“Soviet Man”. Hélène Iswolsky, l’anticomunista che oppose Cristo a Stalin
Cultura generale
Fabrizia Sabbatini
Due diverse forme di impegno intellettuale ci intrattengono come autori o come lettori, e tranne straordinarie eccezioni tendono a escludersi a vicenda. Sono queste il saggio e l’arte. L’antitesi tra ricerca e vocazione si evolve nella contesa di soggetti che vengono quindi trattati e tramandati da due tradizioni parallele. I contadini figurano tra i soggetti più emblematici di questa contesa: frequentissimi nell’immaginario artistico e centralissimi nell’attenzione dei saggisti.
A partire dal XIX sec., la tradizione storiografica si interroga sull’utilità dell’invenzione, intesa come congettura narrativa che sopperisce alla scarsità di documentazioni intime e private dei personaggi rurali.
Nel saggio Del romanzo storico, pubblicato pochi anni dopo la stesura della versione definitiva de I Promessi Sposi, Manzoni promuove la narrazione storica paragonandola a una carta topografica, che rispetto a quella geografica vuole rappresentare alture e rilievi. Bazzoni la intende invece come una «gran lente in un punto dell’immenso quadro tracciato dagli storici». Il quadro è quello della sconfinata scena umana, il punto isolato sono i contadini e la loro cultura “subalterna”. A Natalie Zemon Davis dobbiamo il lavoro di ricerca sulla vicenda di Martin Guerre, la storia di un furto di identità del XV sec. riproposta nel saggio Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento (Einaudi, 1984), e che nella sua travagliata vicenda editoriale si è proposta come uno dei principali casi di narrazione storiografica. Impossibile non ritrovarsi tra i lavori di Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi (Einaudi, 1976) e la postfazione al saggio della Zamon Davis insistono sull’importanza dell’intreccio tra realtà e finzione che consente di indirizzare la ricerca verso scene di vita privata, costrette ai margini della scena umana dall’analfabetismo a dagli altri fattori che hanno causato la scarsità di fonti scritte. Per secoli, le fonti letterarie hanno inserito il contadino nello schema della commedia, dicendo ben poco su speranze, sentimenti e percezione dell’esistenza. A Ginzburg dobbiamo anche la splendida citazione di Céline in apertura del suo saggio: «Tout ce qui intéressant se passe dans l’ombre… On ne sait rien de la véritable histoire des hommes» «Tutto quello che è interessante accade nell’ombra, davvero. Non si sa nulla della vera storia degli uomini».
Parallelamente, la sensibilità degli artisti è solcata da sempre dalla condizione esistenziale contadina. Nell’immaginario calvinista ad esempio, la loro esistenza è subordinata alla redenzione, allo sfinimento e alla conquista ascetica della salvezza. Ma nell’arte, l’idea della salvezza veicola sentimenti di commozione e fascinazione che in particolar modo emergono prepotentemente in due opere del XIX sec., l’Angelus di Millet e I mangiatori di patate di Van Gogh. Sono opere immense e fondamentali per la storia dell’arte che si sarebbe scritta dopo di loro. L’Angelus avrebbe prodotto un importante effetto sull’inconscio di Dalí, che con le sue paranoie aveva lo stesso rapporto che il domatore instaura con la tigre, manipolandole secondo il metodo paranoico-critico tutto a beneficio dell’arte e di chi vuol fruirne. A Nuenen, Van Gogh confessa al fratello di sentirsi nauseato dalla pittura da studio: «Ma andate un po’ a sedervi fuori! Dipingete sul posto! Vi capiteranno ogni sorta di avventure». La sua malinconia era un pericoloso ordigno interiore, e i campi e le facce dei contadini hanno provocato la deflagrazione dei colori «che seguono quasi da se stessi – scriveva a Theo – e prendendo un colore come punto di partenza, ciò che ne deriva, e come mettervi vita, mi si presenta chiaramente allo spirito». Sempre a proposito dell’impiego del colore, vi è un altro irresistibile frammento di questa lettera (n. 429, ottobre 1885) in cui spiega di voler rinunciare al «colore locale», di partire dai colori della tavolozza piuttosto che da quelli della natura: «della natura conservo una certa sequenza, una certa esattezza per quanto concerne l’uso dei colori… ma che il mio colore sia alla lettera esattamente fedele, questo conta meno per me, purché sulla mia tela appaia bello come nella vita». Millet era figlio di contadini, partecipava alla vita nei campi e si sbracciava al loro fianco. Eppure guardava a quella condizione dalla prospettiva di chi non vi appartiene e ne subisce tutto il fascino proprio in virtù dell’estraneità a quel contesto. Quando si trasferisce a Nuenen, Van Gogh è solo all’inizio del suo itinerario, e guarda a quel mondo dalla stessa prospettiva di Millet, sulla scorta di una educazione protestante e dell’ispirazione di chi ha varcato i confini di un mondo che gli è estraneo.
Eppure, all’inizio del Novecento la letteratura ha imparato a ritrarre i contadini rinunciando in parte all’intento speculativo sociologico, storiografico o politologico. È bello pensare che abbia ereditato la vocazione pittorica degli artisti che hanno rappresentato la condizione esistenziale contadina. Chi meglio di Carlo Levi, pittore e scrittore, è in grado di raccontare questa evoluzione letteraria? E chi meglio di John Steinbeck ha saputo armonizzare cronaca e vocazione? Cristo si è fermato a Eboli e Furore sono due romanzi molto diversi, ma entrambi convergono a mezzo di ispirazione poetica verso l’immagine del contadino. Guardano alla sua condizione da vicino, si percepiscono i loro sentimenti di solidarietà sociale e di commozione artistica (in questo, più Levi di Steinbeck). Le due opere assumono la forma di un voyage intrapreso dagli autori attraverso le tre strade che delimitano la dimensione contadina: dolore, redenzione, salvezza. Sono opere diverse perché concepite lungo due viaggi interiori diversi. Per Steinbeck, Furore rappresenta il suo punto di partenza biografico, l’opera lo consacra come intellettuale e come cronista. Per Levi, il suo Cristo rappresenta il binario di arrivo di una vita intensa e romantica sotto il profilo dell’attivismo politico e delle avventure che forse Steinbeck gli avrebbe invidiato.
Nascono entrambi nel 1902. Nel 1918 Levi fa la conoscenza di Piero Gobetti, Steinbeck si iscrive ai corsi della Stanford University che frequenta saltuariamente. Nel 1926, Levi aiuta i socialisti a fuggire all’estero, lo stesso anno in cui Ferruccio Parri e i fratelli Carlo e Nello Rosselli pianificano la fuga di Turati con il motoscafo che Adriano Olivetti aveva acquistato e testato a sue spese. Queste erano le amicizie di Carlo Levi, che si avvicinerà al movimento «Giustizia e Libertà». Levi aveva iniziato a dipingere a circa vent’anni, affascinato dalle opere di Modigliani e Soutine aveva interpretato il loro grido interiore come una forma di ribellione culturale anti-gerarchica (e quindi antifascista). In quegli anni, Steinbeck tenta di affermarsi come scrittore svolgendo diversi lavori per mantenersi, ma senza riuscire a riscattarsi. Nel 1934, Levi viene arrestato (per la seconda volta) e confinato dapprima a Grassano e poi a Galliano, in Lucania. L’anno successivo Steinbeck pubblica Pian della Tortilla, il suo primo successo, e nel 1936 è inviato in California dal San Francisco News per condurre un’inchiesta sui braccianti. Nel 1939, quando Levi si reca in Francia dove scrive Paura e Libertà – un’opera ideologicamente più impegnata del Cristo ma diffusamente considerata come il prologo di quest’ultimo – Steinbeck pubblica Furore. L’esperienza del confino matura nell’inconscio di Carlo Levi per circa dieci anni, concependola pittoricamente secondo un’armonia cromatica spezzata nell’accostamento dei colori funerei delle case e di quelli torridi del paesaggio brullo, conservandone una certa sequenza purché la narrazione appaia bella come nella vita.
Inizia la stesura nel dicembre del 1943 nella sua casa di Firenze, quando era occupata dalle truppe naziste, e lo completa nel luglio successivo. Quell’anno, Steinbeck giunge a Londra come corrispondente di guerra, si reca poi ad Algeri e da qui segue la campagna d’Italia, arrivando a Salerno l’11 settembre.
Attorno a queste due opere si è addensato un pulviscolo di intellettuali che ci supportano nel recepirne il valore. A Calvino dobbiamo una importantissima disamina del Cristo, per Furore non si può invece ignorare la riflessione di Harold Bloom. Proprio come Van Gogh, Carlo Levi ha varcato i confini del proprio mondo, scoprendo un limite tanto geografico quanto psicologico. Calvino ci aiuta a comprendere la portata di questo impatto, e gli effetti letterari che caratterizzano l’opera. Ci suggerisce infatti come questa sia «direttamente legata alla testimonianza del nostro tempo. Perché testimoni del nostro tempo ce ne sono tanti, è la peculiarità di Carlo Levi sta in questo: che il testimone della presenza di un altro tempo all’interno del nostro tempo, e l’ambasciatore di un altro mondo all’interno del nostro mondo». Si ritrova ovvero il tema del limite che sta al centro di Cuore di tenebra. Levi non patisce il terrore di Kurtz, ma avverte, e descrive, lo smarrimento dovuto alla sua condizione di estraneità in un mondo alienato rispetto alla storia cristiana occidentale. «Che il mondo vero sia quello e non il nostro, per lui è una certezza» scrive Calvino, e noi ce ne rendiamo conto tutte le volte che leggiamo cose come questa: «un brusio indistinto mi gira attorno in grandi cerchi, e di là c’è un profondo silenzio. Mi par de esser caduto dal cielo, come una pietra in uno stagno». E ancora, per descrivere la percezione mistica del non-tempo, Levi non manca di soffermarsi a contemplare un vecchio cane: «Migliaia di mosche anneravano l’aria e coprivano le pareti: un vecchio cane giallo stava sdraiato a terra, pieno di una noia secolare». La Lucania di Levi è fuori dal tempo, subordinata alla magia e all’impotenza perenne, perfino la morale è astratta rispetto a tutti i suoi contrari. La povertà è un male intrinseco di tutte le cose, e non vi è alcun bene da contrapporgli.
La morale cristiana non è pervenuta a Galliano, non vi può essere un Sermone dei Calanchi che faccia le veci del Discorso della Montagna, non vi può essere passione ma solo passività. Soltanto la sensibilità di un poeta può riconoscere la bellezza che si cela nell’impotenza e nel dolore esistenziale dei contadini. A Galliano tutti sanno che il marito della vedova è stato ucciso dalla strega contadina sua amante attraendolo con dei filtri d’amore. Nessuno, oltre Levi, subirebbe il fascino dello zoppo che soffia nel corpo di una capra morta, allo scopo di sollevarne la pelle per facilitarne lo scuoiamento a un angolo della piazzetta, dove «la capra, nuda e spelata come un santo, rimase sola sul tavolaccio a guardare il cielo».
Può una narrazione di questo tipo essere considerata una forma di cronaca? Calvino riconosce a Levi il fatto che le «notizie» da lui riportate «raramente si trovano sui giornali» e che si tratta di «notizie di paesi dove prima dell’alba gli uomini sono in marcia per raggiungere i campi lontani, notizie di lutti, di arresti, di occupazioni di terre, ma anche notizie di filtri d’amore, di incantesimi, di spiriti notturni». La differenza con la cronaca redazionale che vuole informarci dei fatti si spiegherebbe a partire dalla vocazione. In Carlo Levi vi è la stessa vocazione pittorica che si compie non mediante l’iridescenza del tratto ma a mezzo della forma scritta. Steinbeck aveva un temperamento diverso rispetto a quello del medico-artista-attivista torinese. Avvertiva una decisa vocazione letteraria, era ovvero consapevole di saper imprimere uno stile portentoso alla scrittura. Harold Bloom riconosceva all’opera Furore il tono biblico già presente in Whitman e Hemingway, ma che a dispetto di quest’ultimo risulta troppo ovvio e quindi meno sorprendente. Ma Furore è irrimediabilmente considerata una delle più audaci cronache letterarie, che adotta come causa la migrazione degli okies verso la California. Irrimediabile è inoltre la lettura politologica della cronaca, che spesso rischia di imputare a Steinbeck l’intenzione di manipolare la narrazione con finalità speculative. La grandezza di Furore consiste sicuramente nella rappresentazione politicamente consapevole della condizione socio-economica del contadino del midwest, ma non per questo è priva di ispirazione poetica, anche se meno percepibile rispetto al Cristo di Levi. È una delle opere che meglio esprime l’audacia e l’alterità degli scrittori americani, che impiegano il proprio talento allo scopo di progettare una struttura narrativa portentosa retta interamente sulla forza delle allegorie. La più nota è sicuramente quella della tartaruga, fiera e vivace mentre attraversa la strada deserta, ma in balìa degli eventi come la famiglia Joad. Eppure c’è qualcosa che Steinbeck non poteva progettare razionalmente. Questo straordinario monumento contiene infatti un nucleo vitale, denso di vocazione poetica. Come nel Cristo, il superamento del confine psicologico è raccontato sulla scorta di un’angoscia che Steinbeck conosceva bene, quella di sentirsi costretti a lasciare il proprio habitat perché non vi è altro che polvere, e di intraprendere una migrazione verso una meta incerta, ma bella da sognare. La desolazione descritta da Steinbeck è oltretutto quella più tipica dell’immaginario americano. A leggerlo oggi per la prima volta viene quasi una certa voglia di America, di deserto, di voglia di migrare.
Giunti alla meta non vi è che la disillusione, il viaggio non è terminato, perché il viaggio dei contadini è per sempre e da sempre imprigionato nella condizione esistenziale impotente che ha commosso gli artisti più grandi e sensibili, anche di quelli che scegliendo la forma scritta vengono relegati al ruolo di cronisti, piuttosto che di poeti.
Enrico Picone
*In copertina: Jean-François Millet, “Le spigolatrici”, 1857