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Politica culturale

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Cultura generale
Angelo Crespi
La morte dell’anarchico Auguste Vaillant causò una serie di terribili concatenati effetti. Fu una sorta di tsunami. Abbandonato dai genitori, emigrato senza buona sorte in Argentina, Vaillant entrò nei circoli dell’anarchismo estremo. Aveva lo sguardo fermo, penetrante. Tornato in Francia, il 9 dicembre del 1893, Vaillant compie un attentato dinamitardo alla Camera dei deputati. L’attentato, dimostrativo, sortì chiasso, danni ma nessun morto; Vaillant avrebbe compiuto 32 anni il 27 di quello stesso mese. Processato, fu trattato con estrema durezza: il 5 febbraio del 1894, condannato a morte, Vaillant va alla ghigliottina.
Gli effetti prodotti dalla morte di Vaillant inaspriscono la lotta tra gli anarchici e lo Stato francese. Il 24 giugno del 1894 l’anarchico italiano Sante Caserio uccide, a Lione, il Presidente della Repubblica francese Marie François Sadi Carnot, reo di non aver concesso la grazia a Vaillant. Qualche mese prima, il 12 febbraio, con l’intento di vendicare Vaillant, l’anarchico francese Émile Henry aveva fatto scoppiare una bomba al Cafè Terminus, presso la Gare St. Lazare, provocando un morto e una ventina di feriti. Entrambi, Henry e Caserio sono condannati a morte e ghigliottinati. Tutti i condannati denunciano, a processo, con fermezza, la “guerra da noi dichiarata alla borghesia”.
L’attentato di Vaillant aveva giustificato l’approvazione, da parte del Parlamento francese, delle cosiddette “leggi scellerate”, tese al controllo della stampa, alla soppressione della propaganda, alla punizione per reato d’opinione.
In questo contesto di guerra aperta esce, per la Librairie de L’Art Indépendant di Parigi, nel 1894, un opuscolo, Lettre d’André de Séipse solitaire sur Les Anarchistes, che sorprende per le posizioni espresse dall’autore. Si tratta di un testo che mette sotto scacco la società tutta, la lotta sociale, l’ingiustizia perpetrata dai potenti e l’ingiustificata violenza imbracciata dagli oppressi. Alle leggi ingiuste degli uomini, l’autore oppone la sola legge dell’uomo, quella del cuore. All’anarchismo politico sostituisce quello esistenziale: tutti sono anarchici perché non pensano ad altro che a se stessi; gli uni, i pochi, i potenti, usando la menzogna per proteggere il proprio status e lo Stato per armarsi, gli altri, i deboli, preferendo la violenza per conquistare ciò che gli altri possiedono. Tutti, infine, sono accecati da una lotta furibonda, fratricida, senza uscita.
L’opuscolo ha carisma profetico, appartiene alla risma degli ideali ingenui: l’autore sa che non sarà preso sul serio, perché ci sono cose sempre più importanti del bene, della vita autentica. L’uomo si ammazza ammantato da ideologie errate, che lo assolvono. Dietro la maschera dell’autore, si cela un giovane André Suarès, all’epoca ventiseienne, che anni dopo sarebbe diventato, insieme a Gide, Valéry e Claudel, uno dei pilastri de “La Nouvelle Revue Française”. Scrisse moltissimo, Suarès: Le Voyage du condottière, resoconto di un suo viaggio a piedi in Italia, gli diede fama; poeta per istinto, si occupò di Dostoevskij e di Goethe, di Cervantes e di Villon. Si sentiva un tolstoiano, un Don Chisciotte, leggeva Pascal, credeva che la letteratura fosse la chiave per una rivoluzione dello spirito: sembrava un po’ un brigante, un po’ un monaco vagabondo. Le éditions Fata Morgana hanno pubblicato Lettre sur les anarchistes inaugurando una nuova attenzione editoriale verso l’opera di Suarès.
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Lettera sugli anarchici
La notizia del processo e della condanna inflitta ad Auguste Vaillant, dimostrano che il mondo punisce se stesso credendo di punire il crimine. Non castiga, castigando, altri che se stesso, pensandosi impunito. Ciò fa di un uomo da nulla, da domani, un uomo del mondo intero: il mondo, d’altronde, non vale molto più di lui. Quelli che lo puniscono con la morte possiedono una forza che fa pietà: uccidono ciò che cova in se stessi. E quelli che difendono il criminale, segreti complici del suo delitto, lo fanno con ragioni che renderebbero giusta la macabra sentenza, se mai fosse possibile trarre una qualche giustizia dall’iniquità che si crede onesta.
In questa giustizia, puoi comprendere come i cattivi e quelli che passano per essere i buoni in realtà coincidono, concordano in tutto, e in tutto e per tutto sono entrambi malvagi. Chi fa la legge e chi la infrange è guidato dallo stesso spirito di vanità, la loro anima è viziata, uno stesso virus la intossica, avvelenando il sangue. Chi giudica è sdegnato perché è sotto giudizio dei giudicati; allo stesso modo è degno di sdegno essere giudicati da tali giudici. Alcuni delitti sono terribili più per la punizione che provocano che per il male che hanno inflitto: sono quelli in cui il criminale non dubita del suo diritto a perpetuare il male, in cui il giudice non crede di dover dubitare della punizione che ha inflitto.
Il bene viene distrutto dal bene se un assassino paga con la decapitazione un delitto che crede di non aver commesso. La vera giustizia è estirpare l’errore alla radice più che decollare un uomo. Se pensa di essere nel giusto, lo è – o deve confessare di non esserlo.
Chi può davvero punire la vanità di un assassino che si crede nel giusto? Non certo una giustizia altrettanto vana, che prende a prestito le formule del bene per fraintenderle. Può farlo solo chi si stacca da se stesso, dall’amor proprio che produce menzogne. Può farlo solo chi ama il bene più di se stesso, e sceglie di servirlo, soprattutto contro se stesso. Non esiste altezza dove l’uomo non è uomo. Forse, fuggiamo dall’umanità perché ci disgusta l’assenza dell’uomo. La mente può alienare gli uomini, ma il cuore deve dedicarsi ad essi. Non odiamo il male così tanto da non amare il bene. La severità è la formidabile astuzia di chi ha paura che un potere ancora più severo potrà sorgere. Si purifichino i cuori prima di affidarsi alla morte per lavare le impurità: la morte marcisce e dissolve, non ristora. Si purifichino quelli che vogliono il sangue di chi hanno giudicato impuri come quelli che reclamano il sangue perché si credono puri.
La lotta eterna è tra chi possiede i beni del mondo e chi ne è privo. Questi partiti, tuttavia, sono accomunati dal fatto di lottare contro i beni del cielo. Ridono di questi beni, li trovano troppo lontani, ignorando che sono gli unici accessibili agli uomini, perché il cielo non è il palazzo degli dei ma la dimora degli uomini, la terra appropriata all’uomo. Questi grandi odiatori, che si odiano tra loro, in realtà odiano se stessi, e sono i nemici dell’uomo. I potenti pieni di astio. I miserabili pieni di invidia.
Potenti e miserabili, ricchi e poveri, ciascuno non ama che se stesso. Sono tutti del partito dell’odio. L’eccesso degli uni non è più giustificato dell’eccesso degli altri. Quelli credono in ciò che hanno, gli altri in ciò che vorrebbero, in ciò che vogliono prendere. Sono tutti senza giustificazione, senza legge, ognuno vuole tutto per sé. O meglio: da entrambe le parti l’unica legge è la forza. I potenti invocano le loro leggi, i miserabili hanno i numeri, legge che impone la propria legge. Il numero, è vero, ha un potere che sfiora l’infinito, che lo rende più potente dei potenti. Il numero ha sempre rovinato chi crede di poterne fare a meno. Questa forza crudele, che sa anche volgersi contro il bene, nasce dalla bassezza dell’uomo, il quale, posto tra il bene e la forza che lo preme, sceglie la forza, si schiera dalla parte della violenza. La violenza è l’arma di chi non ha armi. E la menzogna è l’arma di chi le possiede tutte.
Eccole, le spade oscure che potenti e miserabili impugnano in duello. I loro lampi neri, i loro tenebrosi lumi. Il giusto non appartiene agli uni né agli altri. Grida: ma non lo ascoltano. Dove non c’è il giusto, cala la notte: e questi cani non vogliono altro che mordersi, affondare i denti nella loro stessa carne. Non ci nutriamo solo di parole; non di solo pane viviamo. Non viviamo di grida, non viviamo di oro. Si vive soltanto della vita – cioè: si vive soltanto di bene.
Eccovi dunque tutti, tutti nel partito dell’Anarchia, che è l’armata eterna, l’eterna guerra del bruto che la maggior parte ha dentro di sé, contro il potere divino del cuore, sorto dalla sofferenza di tutti gli uomini. Eccoli, tutti, quelli che opprimono e quelli che vogliono opprimere, e tutti che parlano di diritti, come una talpa crede che le stelle siano una sua proprietà! Eccoli: quelli che basano ogni cosa sulla violenza e quelli che si assicurano alla menzogna. Eccoli, tutti, sordi, ubriachi: e c’è chi vive guadagnando della lotta tra le parti. Eccolo, il partito dell’odio contro l’Ideale, il partito dell’amor proprio.
Chi allora vincerà sulla violenza? Chi se non l’efficacia del cuore? Tutta la salvezza del mondo, oggi e sempre, è nel cuore. La forza non può piegare un cuore. La legge del cuore sarà sempre quella dell’uomo. Quella di un dio che si è fatto uomo. Il Paraclito è il tempo della promessa della pace e dell’amore. Ciò che il cuore ha perduto, soltanto il cuore potrà riconquistarlo. Ricostruiremo i fiumi della gioia con le inondazioni delle nostre lacrime.
Sarà dunque il mondo dei potenti, il secolo, a stabilire una legge di vendetta che neppure il male ha osato proclamare? Ma questo potere, che si chiama società, è nulla se non è il diritto di ogni uomo, anche di chi la rifiuta, e deve indietreggiare di fronte alla vendetta. Tale iniquità viene ai forti soltanto quando tutto è perduto, quando il dado è tratto sull’abisso umano. Al contrario, spetta ai forti l’arma più potente e certa: il perdono. Perdonare più che un dovere è il più sublime dei doni. Ma chi può perdonare non vuole farlo: desidera dunque essere egli stesso imperdonabile? Che abominio è questo? È del cuore dei potenti andare al cuore dei deboli. Non ricordano che i deboli si ribellano? Ma non è con i fucili o con le asce che li fermeranno: si trafigge soltanto toccando il fondo impenetrabile del cuore, che né acciaio o proiettili scalfiscono. Il forte deve essere buono perché lo sia anche il debole. Chi non si emenda si concede ai colpi di chi non si è emendato. Dobbiamo riformare noi stessi perché si riformino gli altri. Occorre soprattutto sradicare il temibile impero della moralità corrotta, che ammira il male e ha il coraggio del delitto. Occorre che la morale acquisti un po’ di purezza perché i moralisti perdano la falsa verità, l’avida vanità viziata dalla ragione. I potenti fanno affidamento sulle leggi, sui giudici, sulle armi, sui soldati, sull’oro? Come si sbagliano… tutta questa forza non è che iniquità. Sono loro che allevano il male al posto di spiantarlo, che lo arano invece di abbandonarlo. Un giorno, le forze a cui si affidano i potenti si solleveranno contro di loro: e i potenti moriranno avvelenati con il loro stesso veleno, trafitti con le loro spade.
La lotta della forza del cuore è senza fine. Tutto ne è pieno. Tutto ne urla. La forza non è la cosa più forte perché più forte è il cuore. Più il cuore è schiacciato, più la forza degrada. Il trionfo del mondo porta con sé una eredità di dolore, una tristezza inesorabile. La città in cui l’uomo prende su di sé la miseria del prossimo, nutrendolo con il suo sangue, vivrà, è certo. Non ha paura. È in pace con se stessa. Se i barbari la attaccano, tutto ciò che è grande al mondo corre a soccorrerla. Se il mondo la tradisce, resterà fedele. Se il mondo la uccide, sarà il mondo a morire.
André Suarès