17 Giugno 2021

“Piccola ma implacabile”. Liliana Heker: corso di scrittura con racconto

Il primo racconto che ho letto di Liliana Heker è stato per me una scoperta tanto importante che ricordo esattamente dove mi trovavo, come chiusi il libro per cercare di capire come mai mi aveva toccato in quel modo e come lo riaprii pochi minuti dopo per rileggerlo tutto da capo. La fiesta ajena, molto probabilmente uno dei suoi racconti più proposti e tradotti, fu il mio primo approccio al suo mondo ma i suoi territori erano già tutti lì: gli aspetti più sinistri che si insediano nella routine familiare, l’infanzia, il fascino per l’ignoto, per la memoria, per l’assurda saggezza. Rilessi la prima riga: “Non appena arrivò, andò in cucina a vedere se c’era la scimmia”. Era impressionante il cumulo di domande che suscitava quella riga: chi era arrivato? Per “scimmia” si intendeva esattamente una scimmia? E se fosse stato così, perché c’era una scimmia in cucina e quanto pericolosa poteva essere una situazione simile? Allora non si trattava soltanto dell’effetto di quelle parole sulla pagina, si trattava anche di tutto quello che Liliana Heker stava scrivendo nella mia testa. Continuai a leggere. Con efficaci punti di tenerezza e crudeltà la trama era già ricamata, e non appena Rosaura pensa di aver trovato finalmente il suo luogo nel mondo, la cruda realtà delle classi sociali la riporta al suo posto. Una storia inquietante, diretta e brutale.

Conobbi Liliana Heker alcuni mesi dopo. Tutti noi che abbiamo frequentato il suo corso di scrittura abbiamo condiviso a un certo punto il terrore e gli aneddoti del primo colloquio. È un incontro privato da superare prima di potersi unire al gruppo. Di tutte quelle storie, la mia preferita è quella di un aspirante, che era anche un chirurgo, che le aveva detto che fin da giovane aveva desiderato scrivere un romanzo e che adesso, che finalmente aveva tempo essendo andato in pensione, aveva capito che era arrivato il momento giusto per iniziare. Al che Liliana rispose: “Benissimo. E cosa ne dici, se io quando vado in pensione come scrittrice mi dedicassi alla chirurgia?”. Quando racconto questa storia tutti mi chiedono che fine abbia fatto il chirurgo, se è riuscito o meno a entrare in uno dei vari gruppi. Ma una cosa che ho imparato al corso è che a questo tipo di domande non vale la pena rispondere.

Riuscii a sopravvivere al colloquio, ma ricevetti la mia prima lezione quando alla fine riuscii ad unirmi al gruppo: rispettosa delle mie esperienze precedenti nei corsi che avevo frequentato, sapevo che il cibo e la socializzazione erano importanti, così per fare bella figura mi presentai al primo incontro con un vassoio di biscotti appena sfornati. E Liliana Heker disse: “Adoro i biscotti, ma all’ora del mate. In questo corso non si mangia”. Quando si lavorava, si lavorava. Ma era anche un corso in cui, finito il lavoro, si festeggiava alla grande — pubblicazioni, premi, incontri — e in quegli anni ci fu molto da festeggiare.

Piccola ma implacabile, durante il corso stava seduta — tra tutte le poltrone del salotto — nell’unica sedia di legno. Era l’ultimo posto che avrei scelto per sedermi, ma adesso penso che quella semplice scelta racchiudesse tutta una dichiarazione di intenti. Durante il corso non si prendeva il tè e non si esaudivano passatempi rimandati. Se volevamo imparare, dovevamo rimboccarci le maniche. Dritta sulla sua sedia diceva: “Questa non è una terapia, nessuno viene qua per guarire”. “Se fossimo sani di mente, non scriveremmo”. Diceva: “La voglia di scrivere viene scrivendo”. Diceva: “Ma perché mai attendere che tutte le condizioni esterne siano ideali? Uno scrive nonostante quello che succede e su quello che succede”.

Frequentando il corso e leggendo i suoi libri, avrei scoperto che per Liliana Heker il romanzo esige un enorme rigore interno. Che la prima bozza di una storia è solo un male necessario e che scrivere è anche un lavoro di ostinata riscrittura. Bisogna imparare a riconoscere, nel germoglio di un’idea, tutto quello che una storia sta già reclamando. Ogni elemento deve essere focalizzato su un unico effetto estetico: la sua massima capacità di senso, di espressione e di intensità.

Flannery O’Connor diceva che per le persone è molto facile parlare del mondo delle idee e delle astrazioni, ma che il mondo del narratore è fatto di materia. Parlava anche della “tecnica” che, concepita a volte come una formula rigida che si impone su un’idea, è in realtà qualcosa di organico che nasce dal proprio materiale. Quando lessi Los juegos, il primo racconto scritto da Liliana Heker e pubblicato all’età di diciassette anni, pensai alle parole di O’Connor e mi chiesi fino a che punto un narratore nato riesca a maneggiare queste idee in modo intuitivo. A quell’età Liliana Heker era già una grande lettrice e partecipava all’emblematica rivista El Grillo de Papel. Tuttavia, era la prima volta che sperimentava le sue capacità nel racconto. E anche in questo modo è facile riconoscere come quella materialità e quella tecnica della quale parlava O’Connor erano già lì.

In Los juegos la protagonista, una bambina offuscata dai comandi della madre e dai doveri dell’infanzia, ha già una propria voce, un ritmo e un tono che aggiungono alla trama un altro tipo di rivelazioni, forse più sottili ma non meno importanti. C’è già l’idea della solitudine come spazio indiscusso della scrittura, e qui ricordo Liliana che dice: “La vertigine che si prova durante la scrittura è quella della libertà assoluta. Non c’è niente di pattuito, tutte le strade sono possibili e ognuno è assolutamente solo nelle sue scelte. La cosa più salutare per uno scrittore è andare d’accordo con quella solitudine”. In Los juegos c’è anche un’idea della femminilità che si allontana dai convenzionalismi e dalle aspettative sociali; c’è simpatia e curiosità per gli spazi maschili forse semplicemente per il fatto che, per una bambina, è anche lo spazio dell’ignoto. E durante il corso, seduta sulla sua sedia, Liliana Heker dice “il femminile e il maschile non sono attributi letterari. Il sesso di un autore pesa senza dubbio sulle sue creazioni, come pesano la sua origine, la sua esperienza o la sua nevrosi. Non è mai l’unico aspetto determinante di un testo scritto”.

Samantha Schweblin

Lei è Samantha Schweblin

Liliana Heker, I giochi

A volte mi viene proprio da ridere. Perché loro non possono nemmeno immaginarsi le cose e allora cercano di spiegare tutto: si vede che non possono vivere senza spiegare. Ogni tanto penso che dovrei dire loro la verità, sono già pronta, sembra che stia per iniziare ma poi loro dicono: perché non giochi con la tua bambola? Ma non ti piace più? E a me certo che mi piace. E come giochiamo, se solo sapessero! Ieri ci siamo perse nel bosco, quello vicino alla casa in cui a volte ci viene voglia di vivere; io avevo delle lunghe trecce nere, ero scalza perché avevo perso le scarpe e morivo di paura. Ma sotto sotto sapevo che avremmo trovato una casetta con dei labrador e dei bambini pieni di avventure e panini caldi e fragranti. E volevo avere più paura così dopo mi sentivo più sollevata.

Ma non potei piangere tra le braccia della donna né giocare con i suoi figli né riempirmi la bocca di pane appena sfornato perché arrivò la mamma e mi disse: perché te ne stai sempre senza far niente? E allora tirai fuori la bambola dalla scatola e iniziai a darle il biberon. E la mamma mi disse: hai visto che riesci a intrattenerti quando vuoi?

Il pomeriggio mi portò a casa di Silvia per giocare con lei e non restare sempre sola. A Silvia piace giocare a fare visite: dice le cose che dicono le mamme quando fanno visita a qualcuno; le signore grandi la guardano, ridono e dicono che è una birichina. Silvia avrebbe voluto essere grande per dire tutte quelle cose sul serio e mi disse che ero una stupida perché non mi ero mai messa il rossetto e che il mio vestito era vecchio e brutto e che suo papà le comprerà una bicicletta perché è più ricco del mio. E a me è salita una cosa grande e strana che mi è rimasta in gola e ho iniziato a piangere così forte come quando mi schiaccio un dito nella porta. Allora la mamma mi riportò a casa e mi disse che ero una piagnucolona e che non sapevo giocare come le altre bambine e che, a Silvia, devo risponderle quando mi fa arrabbiare perché altrimenti tutti rideranno di me. E io ricominciai a piangere più forte senza potermi fermare.

Ma la sera, quando ero a letto, risposi a Silvia: le dissi tutte le cose che mi si erano bloccate in gola e che non ero riuscita a dirle prima. Se mi avessero sentito! Le dissi che se non mettevo il rossetto non era perché avessi paura di qualcuno, ma perché non mi piaceva perché è appiccicoso e perché ha un brutto odore. E che io avevo vestiti mille volte più belli di quello là e che me li potevo mettere tutti insieme se volevo perché io posso fare quello che voglio e nessuno può dirmi niente. Ma a me poi cosa mi importava mettermeli: tanto, per andare a casa sua. E le dissi che mi compreranno un cavallo che corre più veloce di un treno quando avrò sette anni. A quel punto lei mi volle dire qualcosa ma io non la lasciai parlare e le dissi che la stupida era lei che leggeva ancora solo delle favole, mentre io avevo già letto un sacco di libri lunghi e con tante pagine. Lei moriva dalla rabbia ma io le dissi che era anche una sciocca perché diceva che i maschi sono dei maneschi e che non sanno giocare ma quella era una bugia perché giocano molto meglio di noi e che se a lei non piaceva giocare con loro era perché era di burro. Silvia cercò di strapparmi i capelli ma allora io la afferrai e la picchiai così forte che dovette andarsene di corsa. E si mise a piangere. Piangeva così forte che alla fine vennero tutte le signore grandi a vedere. Tutte. E scoprirono che avevo picchiato Silvia perché era stata cattiva con me. E la mamma mi disse: non si picchiano le bambine: è molto brutto. E Silvia piangeva e piangeva.

E tutto si svolse così sul serio che quando finì stavo piangendo sul letto. Ma non piangevo perché ero triste. Piangevo come se fossi Silvia e mi facesse arrabbiare così tanto che una bambina per me molto stupida mi avesse fatto vergognare così tanto davanti a tutti.

Liliana Heker

*La traduzione è di Giulia Mele con la revisione e cura del testo di Mercedes Ariza. I testi originali in spagnolo di Los juegos sono tratti dalla raccolta Cuentos reunidos. Buenos Aires, Alfaguara, 2016, pp.385-386

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