Nella camera di Giacomo Leopardi non dorme più nessuno. Chissà cosa succede, qui, la notte, quando anche l’ultimo dei custodi con la polo blu e la scritta in bianco “Casa Leopardi” avrà chiuso le porte a chiave, attivato l’allarme. Chi guarderà, da questa finestra, le “vaghe stelle dell’Orsa”? Chi spierà il chiarore dell’amata luna, tra le “quiete stanze”?
Il letto rifatto del poeta ha un drappo verdeazzurro ben disteso, senza una piega. Nessuno dorme più qui, ormai da secoli. Non si possono scattare fotografie, quindi cerco, nei pochi minuti che mi regalano in questa stanza, di cacciarmi negli occhi ogni minimo particolare. Il letto – un letto a una piazza – sarà di foggia napoleonica? A me sembra una barca senza remi. Alla deriva. Il comodino, alla destra del letto, ha due cassettini, ma solo il secondo offre la chiave. Quali segreti riponeva nel cassetto Leopardi? Cosa ci nasconde un poeta nel comodino? Sarà sempre stato così in ordine? A sinistra del letto, un cassettone intarsiato con quattro piccoli busti, in miniatura. Sembrano volti di filosofi.
Da un anno a questa parte (precisamente: da giugno 2020), i discendenti del poeta di Recanati (figli di Pierfrancesco Leopardi, 1813-1851, l’unico che si è sposato e ha avuto figli) hanno deciso di aprire al pubblico, per la prima volta, l’appartamento che il poeta divideva con il fratello Carlo, situato tra il giardino di levante e quello di ponente. Dal giardino di ponente, detto il pomario – dove i fratelli Leopardi si dedicavano alle battaglie epiche ispirate ai classici –, un tempo era possibile accedere all’orto delle monache di Santo Stefano, il luogo che ispirò i versi immortali de L’infinito. La stanza di Giacomo è l’ultima nell’ala chiamata Le brecce, che è costituita da tre camere dal pavimento realizzato con la tecnica dell’imbrecciata alla veneziana. L’ala si apre con un salottino dove i fratelli Leopardi giocavano a scacchi, poi si entra nella stanza di Carlo e infine in quella di Giacomo.
La disposizione delle camere da letto, in ogni casa, è un capitolo fondamentale. Al centro della stanza di Leopardi, il suo tavolinetto da camera con gli oggetti per le pratiche di scrittura. In terra, la cassettina con lo scrittoio da viaggio. Riposare qui, a prima vista, potrebbe sembrare un idillio. Ma basta leggere una delle biografie dedicate al poeta per ricordarsi che non era sempre stato così. Anzi. Ma l’imponente Palazzo Leopardi era il luogo da cui fuggire? Rileggo, a caccia di risposte, la luminosa opera di Renato Minore (Leopardi. L’infanzia, le città, gli amori, Bompiani), la tengo nella borsetta. Presto ci si rende conto che, in fatto di reliquie e di letti lasciati intatti, la famiglia Leopardi aveva una certa dimestichezza. “A casa Leopardi si conservò per molti anni intatta, come una reliquia, la stanza in cui, il 24 novembre del 1799, era spirato l’‘esemplarissimo’ sacerdote Luigi Bernardino, zio di Monaldo. Accanto al letto una campanella legata a una corda che pendeva sulla strada così che i fedeli potessero chiamare il proprio pastore in qualsiasi ora del giorno e della notte”.
Un ideale religioso, soprattutto materno, esasperato, in grado di sgretolare ogni più innocente spensieratezza, infrangere ogni tenerezza. “Tra quell’impressionante sequela di stanze e di stanzette introdotte da un semplice scalone piuttosto tetro, ornato di balaustre e di busti, visse bambino le gioie del giorno e i terrori della notte. Fu profondamente colpito e devastato da emozioni cui non sapeva dare né nome né un volto. E se avevano un volto, era quello scuro e terrificante dei frati delle Missioni. Tutti neri e incappucciati sfilavano, in silenzio, nel buio delle strette viuzze di Recanati, illuminate da fasci di luce che le torce gettavano sulle facciate delle case proiettando ombre sinistre. Gravide di minaccia”. Aveva solo quattro anni quando il Leopardi bambino vide quei terrificanti frati delle Missioni. “Giacomo sentì l’incubo che gli cresceva dentro. Un’angoscia oscura e senza riscatto. Percepì, istintivamente, l’aspetto quaresimale e mortifero dei riti religiosi che sceneggiavano il dolore, lo rappresentavano in stazioni di autentico terrore. Quella sera pianse dirottamente e il ricordo gli bruciò per molte settimane. Si girava e rigirava nel letto, non riusciva a dormire”.
Ecco perché – e per assecondare il padre Mondaldo – il suo gioco preferito era diventato quello dell’altarino, del “dire messa per divertimento, insieme a Carlo e Paolina”. Sembra che alla prima confessione spirituale del giovane Leopardi fosse presente la madre, Adelaide Antici. La marchesa era cugina di Monaldo Leopardi che l’aveva impalmata con il parere avverso di tutto il parentado. Un matrimonio deciso in tutta fretta – in sei giorni – dal 15 giugno 1797 al 21 dello stesso mese quando le aveva chiesto la mano. Ma Adelaide era già promessa a un tale conte di Cagli e così a Monaldo era stata offerta la sorella, più grande di qualche anno, Amalia. Ma la verità è che Amalia era già stata proposta al conte di Cagli che aveva virato verso la sorella minore. Insomma, un bel grattacapo. Persino la madre Virginia si era inginocchiata davanti al figlio Monaldo perché rinunciasse ad Adelaide. Ma tant’è. Alla fine della fiera, le nozze furono celebrate. E la suocera si insediò a Palazzo Leopardi. La nonna Virginia diventò anche la madrina del giovane Leopardi.
Lo sguardo austero della madre Adelaide Antici era onnipresente nella casa: “Lo sguardo di nostra madre ci accompagnava sempre: era l’unica sua carezza”, ricorda Teresa Teja. Passeggiando per le vie di Recanati, sventolano i versi di Leopardi come lettere infilate in una busta, dentro la corolla di enormi papaveri rossi. Ci sono versi da tutte le parti, qui a Recanati, dalla piazza del Sabato del Villaggio, camminando verso il colle dell’Infinito. Su lapide disposte lungo le strade. Lungo le viuzze hanno legato – tra i palazzi – fili e reti di farfalle bianche che gettano le loro ombre svolazzanti sulle case.
Mi fermo vicino a un negozietto di souvenir, tutto qui parla del poeta e delle sue poesie più celebri, sono a pochi metri dietro Casa Leopardi. Alle mie spalle, un uomo vestito come Leopardi, con un cappello a cilindro in testa, vaga recitando le poesie seguito da vicino da uno sciame di turisti, ai quali mi mescolo io per un momento. È buffo, ma dopotutto: che cos’è un poeta? C’è un palazzo interessante ma piuttosto abbandonato con le persiane a pezzi, chiuse da un bel po’. Leggo che la sua costruzione risale al XVI secolo. Le finestre hanno cornici modanate e il portale d’ingresso ha l’iscrizione Raphael Antiquus. Che sia parente di Adelaide? Mi avvicino e scopro che proprio dentro quel palazzo, in una cappellina privata si erano celebrate le contrastate nozze fra i giovanissimi Adelaide Antici e Monaldo Leopardi. Nella cornice delle finestre, si leggono le scritte in latino: Date pauperibus, Istitia et pax e, quella che mi sembra adatta alla madre di Leopardi: Timete Deum. Erano le sue stanze? Che ne sarà di questo palazzo? Anche qui, come a casa Leopardi, sembra non dormire nessuno da molto tempo. Nessun guanciale su cui posare il capo. Ma il fantasma di Leopardi, si sa, vaga senza testa. È stata una profanazione. “Dicono che quando, nel 1898, fu aperta la sua tomba a San Vitale, con grande sorpresa si constatò che mancava del tutto il cranio”.