Da ragazzini è difficile dare un nome ai propri desideri. Tanto più che, quando lo ero io, i giovani non avevano a disposizione gli stupendi strumenti di catalogazione di oggi, quali le tag fornite da YouPorn. Direi che eravamo ancora all’età della pietra del nostro sviluppo tecnologico. E anche le categorie mentali entro cui ci muovevamo non erano adeguate al progredire dei tempi. Ti piaceva questa o quella, senza ulteriori specificazioni. Poi c’erano le tardone che, da chi aveva un padre con un passato da mattacchione, erano definite anche navi scuola. Ma si trattava già allora di tipologie che avevano fatto il loro tempo e cominciavano a rivelarsi obsolete. In fondo risalivano al post seconda guerra mondiale. Di lì a pochi anni, se fossi stato ancora a scuola, avrei potuto definire le mie compagne di classe #skinny, #chubby, #bignaturals.
Se fossi stato adolescente adesso, inoltre, avrei compreso che i miei pensieri lascivi nei confronti della professoressa di italiano rimandavano al desiderio per le #milf, che è poi il nome giusto per rendere socialmente accettabile il proprio complesso di Edipo irrisolto. Se fossi stato pischello nell’epoca attuale, non avrei nemmeno dovuto lavorare più di tanto con l’immaginazione, figurandomi autonomamente gli accoppiamenti sui banchi di scuola. La vasta filmografia in circolazione mi avrebbe fornito uno scenario preconfezionato entro cui ambientare tali malsani desideri.
Comunque, mi ricordo bene della professoressa e dei filmini mentali che mi facevo, dimostrando un’attitudine da regista rimasta purtroppo circoscritta alle mie fantasie segrete. Queste iniziavano tutte allo stesso modo, con lei che, ancora vestita, spiegava un autore della letteratura italiana. Sicché, per comodità, le avevo catalogate ognuna con il nome di uno scrittore o poeta. C’era la fantasia Leopardi. Quella del Pascoli-fanciullino non ve la racconto per pudore. In un’altra, denominata appunto Ludovico Ariosto, la professoressa era in ginocchio al mio cospetto, con un sorriso compiaciuto da gran puttanone, e, dopo avermi tirato fuori lo strumento di caccia, subito lo ribattezzava Orlando il Furioso. Io allora non lo sapevo ma il mio inconscio era già decisamente postmoderno, data la mescolanza di cultura alta e bassa, anzi bassissima.
Una volta la professoressa mi interrogò, facendomi portare alla cattedra il famigerato Baldi-Giusso. Voleva chiedermi di leggere e commentare L’Ultimo canto di Saffo. Con un certo imbarazzo constatò che le due pagine del testo erano incollate. Entrambi facemmo finta di niente. La verità è che la bella lirica di Leopardi, dedicata alla cara poetessa dell’isola di Lesbo, mi aveva – neanche a dirlo – fatto venire in mente una storiella saffica tra la prof di italiano e la sua collega di ginnastica, che si risolveva in una mia colossale eiaculazione sul loro viso. Ciò, non prima di aver esclamato con la protagonista della poesia: “Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso/ Macchiommi anzi il natale”. Le pagine del manuale avevano raccolto il frutto delle mie elucubrazioni.
Nei miei sogni, la professoressa era sempre una donna che esercitava la sua autorità ai danni di un alunno imperdonabilmente negligente. Le sue sofisticate elargizioni sessuali nei miei confronti si configuravano come punizioni e io mi rivolgevo alla sua persona, anche mentre mi succhiava, dandole del lei. Capisco che gli psichiatri vorrebbero far fortuna sulle tasche di quella che definirebbero una povera vittima che ha introiettato la logica gerarchica di questo mondo. Per fortuna sono abbastanza vissuto e poco propenso a regalare soldi per curarmi da quelle poche manie che danno un po’ di pepe alla mia esistenza. Del resto, non si è mai visto che il sesso sia un rapporto paritario. L’erotismo è, per forza di cose, un’interazione tra dominati e dominatori, il resto è ginnastica e inutile spreco di energia.
Mi domando se il gentil membro del corpo docente immaginasse anche solo lontanamente tutti questi miei sconci percorsi mentali. Sempre lì al primo banco, secchione, con un modello di trasmissione della cultura di stampo greco, in cui il maestro insegna a trecentosessanta gradi all’allievo che quindi si figura la professoressa quattro volte a novanta gradi.
L’ho vista di recente, la povera donna. Era spaventosamente ingrigita. Quel bel culo paffuto era divenuto oramai una portaerei di cellulite. Era pure prossima alla pensione. “Tu, invece, sei più bello di allora, adesso che sei diventato un uomo”, mi ha detto sorridendomi con una dolcezza da vecchia nonna ormai votata unicamente alle torte di mele fatte in casa. L’ho guardata con tristezza, scoprendo che la mia perversione ha un limite: non mi piacciono le donne della categoria #granny.
Matteo Fais