17 Novembre 2022

“Senza posa o ristoro”. Leopardi, il pensatore inesorabile

Il poeta è sempre fuori tempo, in un altro tempo, al di là: la sua preveggenza, tuttavia, si volge alle spalle, all’antico. È come se profetasse il futuro millennio camminando all’indietro, con lo sguardo che perfora i ruderi. Così, Giuseppe Ungaretti si rivolge a Petrarca e a Virgilio come Eugenio Montale guarda a Dante e a Ovidio; entrambi sono il parto di Leopardi. “L’antico non teneva la felicità e l’infelicità come cose immaginarie e chimeriche, ma solide e solidamente opposte fra loro. Le illusioni per lui erano realtà”, scrive Ungaretti in un testo occasionale sul “pensiero di Leopardi”. Che Leopardi “era nato per essere proprio un antico, un uomo della Grecia eroica o della libera Roma” è il cuore della riflessione di Sainte-Beuve nel Portrait pubblicato nel 1844 sulla “Revue des Deux Mondes”. Non fu quello il primo scritto in assoluto dedicato a Leopardi in Francia, “fu tuttavia senza alcun dubbio il più autorevole e il più importante” (M. A. Rigoni): qualche anno dopo – con altro stile e posa e postura – Charles Baudelaire ‘scoprirà’ Edgar Allan Poe, scrivendone, esagerato, proprio a Sainte-Beuve: “Occorre cioè desidero che Edgar Allan Poe, che non è gran cosa in America, diventi un grande uomo per la Francia”.

L’intuizione di Sainte-Beuve – Leopardi è l’ultimo degli antichi – si concentra sul Bruto minore, “poiché è qui la chiave di tutta la filosofia negativa di Leopardi, il sigillo personale e originale della sua sensibilità poetica”. Bruto, il cesaricida, sconfitto a Filippi dalle truppe di Antonio e Ottaviano, rappresenta il crollo della romanità, dell’“italica virtute”, dell’uomo tutto. Leopardi ci sovrasta con violenza: sperare nel futuro è pia idiozia (“In peggio/ Precipitano i tempi; e mal s’affida/ A putridi nepoti/ L’onor di egregi menti”; il pensiero ritorna, virato, nel Parini ovvero della gloria: “ho per veridico il proverbio, che il mondo invecchia peggiorando”), il fatto fondamentale è il suicidio. In questo territorio scosceso Sainte-Beuve non può avanzare, sarebbe come gettarsi da una finestra che dà sul vuoto, e affidarsi ai venti delle contraddizioni evidenti. “Intorno al suicidio” Leopardi ragiona, nello Zibaldone, pochi mesi dopo aver scritto il Bruto minore, il 23 giugno 1822:

“È cosa assurda che secondo i filosofi e secondo i teologi si possa e si debba viver contro natura (anzi non sia lecito viver secondo natura) e non si possa morir contro natura. E che sia lecito d’essere infelice contro natura (che non avea fatto l’uomo infelice), e non sia lecito di liberarsi della infelicità in un modo contro natura, essendo questo l’unico possibile, dopo che noi siamo ridotti così lontani da essa natura, e così irreparabilmente”.

Con implacabile leggerezza Leopardi si muove nel regno dei contrasti: il suicidio sarà il tema formidabile di Lev Tolstoj, nella sua catartica Confessione (“Da quando seppi che la vita è insensata e terribile… ero come un uomo che si è sperduto in una foresta… e per liberarmi da questo terrore io volevo uccidermi”) e di Albert Camus nel Mito di Sisifo (“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio”). Al porre fine alla vita, infine, Leopardi sostituisce il fine:

“Bisogna proporre un fine alla propria vita per esser felice. O gloria letteraria, o fortune, o dignità, una carriera in somma”.

(31 maggio 1829)

Tutte cose in cui Leopardi, fedele alla trinità del niente – “non saper nulla… non esser nulla… non aver nulla a sperare dopo la morte” –, non crede. Eppure, una allucinata curiosità, la quiete insana di chi del mondo conosce la cifra, la fattura e l’esito, l’hanno tenuto vivo.

Leopardi reagisce all’incanto delle convenzioni, alle fedi di latta, d’uso comune, scava fino all’indecente, perché non altro è la poesia, il pensare. Nell’opera ‘panottica’ di Leopardi tutto è contravvenzione, inadempienza alla grammatica morale del tempo presente, rottura. Tutto è scavo sui margini scabrosi della morte, del morire, dacché “gli scrittori grandi, incapaci, per natura o per abito, di molti piaceri umani… non di rado negletti nel consorzio degli uomini… hanno per destino di condurre una vita simile alla morte” (Il Parini). Eppure, “Viviamo Porfirio mio”, sussurra il Plotino delle Operette morali, ribaltando a favore dell’esistere il dilemma sul suicidio:

“la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla”.

L’aforisma, di granitica nobiltà, estremo frutto dell’antichità ricostruita da Leopardi – il poeta ricuce le rovine e le illumina, radicando torce: non è il cadaverico ispettore degli scheletri, l’idolatra delle pietre – va letta insieme al “preambolo” alla traduzione di Epitteto, in cui Leopardi riassume il crisma della felicità:

“a ottenere quella miglior condizione di vita e quella sola felicità che si può ritrovare al mondo, non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per così dir, la felicità, ed astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario”.

Ma torniamo all’intuizione fondamentale di Sainte-Beuve. “Egli considera Bruto come l’ultimo degli antichi”, scrive di Leopardi, “mentre è proprio lui ad esserlo. Egli è triste come un antico nato troppo tardi”. In questo caso, però, l’antichità, anelata nella frana della tristezza, di una nostalgia presunta, sarebbe un rifugio ultimo, l’ennesima illusione australe, una bugia, insomma. Leopardi – che sfugge ai cataloghi, non si lascia stipare nei piani semplici, artati, delle storie della letteratura, straripa – non fa culto degli antichi, sacerdotale, iniquo: ne accoglie la sfida. Non si fa incantare dai ‘classici’, li affronta. “Quasi anche mi maraviglio che la fama di Virgilio sia potuta prevalere a quella di Lucano”, scrive ancora nel Parini – dunque, dietro il paravento della finzione – per il desiderio non tanto di riscrivere un ‘canone’ ma di disintegrare ogni canonizzazione, vincere il polpo obliquo, ubiquo della storia della letteratura, fasulla, per vincere la norma – che vige ancora – secondo la quale le “bellezze grasse e patenti” sono preferite a quelle “delicate e riposte”, e l’“apparente” e il “mediocre” primeggiano sul “sostanziale” e sull’“ottimo”. Così, “non si stimino esagerazioni le lodi ch’io fo dello stato antico”, ricorda Leopardi in una nota dello Zibaldone del 27 maggio 1821.

Ciò che gli preme, piuttosto, è scardinare ogni idolo del “progresso”, “della indefinita perfettibilità dell’uomo”. Raffinando l’istituto sociale, cioè allontanandosi dalla natura, l’uomo non progredisce, deperisce nel tedio, in una torpida infelicità.

“Dimostro infine con prove teoriche, e con prove storiche e di fatto che l’antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo e da me perfetto, era meno infelice del moderno”.

Preveggenza che si volge all’antico, appunto: “La società è corruzione… Quindi la civiltà è un ravvicinamento alla natura” (25-30 ottobre 1823). Perfino lo ‘stile’ di Leopardi – che pure è limpido, procede per sentenze e lampi, sfilettando l’ovvio – ha una fisionomia biologica, un physique, necessario a fronteggiare il pensiero del nulla (“tutto il reale essendo un nulla…”) e del male (“Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male…”), una baldanza nel massacro.

“Leopardi, sotto più aspetti, sembrava dalla natura originariamente destinato alla forza, all’azione, alla bellezza virile: il fuoco del suo sguardo, il suo accento vibrante, il tono penetrante della sua parola, una sorta di involontario fascino che esercitava spontaneamente su tutti coloro che lo avvicinavano, e di cui la natura ha fatto una delle prerogative del genio, tutto pareva esortarlo all’espansione della vita, alle gioie degli affetti corrisposti”.

Così scrive Sainte-Beuve segnalando una analogia tra il corpo e il corpus, tra la carne e l’indole lirica. Poiché ha il fuoco, Leopardi può scorgere la cenere alla foce dell’incendio; dionisiaco, ebbro, carnale fino all’estinzione, assume il precipizio, setacciandone il ghigno. “Tutto è vano al mondo fuorché il dolore… il dolore è meglio che la noia; la nostra vita non è buona ad altro che a disprezzarla essa medesima… tutto è mistero nell’Universo fuorché la nostra infelicità”: così il poeta nel Preambolo alla ristampa delle “Annotazioni” alle dieci canzoni, 1825.

Preveggenza di spalle, con lo sguardo nell’antico. Rimbaud rompe le forme d’uso, abusate, guarda dietro – “In Grecia… versi e lire ritmano l’Azione. Dopo musica e rime sono giochi, sollazzi”, scrive a Paul Demeny – per volgersi dentro (“Che [il poeta] crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili”). Friedrich Hölderlin esce fuori di sé, fino alla reclusione, costruendosi una tradizione che passa per Pindaro, Empedocle, Sofocle. L’antico va svaginato, svuotato, ricomposto. Fremiti del caso: la didascalia che Sainte-Beuve affibbia a Leopardi – “nato per essere proprio un antico, un uomo della Grecia eroica o della libera Roma” – è analoga a quella che Angelo Maria Ripellino elabora per Osip Mandel’stam – “ci appare come un poeta greco o latino che scriva in russo” –, poeta notoriamente affascinato da Dante e da Petrarca.

Anche Sergio Solmi riconobbe a Sainte-Beuve la forza dell’attenzione, una sorta di rapacità critica, in condivisione con De Sinner: “La fama del Leopardi esorbitò presto i confini italiani, lui vivente, a ragione dei suoi studi filologici e della sua vasta erudizione… ma dopo la sua morte, anche per merito del fedele De Sinner, i suoi Canti furono fatti conoscere alla Francia e a tutta l’Europa…. in Francia il Sainte-Beuve lo celebrava in uno dei Portraits e il romanticismo europeo riconosceva nel ‘cantore della doglia mondiale’ uno dei suoi rappresentanti più alti”. Diversamente, Sainte-Beuve fa dei portraits un esercizio di stile, l’arte del cammeo, biografismo bizantino; nei riguardi di Leopardi – forse perché di una vita vergine, per lo più, si tratta – la tensione è diversa, ha il ritmo di una “vita immaginaria”, di una primizia offerta. Riguardo al “gusto filologico che aveva sviluppato e raffinato attraverso la lettura degli autori Antichi” che “trasferì anche nello studio e nell’uso della propria lingua”, Sainte-Beuve, per dire, apre la via a una riflessione ripresa da Cristina Campo ne Gli imperdonabili:

“In Italia, l’ultimo critico fu, mi sembra, Leopardi… fu l’ultimo a esaminare una pagina come si deve, al modo cioè di un paleografo, su cinque o sei piani insieme: dal sentimento dei destini all’opportunità di evitare il concorso delle vocali. La esaminò, vale a dire, da scrittore. A Leopardi il testo fu presenza assoluta”.

Il tentativo di traduzione del libro di Giobbe, sintetizzato nei primi versetti della storia sacra, funge, quasi, da crogiolo, da mattatoio di ogni dissidio, il luogo in cui opera e vita, testo e pretesto, scritto e gesto, convergono (“il Job… del pensiero italiano” è la formula con cui Carducci risolve Leopardi, l’irrisolvibile). L’uomo “che ’l mal fuggia che Dio temea”, diventa, per fattura di un dio indifferente, per destino di caos o delirio dell’insignificanza, creatura che “corre via, corre, anela…/ Cade, risorge, e più e più s’affretta,/ Senza posa o ristoro”. Diverse, in effetti, per coltivare il gioco di Sainte-Beuve, sono le affinità tra il Bruto minore e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: la stessa “candida luna” assiste il tormento dell’uomo impaniato nella Storia, Bruto, e quello che dalla Storia si estrae cantando l’indecenza funesta del “dì natale”. Il tabù del suicidio è sostituito, nel sonnambolico pensare del pastore dedito all’erranza, dalla domanda bianca, che saetta come il bagliore del pugnale, “ed io che sono?”. Lì la poesia finisce, la poesia rinasce; su quella voragine Sainte-Beuve ha per lo meno gettato uno sguardo, prima di tornare, sorridente, lietamente sarcastico, tra i civili. 

*Si pubblica per gentile concessione la postfazione alla nuova edizione del “Ritratto di Leopardi” di Sainte-Beuve, edita da De Piante (2022). Il testo è curato da Luca Orlandini ed è impreziosito da una prefazione di Mario Andrea Rigoni

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