Uno dei testi più conturbanti di Lev Šestov, La lotta contro le evidenze, sviscera l’opera di Dostoevskij, “in occasione del centenario della nascita”, sventolandola sul muso dei paladini della Ragione, dei livorosi atleti del buon senso, del senso comune, della scienza esatta. Peccato che a duecento anni dalla nascita di Dostoevskij in pochi si curino di citare e di studiare il suo massimo lettore; per altro, il libro in cui è raccolto quel saggio, Sulla bilancia di Giobbe, tanto vertiginoso da essere necessario, pubblicato da Adelphi nel 1991 per la cura di Alberto Pescetto, risulta “temporaneamente non disponibile”. Sfioriamo l’assurdo – ma magari ci insediassimo nell’assurdo, nel mormorio del caos! –, servi, ormai, dei pensatori accademici, accodati in libreria, sul comò, per lo più innocui.
La lotta contro le evidenze – un testo che dovete assolutamente procurarvi, in biblioteca, setacciando, spacciandolo in fotocopie – si apre con una citazione di Euripide, un frammento, il 639 dai Tragicorum Graecorum Fragmenta raccolti dal filologo tedesco Joahnn August Nauck. Il frammento è questo: “Chi sa se forse vivere è morire e morire è vivere”. Šestov si esalta al cospetto del paradosso che impone questa frase, estratta dal contesto, misterioso, specie di fuoco senza legna, di abrasione senza corpo. “Nessuno può sapere se la vita non sia la morte e se la morte non sia la vita. Dai tempi più remoti gli uomini più saggi vivono in questa enigmatica e sconvolgente ignoranza. Solo gli uomini ordinari sanno bene che cosa sia la vita e che cosa sia la morte…”. Šestov non è uno che filosofeggia, che gioca coi concetti come fossero gli attrezzi di un prestigiatore. Non vuole illudere né illuminare. Egli si immerge nella zona irrisolta dell’uomo, nel cupo regno delle contraddizioni, nella tenebra e nel tremendo. Scinde il nero nelle sue asperità, senza aspirare ad alcuna ‘risposta’. Si occupa, appunto, della vita e della morte, del sortilegio e del miracolo; di tutto ciò che i filosofi bandiscono come improprio, non misurabile, inutile ai fini del discorso e del dibattito, del ‘ragionamento’. Per questo, Šestov si rivolge a Dostoevskij, lo scrittore che con linguaggio profetico e gergale ha reclamato le cose inaudite, ha visto oltre il velo delle illusioni, ha capito che la vita, forse, è la morte, e che per vivere davvero bisogna morire a questa vita.
Il frammento di Euripide era noto anche a Platone, che lo cita nel Gorgia, il dialogo sulla retorica e la politica. Socrate risponde a Callicle, il quale sostiene “che non bisogna frenare le passioni… ma che, lasciandole crescere quanto più è possibile, si deve dar loro soddisfazione con ogni mezzo”. “Però”, attacca Socrate, “come sostieni anche tu, la vita è terribile. E non mi meraviglierei se Euripide affermasse il vero là dove dice: Chi può sapere se il vivere non sia morire/ e se il morire non sia vivere. Anche noi, in realtà, forse siamo morti”. Nei dialoghi pubblici, come si sa, Platone alterna ciò che va detto a ciò che bisogna dire. Così, asserzioni di inaudita potenza, inspiegabili, La vita è terribile e Anche noi, in realtà, forse, siamo morti – dove la morte va sarchiata tra la realtà autentica e quel forse, specie di bivio, di chiave di volta – vengono infine soffuse, levigate, cagliate nel benessere filosofico comune. Le anime schiave della passione, insegna Socrate, sono quelle dei “non iniziati”, sono “come bucate”, destinate ai più bui anfratti di Ade. Eppure, potremmo dire, le passioni vanno sfrenate, vanno esaurite per scoprirne la polvere, la fattura, la morgana.
L’epilogo è una specie di lieta novella, di elogio dell’aristocrazia del sapere, delle sorti progressive della filosofia: “un’anima di un filosofo che ha ottemperato a ciò che gli competeva e non si è disperso in vane faccende nella vita” è destinata alle Isole dei Beati. Insomma, dice Socrate, il “ragionamento” è utile “quale guida: esso infatti ci dimostra che questo è il più eccellente modo di vivere: esercitare la giustizia e ogni altra virtù e così vivere e morire”. In questo modo, però, Socrate pare scambiare la morte con la mortificazione, la vita con la viltà. Eppure, la passione esiste, il sangue primeggia sull’anima, il ragionamento – è vero – comporta il fraintendimento, la menzogna. Si parla per improprietà, si pensa per tradizione, tradendo il corpo. Il sapiente non esercita la giustizia, faccenda umana e troppo umana, olimpiade dell’illusione e della ruberia; per lui vivere e morire sono la stessa cosa. Il sapiente è al di là dell’adesione alle divisioni, è nell’indiviso, dove non c’è bene né male, dove ogni aggettivo è vano. Ogni detto di Platone è preda dell’ironia: egli non ci piega alla banale morale; il dialogo, per sua natura, pone le questioni irrisolvibili, il resto è pappa per la polis.
Cosa significa, allora, morire alla vita, cosa significa morte e cos’è la vita? Davvero si vive-per-la-morte e “la morte si sconta vivendo”? Forse il punto è sperimentare la morte nella vita, vivere la morte in vita, aprire il costato al prodigio. In un saggio raccolto ne La coscienza infelice (Aragno, 2016), che s’intitola Lev Šestov, testimone a carico, Benjamin Fondane vede nell’imprevisto, nell’improvviso, nell’istantaneo lo squarcio che separa la vita e la morte e li congiunge, il momento, cioè, in cui finalmente si ‘vede’ l’errore, l’obbrobrio, la magnificenza della menzogna. “Questi rari Istanti, più importanti del Tempo e di quelli che lo negano, accadono, stranamente, solo nel momento in cui l’uomo è malato, incurabile, folle, nel momento in cui si sente perduto, braccato, e nel momento in cui egli ha invocato, a lungo e vanamente, il soccorso del Bene e della Necessità, della carità, delle opere. Quando tutto è perduto – capite? –, quando l’uomo ha tentato di tutto: minacce, gridi, preghiere; quando ha provato ogni cosa: la rassegnazione, la saggezza, la carità… Un’angoscia lo attanaglia tanto da sollevarlo dalle sue preoccupazioni, dalle sue paure quotidiane, dai fantasmi del reale e da rivelargli l’esistenza – ma sì, l’esistenza – del Nulla”.
Inconsapevoli, incolpevoli, forse, non ci si atteggia, ma si sta nell’atteggiamento di chi si schianta al miracolo, schiodato dal tempo, privi di astronomia intellettuale, di testa: si va tra latrine e lavatoi, a quattro zampe, cerberi al prossimo, miniati dalle ombre, disadatti alla veglia, con una postura più che un portamento. “Non si può dire che gli uomini non siano liberi, ma essi temono sopra ogni cosa la libertà. Per questo cercano la ‘conoscenza’, per questo hanno bisogno di un’autorità incontestabile, ‘infallibile’, ai cui piedi tutti insieme possano prosternarsi”, scrive Šestov. “L’opera di Dostoevskij è inesauribile. Pochi hanno, come lui, saputo aprire senza riserve la loro anima ai supremi misteri dell’esistenza umana”. Ma questa inesauribilità è esaurita dalla critica letteraria, è esausta dai gazzettieri, questi supremi misteri sono sondati e risolti dal calcolo, scanditi dall’esperimento. “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il ‘capriccio’ incarnato che respinge garanzie”, è ciò che muta i confini tra vita e morte, che dà vita ai morti, che afferma che la morte può essere vita e la vita morte: chi ha voglia di sentirselo dire, di vivere sotto minaccia dell’inspiegabile, quando, invero, è tutto il resto la condanna?