Qualche giorno fa, la liturgia ha presentato un brano dal Vangelo di Marco. Siamo al capitolo 16, l’ultimo; Gesù è risorto: dopo essere apparso a Maria di Màgdala, “alla fine apparve anche agli Undici”. Rimprovera loro l’incredulità – creduli al mondo. Poi, li invia a proclamare “il Vangelo a ogni creatura” (dunque, anche agli animali, agli alberi, al creato tutto). Infine, elenca “i segni che accompagneranno quelli che credono”. Eccoli:
“nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno”.
I ‘segni’ sono disposti in ordine gerarchico: i cristiani sanno piegare le forze avverse, gli elementi oscuri, e sanno guarire. A me interessa capire cosa significa “parleranno lingue nuove” (γλώσσαις λαλήσουσιν καιναῖς).
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Intanto: le ‘lingue nuove’ cui fa riferimento Gesù, sono incardinate tra il potere di scacciare i demoni e quello di prendere in mano serpi e bere veleni senza danno. Forse si allude alla forza ambigua del linguaggio. Il linguaggio ha la figura del serpente: opera distinzioni (bene/male; buono/cattivo; giusto/ingiusto), parla per separazione – il simbolo edenico è scisso. La lingua può farsi biforcuta: il veleno è il suo stigma. Il serpente, dice il Nazareno, non va ucciso – impossibile risalire all’Eden, utopia da idolatri – ma ‘preso in mano’. Anche se ne beviamo, quel linguaggio avvelenato non ci farà alcun male.
La frase si snoda sul foglio come il serpente sulla sabbia.
Corazzati dal “mio nome” non serve lingua per dialogare coi demoni e scacciarli: basta la formula. Nel nome di Gesù è raccolto l’alfabeto celeste.
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Di solito, il prodigio delle “nuove lingue” di cui accenna Marco viene avvicinato all’episodio pentecostale descritto nel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli: Pietro e gli Undici, annaffiati da “lingue come di fuoco”, irrorati dallo Spirito Santo “cominciarono a parlare in altre lingue” (At 2, 3). In questo modo, è ricucito lo strappo operato a Babele: le lingue divise tornano lingua indivisa; gli apostoli parlano l’idioma dei Parti, dei Medi e degli Elamiti, il dialetto del Ponto e quello della Panfilia, la lingua dei Romani, quella degli Arabi e quella dei Cretesi (cfr. At 2, 9 ss.).
Le “altre lingue”, tuttavia, non sono le “nuove lingue”. Il carisma pentecostale è direttamente legato all’evangelizzazione, alla “dimensione universale della missione degli apostoli” (Bibbia Tob); le “nuove lingue” cui accenna Marco riguardano una facoltà che allontana il male e opera guarigioni. È verbo che sutura. Non c’è interesse ‘pratico’ – di evangelizzazione – nel ‘segno’ segnalato dal Messia: il ‘segno’ è in quanto tale, opera di per sé.
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Il Dio che parla del Primo Testamento – Dio crea “dicendo”, operando per verbo – si presenta come Cristo-Logos nell’ineffabile prologo del Vangelo di Giovanni. Per questo, il Nuovo Testamento è continuo inabissarsi nelle “nuove lingue”. Ne rintracciamo diverse, ciascuna con una propria particolarità.
Nel capitolo 12 della Prima lettera ai Corinzi, Paolo allinea tra i “diversi carismi” il “linguaggio di sapienza” e il “linguaggio di conoscenza”, il “dono della profezia”, “la varietà delle lingue” e “l’interpretazione delle lingue”.
Poco più avanti, Paolo parla delle “lingue degli angeli” e del “dono delle lingue” (glossolalia), intendendo la facoltà di chi “non parla agli uomini ma a Dio poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende” (1 Cor 13, 2).
Si tratta di miracoli linguistici opposti: il primo – le “altre lingue” – è un dono universale, il dominio sopra tutti gli idiomi dell’uomo, Babele nello zaino; il secondo – “il dono delle lingue” – è un linguaggio privato tra il fedele e Dio, a cui gli altri uomini sono esclusi, è il linguaggio cifrato del cuore, che si sviluppa secondo un alfabeto invisibile: un’altalena in cima a Babele, un inginocchiatoio. Ciascuno, diremmo, ha la propria lingua, la grammatica propria, appropriata al dialogo con Dio. Il genio ‘universale ‘cattolico’ a confronto con il delirio del particolare.
Esige la propria proprietà privata, la lingua. E la propria comunione.
Già, ma quali lingue parlano gli angeli? Che diversa ispirazione spira nel profeta e nell’invasato? Il profeta percorre la Legge e gli è avanti, ne è il colono e la sentinella e perfino il corsaro; l’invasato è al di là della Legge, al giogo del suo amore per Dio: chi può discernere se la sua è parola davvero all’Onnipotente?
I ‘segni’ annunciati dal Nazareno sono gli stessi, capovolti e riassunti in forma grottesca, che animano il posseduto, l’indemoniato.
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Il Nuovo Testamento è scritto in una “nuova lingua” – non è quella in cui si esprimeva Gesù, ad esempio, è una lingua impura fatta nuova. Anche la lingua di Paolo è lingua nuova, un greco mai udito prima: verbo che si fa malta, Omero uscito dalla sinagoga, Platone in Galilea.
Lev Tolstoj era ossessionato dal linguaggio evangelico: lieve e perentorio, all’apparenza rude, di rupi-verbi, eppure enigmatico, sempre nuovo, duttile a letture continue. Lingua serpentina, che si muove. Lingua viva. Cercava di imitarne i modi.
Lingua che salva.
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Il formulario delle parole di guarigione usate da Gesù – Talità kum, ad esempio – sono ulteriore eccezione alle “lingue nuove”. La novità è in chi pronuncia quelle parole, rinnovandone il senso: parole che vanno ripetute, abitate, come si sta nell’alveo della preghiera. Parole che esulano dal vocabolario, prive di prole.
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“Lingue nuove”. Kainos: “nuovo”, cioè: “recente”; meglio: “di nuovo tipo, senza precedenti, mai udito”. Il cristiano – il fedele in Cristo – non parla le lingue degli altri, le altre lingue, ma una lingua inaudita, mai udita prima.
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L’ossessione di Tolstoj – scrivere in una lingua “nuova” – non riguardava lo “stile”. Lo stile impone una moda, passeggera – le “lingue nuove”: perenne gioventù della lingua. Tolstoj voleva la lingua in grado di maneggiare i serpenti e di guarire gli ammalati.
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Capire cosa significhi questa “novità”. Il ‘nuovo’ non è ciò che non è mai stato fatto prima su questa terra. Questa novità non è inaudita: inibisce il nuovo. Non intendiamo, cioè, orientare la lingua al nuovo mondo, all’odierno. Di questo, s’è detto di tutto, il Novecento ha fatto glossolatria, latrina verbale, trogolo del verbo. Dunque: le avanguardie; i linguaggi ‘specifici’; i sofismi elettorali. Lingua a guinzaglio del mondo.
Il ‘nuovo’, in questi termini, è l’immutabile – ciò che è lì da sempre ma che non abbiamo ancora visto.
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Questa “lingua nuova” è l’oggetto dell’incessante caccia del poeta: Dante che nel De vulgari eloquentia insegue la lingua-pantera, la lingua-Messia; Friedrich Hölderlin che adempie il verbo scassinando la profezia, passando dai precipizi verbali dell’in-folio di Homburg agli estatici idilli ideati sul ciglio della “Torre”, quando, spossessato il nome, si firmava “Scardanelli”; Arthur Rimbaud, la cui novità partecipa di inferi e di illuminazioni, risale fino al verbo dei primordi, incaricandosi del vocabolario delle belve più che di quello degli accademici, tale da inibirlo al poetare, trasbordandolo in Africa, dove tutto è originario. I versi-cuciture di Emily Dickinson, verbo edotto dall’ago, glifo, sillabe che artigliano il piccolo mondo in cui si rispecchia il creato intero:
“Immortale è un’ampia parola
Quando quel che ci serve è qui
Ma quando ci lascia per un momento
È una necessità”.
E poi:
“Un parola è morta quando è detta
dicono –
io dico che comincia a vivere
quel giorno”.
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Boris Pasternak – allievo ambiguo di Tolstoj – ha scassinato per tutta la vita la propria opera in virtù di quella “lingua nuova”. Nel Dottor Zivago esprime la sua concezione in questo modo:
“L’arte primitiva, quella egizia, quella greca e la nostra arte sono, attraverso il corso di molti millenni, sempre la medesima cosa, sempre arte al singolare. È una sorta di idea, di affermazione della vita, che per la sua sconfinata ampiezza non si può scomporre in singole parole; ma quando una briciola di questa forza entra nella composizione del più complesso organismo, l’ingrediente arte supera di per sé il significato di tutto il resto e diventa l’essenza, l’anima e il fondamento dell’intera rappresentazione”.
Qual è quel punto inalterabile, alfabetico, in cui la cosa consueta diventa ‘per la prima volta’ e ‘per sempre’? Nel poemetto Le onde, Pasternak parla della “nuova lingua” come di un “imparentarsi a tutto ciò che esiste”, dice di “incorrere, alla fine, come in un’eresia,/ in un’incredibile semplicità”. In una poesia più tarda, rasenta una poetica dell’esistere: “non devi recedere d’un solo/ briciolo dalla tua persona umana,/ ma essere vivo, nient’altro che vivo”. La parola che tiene vivi, porta la vita, risolve in antidoto il veleno, spiana la spirale delle serpi, non si fa sedurre dalle insinuanti verbosità dei demoni.
Parola: umana troppo umana. Parola riparatoria, da riconsegnare: che sia lume, che sia di brace.
In Naturalezza del poeta Mario Luzi concelebra alla questione, sempre nuova, che divide “Glossolalia e profezia”.
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“Tutto quel che dico è bestemmia”, dice Angela da Foligno nel Liber, alla ricerca della lingua nuova che definisca il suo esperire Dio. D’altronde, nella crosta delle piaghe del lebbroso, rimastale conficcata in gola, rimestata, dopo aver pulito l’infermo e bevuto del suo livido liquido, aveva intuito l’ostia, la stimmate. Dunque: scorticare la bestemmia per arrivare a quella nuova lingua?
Nudità del linguaggio. Apostasia del linguaggio. “Di ogni parola che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio” (Mt 12, 36).
E di ogni parola scritta?
Ci è preclusa la ‘novità’ della lingua? Il sentiero del linguaggio ha sentore d’erba, parabola di chi nella falena intravede l’arcangelo, nella bava d’argento della lumaca s’illude di riconoscere un poema in vipere.
Zitti tutti.