattito politico, perfino nel lessico poverissimo, elementare di questo dibattito. Certo, esiste anche un Paese reale, concreto, con uomini e donne che fanno cose, lavorano, soffrono, falliscono, realizzano sogni, migliorano il contesto in cui operano, ma sono esistenze che restano fuori dalla nostra percezione, fuori da quello che con orrenda espressione oggi viene definito lo storytelling, la Grande Narrazione (o la Grande Menzogna della Narrazione), e dunque, sono inesistenti.

Basta vedere in effetti i nostri politici per avere la perfetta cognizione di questa irrealtà di cui parlo. I nuovi leader di queste elezioni chi sono? Che rapporto hanno con la cultura? Che idea di cultura possono proporre se non quella della loro assoluta vacuità, inconsistenza, arroganza? E allora quale politica culturale può esserci in Italia, oggi? Quale ministro della Cultura sogno per l’Italia? Non ho risposte da dare. Il mio libro dei sogni si è svuotato. Credo, onestamente, che la cultura sia destinata a trasformarsi sempre più in intrattenimento, in spettacolo, in decorazione, e sempre meno in approfondimento, scavo, ricerca autentica. Ancora qualche anno e la cultura umanistica, quella su cui ci siamo formati noi, sarà solo un’occupazione per pochissimi appassionati, una minoranza esigua, un po’ stravagante e fuori dal mondo. La crisi è profonda e investe tutti i campi. Del resto il Basso Impero è durato più di due secoli, non qualche anno. E dobbiamo rassegnarci a convivere con questo disastro. E intanto svolgere il nostro lavoro nel modo più onesto e scrupoloso possibile. Se siamo scrittori, critici, intellettuali, non ci resta che continuare a studiare, approfondire, scrivere, cercando di migliorare sempre di più, avvicinarci sempre un po’ più alla nostra idea di verità. È un’etica monastica, élitaria forse, ma tant’è: è l’unica cosa che ci resta da fare, aspettando l’invasione dei barbari.

Fabrizio Coscia

 

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