23 Febbraio 2018

“L’infinito” di Leopardi compie 200 anni. Il suo erede è Cardarelli; ma l’uomo che si è gettato dalla siepe è Caproni. Due poesie (con commento) in memoria

Alla deriva

La vita io l’ho castigata vivendola.
Fin dove il cuore mi resse
arditamente mi spinsi.
Ora la mia giornata non è più
che uno sterile avvicendarsi
di rovinose abitudini
e vorrei evadere dal nero cerchio.
Quando all’alba mi riduco,
un estro mi piglia, una smania
di non dormire.
E sogno partenze assurde,
liberazioni impossibili.
Oimè. Tutto il mio chiuso
e cocente rimorso
altro sfogo non ha
fuor che il sonno, se viene.
Invano, invano lotto
per possedere i giorni
che mi travolgono rumorosi.
Io annego nel tempo.

 

Commento

Dagli “interminati spazi” al “nero cerchio”. Cardarelli erede di Leopardi.

Cardarelli
Matteo Fais è un fan di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)…

La speranza era una monolitica costruzione che, nell’Ottocento, cominciò a sgretolarsi. Si dovette attendere però il secolo successivo per vederla disfarsi completamente senza possibilità di salvezza. Prova ne sia L’infinito di Leopardi che, per quanto episodio a sé stante nella produzione del poeta di Recanati – ma episodio fondamentale – ancora è alieno a quel compiaciuto spirito della catastrofe che conoscerà il ’900. Basti paragonarlo a quella che è probabilmente la più bella e rappresentativa poesia del secolo appena concluso, Alla deriva di Vincenzo Cardarelli (da molti considerato il Leopardi del ventesimo secolo). La prima cosa che colpisce, infatti, mettendo a confronto le due liriche è la scelta da parte di entrambi gli autori per un linguaggio semplice, quasi traslucido, e al contempo estremamente musicale. Ma, del resto, queste sono da sempre le peculiarità di un grande componimento: semplicità, rigore, musicalità. Se ci si concentra, comunque, al di là delle sottigliezze stilistiche, ci si avvede immediatamente di come vi sia un legame diretto, o più precisamente una filiazione della lirica di Cardarelli rispetto a quella leopardiana. Alla deriva costituisce il contraltare novecentesco di L’infinito. Se quest’ultimo si apre su un piano visivo che da un colle guarda verso un vasto orizzonte, per quanto schermato dalla nota siepe, il testo del poeta di Tarquinia sembra invece prendere le mosse dall’assenza di una visuale ampia. L’ottica pare, anzi, quella descritta da Nietzsche di un orizzonte cancellato. Pur essendo quindi entrambi dei testi meditativi, quello leopardiano guarda all’assoluto, quello cardarelliano presuppone un ripiegamento cieco sul proprio sé. E ciò è, appunto, tipicamente novecentesco: l’Io è diventato l’unico luogo e la realtà esterna un particolare secondario. Se il poeta ottocentesco ha un “infinito”, per quanto almeno in parte ideale, entro cui muoversi con la mente, quello del Novecento si ritrova condannato all’asfittica e funesta prigione rappresentata dal “nero cerchio – mirabile immagine! Certamente, in ambo i componimenti, gran peso ha la dimensione immaginifica. Ma se per Leopardi quel che “nel pensier mi fingo” è chiave d’accesso verso la fusione cosmica con l’Essere, con una ragione più grande, panteisticamente intesa, per Cardarelli l’estro da insonne, quel sognare, conduce unicamente al rimorso, a una torsione mortale intorno al proprio sé. A livello tematico, è quasi come se l’autore di Il sole a picco avesse tirato le somme tra un primo Leopardi di L’infinito e quello finale di A se stesso (“Or poserai per sempre,/ stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,/ ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,/ in noi di cari inganni,/ non che la speme. Il desiderio è spento./ […] Amaro e noia/ la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo”). E la contrapposizione ultima – estrema vicinanza e distanza – arriva nella chiusura del testo di Cardarelli. Leopardi con il pensiero conosce una possibilità di fuga che è anche una salvezza, una seppur vaga consolazione e il suo naufragio è appunto dolce, come lo definisce lui stesso. In Cardarelli, questa eventualità scompare e il naufragio non conoscerà alcun approdo positivo. Resta solo l’annegamento, l’annichilimento, la fine, il predominio di quel terribile potere “che, ascoso, a comun danno impera”.

Matteo Fais

 

*

Quattro appunti

 

1.

 

Son già dove?

 

Già quando?…

 

(Chiedo.

 

Non è che mi stia allarmando.)

 

2.

 

Son già oltre la morte.

 

Oltre l’oltre.

 

Già oltre

(in queste mie estreme ore corte)

l’oltre dell’oltremorte…

 

3.

 

Io già all’infinito distante.

 

Qui, in questo mio preciso istante.

 

Dove, morto ormai il bettoliere,

aspetto – “come se” Nulla fosse – il solito

(già dileguato) bicchiere…

 

4.

(Io già al di là d’ogni attesa…

Già scavalcata ogni resa…)

 

Commento

Ma la vera fonte di Leopardi è “Res amissa” di Caproni

Caproni
…a Brullo garba di più Giorgio Caproni (1912-1990)

Verrebbe da gettarsi. Dalla siepe, dico. Quel genio di Giacomo Leopardi sigilla le cose una volta per tutte. Dopo Leopardi, per dire, non possiamo più scrivere una poesia sulla luna, sull’aiuola vicina a casa o sulla ginestra senza incorrere in una tremebonda vergogna, senza capitolare nel kitsch. Da 200 anni, da quella siepe, vien voglia di buttarsi giù. Varcare quella siepe – che in fondo è il cancello celeste verso l’infinito – e sfondare “l’eterno” e fecondare gli “interminati spazi” e i “sovrumani silenzi”. Giorgio Caproni, per dire, ha fatto due cose. Intanto – era il 1984, in una intervista – ha messo a posto il cosiddetto pessimismo leopardiano, etichetta scolastica per far scadere le voglie poetiche degli alunni castrati. “Io non sono pessimista, come non lo era Leopardi, il poeta che amo tanto. Per me Leopardi, anche quando si dispera e accusa, è un ‘datore di vita’. È stato lui che mi ha impedito di diventare un nichilista, lui che non ha mai rinunciato alle sue illusioni”. Detto da lui. Caproni. Quello che ha tradotto Morte a credito di Céline e Diario del ladro di Jean Genet. Quello che ha doppiato, con voce chioccia, Giorgio Cataldi, il Monsignore del mefistofelico film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Caproni poi fa un’altra cosa, più importante. Dalla siepe di Leopardi si getta. La usa come pedana lirica per gettarsi “oltre l’oltre”: l’“infinito silenzio” di Leopardi si muta in “infinito distante”. Giorgio Caproni il 7 gennaio scorso avrebbe compiuto 106 anni, se ne è andato nel 1990, donandoci, nella maturità, alcuni libri di incredibile bellezza, come Il conte di Kevenhüller (1986), che si legge come un libretto d’opera ma ha l’arguzia di un testo presocratico. Il libro più bello, però – benedizione data agli ispirati – è l’ultimo, postumo, Res amissa, da cui abbiamo estratto la poesia che leggete. La parola, nuda, tra l’epigrafe e la filastrocca, tocca, con sovrana leggerezza, gli indicibili – la morte, il segreto della vita, il nulla. “Di tutti i libri di poesia che si continuano e si continueranno certamente a pubblicare, è impossibile dire se anche uno soltanto potrà essere all’altezza dell’evento che qui si è compiuto. Possiamo solo dire che qui qualcosa finisce per sempre e qualcosa ha inizio”, scrive Giorgio Agamben in una eccitata introduzione al libro, pubblico nel 1991. Il filosofo ha ragione. Nessun poeta prima di Caproni ha setacciato “l’oltre dell’oltremorte”, con unghiata lirica tanto letale. Parole che prevengono la pietra e provengono da ere senza eco. Si ha l’idea che Leopardi, prima di ideare L’infinito abbia letto questi versi di Caproni.

Davide Brullo

 

 

 

 

 

 

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