05 Maggio 2023

“Ridammi il muro di Berlino, Stalin e San Paolo”. Viaggio nella poetica di Leonard Cohen e Bruce Springsteen

Siamo certi che la poesia non sia solo quella che verga un foglio, ma anche contestuale a molti altri generi di espressione che non solo la nuda parola scritta. Quando, per portare un esempio, essa è in sodalizio con la musica, rimanda alla sua forma più atavica e viscerale, e la musica è tale da renderla ancora più vivida e capace di suscitare emozioni profonde, preconsce, affettive. La poesia in sé è all’origine sia del pensiero filosofico, come ben sottolineava Heidegger, come della cultura in senso lato. Le parole stesse, in versi, possono essere musica: basterebbe a suffragio di ciò leggere il saggio sulla poesia di un intramontabile Edgar Allan Poe (più conosciuto come autore di racconti che non come poeta, ma non per questo meno grande anche in quel cimento) nella quale il suono e l’elemento estetico sono più rilevanti dei contenuti stessi.

La musica incarna l’aspetto dionisiaco, l’ebbrezza, la dismisura, un lato oscuro e pulsante che può accogliere in sé luce e farla vivere per contrasto, come in un quadro del Caravaggio, o ripetere la tenebra quale controparte del canone e della forma, della radiosità e della chiarezza tipiche dell’orizzonte apollineo. Linguaggio atavico e tribale, essa possiede la potenza evocativa e la capacità di coinvolgimento di qualcosa di universale, collettivo, e essenziale anche per le altre arti. I romantici ritenevano fosse la forma più sublime e alata di espressione artistica… E questo è davvero curioso, perché essa è anche qualcosa di molto materiale: particelle che cozzano l’una contro l’altra in una catena tale da arrivare all’udito, è così che il suono si propaga, proprio attraverso la materia stessa. Tutto ciò per introdurvi a questo scritto che costituisce un unicum nella mia partecipazione a questa rivista ed è dedicato a due autori che hanno fatto della musica poesia e della poesia musica: parlo di Leonard Cohen e Bruce Springsteen.

È il 1992 e in The Future incontriamo un Cohen pressoché nichilista, crudo e sanguigno, carico di disincanto. Un album, questo, che si colloca come uno spartiacque tra la prima e l’ultima parte di una vasta e seminale carriera. Parla di un futuro immediato di caos in cui niente sarà più misurabile e gestibile, in cui esploderanno violenza e distruzione all’insegna della caduta di un vecchio equilibrio consolidatosi nei decenni, ormai familiare – seppure non illuminato – e in qualche strano modo fonte di un grappolo di certezze che verrà invece stritolato dall’irrompere di un tempo assassino. Quando quell’equilibrio, seppure fragile, lascerà il passo al rinnovamento, qualcosa di ferale e terribile si concreterà: seriale nella sua programmazione distruttiva e tale da minare nel profondo le poche, residue tracce di umanità, obliterando vecchie scale assiologiche; e non per edificarne di nuove e più valide, ma per annientare tutto ciò che potesse essere di riferimento e dato per consolidato. Cohen scrive questo testo dopo la caduta del muro di Berlino, e proprio come un vate prevede una forma di disgrazia e delitto, sopruso e violazione con pessimismo su scala universale. Intervistato dice:

“Il concetto di vita privata che si è sviluppato in Occidente è la vera caratteristica della nostra civiltà e ha permesso per la prima volta lo sviluppo di una libertà di pensiero che mai come adesso sto sentendo minacciata da una cultura di massa molto potente che spinge verso l’uniformazione… Quando cadde il muro di Berlino, non so per quale motivo, ma la prima reazione istintiva che mi colse fu una sensazione di preoccupazione verso ciò che stava accadendo… La gente ha sempre detto che ho un’idea cupa di ciò che accade e so che è vero… Ma la spaccatura che è arrivata all’improvviso, non mi ha affatto tranquillizzato, perché ho ben chiaro che quando l’autorità centrale di un Paese, qualunque sia la sua politica, viene violentemente esautorata, è l’inizio di un massacro”.

Il testo di The Future è uno dei più incendiari immaginabili e ne riportiamo alcuni passaggi per testimoniarne ferocia e bellezza sulfurea:

“Dammi crack e sesso anale
prendi il solo albero rimasto
e ficcalo su per il buco
della tua cultura.
Ridammi il muro di Berlino
dammi Stalin e San Paolo.
Ho visto il futuro, fratello: è un macello…”

Facendo un passo indietro, potremmo dire che la poetica di Cohen prende le mosse da una musica essenziale e intimista, collocandosi nel solco del folk autoriale ma senza farsi vessillifera di idee politiche e battaglie presso diritti e istanze sociali. Il suo canto canta i recessi dell’animo umano, spettri e ossessioni, vigilie di luce e brani di salvezza insperata. È possibile riconoscere una certa ascendenza con il poeta, anche lui canadese, Irving Layton; ma il cammino artistico di Cohen non si arresta e cristallizza in forme espressive già note, la sua vena autoriale ha qualcosa di inedito e profondissimo, e segna una rottura contro la cultura dell’impegno facendosi carico di elementi squisitamente individuali: ora filosofici, ora religiosi (biblici), ora cogentemente legati alla sfera dei più interni e riposti motivi di un’anima in viaggio per le strade di un mondo che se pure sa accogliere e farsi sacrale e epifanico, sa anche rifiutare e osteggiare i più intimi desideri e il farsi sorgivo del canto di essa.

Ecco allora uomini che affrontano un destino duro e disseminato di segni e simboli corruschi, splendidamente elegiaci come in Joan of Arc (tradotta e cantata in modo brillante anche da De André, assieme a Suzanne, nell’album Canzoni) o febbrilmente drammatici come in Story of Isaac. Quest’ultima, di tono tetro e lugubre, sembra rovesciare lo stesso paradigma chiave degli esiti estremi di Kierkegaard, offrendo il punto di vista di Isacco.

Fin troppo facile, ma veritiero, ravvisare poi in Isacco ciascun figlio del sacrificio chiamato guerra; e nel volto di molti padri quello di altrettanti padri-padroni a cui ribellarsi: perché i figli sono sempre i veri rivoluzionari, quelli che spezzano la catena dell’obbedienza. 

Molti nodi della poetica di Cohen cantano un amore disuso ai sogni anche se intenso e dolentemente significativo, o personaggi che si trovano smarriti nei corridoi latebrosi di un’esistenza ferita e in disarmo, catafratta e impermeabile all’incanto dell’abbandono e della fiducia. Altri ancora che ramingano in modo zingaro, da bohémien, verso un cammino di dissipazione e alienazione, di palesamento dei limiti e delle vulnerabilità facenti parte di un umano che, pur avendo qualcosa di epico, trova raramente una dimensione di pace e completezza.

In Songs of Love and Hate (1971) il suo terzo album, che è a nostro modo di vedere uno dei più agri e potenti, se la natura umana è fragile e esposta, se si fa al mondo attraverso privazioni e stenti, incertezze e tormento, sembra essere comunque qualcosa di luminoso e lustrale: figlio, certo, di derive e perdita di senso, ma anche di pionieristici slanci, prometeiche scoperte… Votata, così spesso, a essere niente altro che una traccia effimera e suscettibile di senso di scacco, punteggiata di incontri e abbandoni che si reciprocano oltre un volere mai così minato dall’incertezza, ma pur sempre bacino di profonda umanità e tale da esprimere un valore sacrale che esorbita la logica del prendere e dell’avere, la mera sfera di un tetragono appagamento del lato edonistico. Questo non significa che non siano centrali nel discorso di Cohen i piaceri più materiali e carnali, che semmai nel cantarli sfiora la bellezza sacrale, l’Agape della carne fatta di umori, effluvi, percezioni sensoriali potentissime, che ravvisiamo nel Cantico dei Cantici. Ma v’è in lui qualcosa, appunto, di sacro e forse anche ierofantico, che non si esaurisce in una religiosità profonda e investe l’umana vicenda portando la eco del sogno e dell’incanto fin sulla soglia del limite estremo dell’esperibile, là dove può assottigliarsi la chiarezza di sguardo facendosi tutto crepuscolare, ma certo non viene meno la penetranza di un sentire che si annuncia come unico viatico da condurre fino ai vagiti di ogni nuovo giorno. Bagliori di luce accompagnano questi momenti.

Leonard Cohen non era solo cantautore, ma anche rifinito poeta e scrittore, e questo ha avuto un peso nella forma del suo fare canzoni, dove un linguaggio icastico e dalla cifra inconfondibile si fa musica per il suono delle parole stesse, cui la sua voce profonda (qualcuno l’ha definita “un rasoio arrugginito” e noi diremo che forse lo era sia nel suo manifestarsi concreto che metaforico) dà uno spessore e un’incisività che raramente hanno avuto nella storia della musica qualcosa di analogo, e per capacità evocativa e per compiutezza. In lui spicca il dissidio non dialettico tra un amore carnale e un amore spirituale, con tutto lo spettro dei colori di un’anima in cerca di stille di luce nella tenebra fitta di un’esistenza capace di insidiare almeno quanto di allettare con suasiva grazia.

Gli individui che popolano le sue canzoni sono dei bellissimi perdenti (come i protagonisti del suo secondo romanzo, Beautiful Losers) e seppure smarriti e feriti nell’agone di vite che ledono pienezza e felicità, realizzazione e pace interiore, sono tali da non perdere la propria libertà, una libertà non negoziabile con niente altro, che è balsamo anche e soprattutto di ogni vinto, e viatico essenziale per esistenze che non incarnino pedissequamente il barbaro binomio americano vincenti/perdenti, ma si facciano carico di un’attribuzione di senso che non è già dato come un frutto da spiccare al ramo della vita: esercizio indefesso, piuttosto, di tanta umanità che non misconosce se stessa nemmeno se in povertà, fiaccata e offesa. Storie di dolenti amicizie, come in Famous Blue Raincoat (scritta in forma di lettera), storie di amore e crudeltà, storie infine di respiro inedito nella narrazione di paradigmi di scelta fatalmente esuli e erratici, sensivi e spirituali anche quando materialmente compromessi, e non certo figli di scialbature appena di vita, ma calati nei gangli pulsanti di essa.

Leonard Cohen si spegne il 7 novembre del 2016 a 86 anni lasciando un vuoto pressoché incolmabile nella canzone americana d’autore, nella musica in generale, come nella letteratura e nella poesia.

Venendo a Bruce Springsteen, prenderemo prima a paradigma un suo album del 1982, uscito in era reaganiana, parliamo di Nebraska. Un lavoro che oggi potremmo definire lo-fi e in cui Springsteen si fa portavoce degli ultimi, dei diseredati, dei perdenti di un’America mai così dicotomica nel suo vitalismo barbaro che come per mezzo di un sistema valoriale, come già accennato, strettamente binario, dualistico, sembra dichiarare a chiare lettere che il darwinismo sociale è giusto e fa grande un Paese che mette l’iniziativa privata al primo posto sancendo un insieme di diritti naturali inferibili tramite ragione e ritenuti superiori o sovraordinati rispetto a quelli positivi: una sorta di principio che ricava il dover essere dall’essere e non viceversa; ma scorda politiche sociali serie, risulta guerrafondaio, corrivamente aggressivo e muscolare in politica estera, col sostegno obliquo di una morale troppo spesso ridotta all’osso. Un Paese in cui il mito dei self-made men di successo lascia in ombra e dimenticati coloro che non hanno mai avuto una vera chance non tanto per vincere, quanto per possedere uno statuto di esistenza dignitoso entro un quadro sociale così marcatamente iniquo e corollario palese di una logica protestante e puritana secondo cui chi è in ascesa lo è perché scelto da Dio, chi invece non lo è, non lo è per irrevocabile destino.

In inglese c’è una parola che ben definisce questa schiera di “perdenti” – figli, nipoti e pronipoti, forse, dei diseredati dell’epopea steinbeckiana di Furore, che ispirerà un altro album di questo importante autore, cui accennerò a seguire – e quella parola è dropout. Un album, Nebraska, che mira all’essenziale sia a livello stilistico che contenutistico, ma risulta essere così intenso, suggestivo, malinconico e disperato, da rimanere una pietra miliare forse insuperata. La voce di Springsteen è sottile e dimessa, mesta e intima, quando non simile a un urlo animale disperato come in State Trooper (l’amara traversata notturna di un pendolare proletario per terre lunari e desolate, con la sola compagnia di una radio che vomita solo chiacchiere orticanti), e i testi mai così intensi e lancinanti; una musica scarnificata li accompagna, e il risultato è un incantevole disincanto. La canzone che dà il titolo all’album sembra richiamare un bellissimo film di Terrence Malick del 1973, La rabbia giovane. Lì come in Springsteen, violenza e cattiveria non appaiono il prodotto dell’ambiente sociale, o almeno non in modo precipuo:

“Hanno stabilito che non ero degno di vivere
e che la mia anima doveva essere gettata nel grande vuoto.
Volevano sapere perché ho fatto ciò che ho fatto:
be’, signore, credo che ci sia così tanta cattiveria in questo mondo…”.

Perché il male è anche quello non riconducibile a tanto positivismo deterministico su scala sociale: qualcosa cioè di refrattario alle ragioni che sempre saremmo tentati di assegnargli per esorcizzare la sua gratuità e mancanza di senso.

Springsteen si fa anche portavoce di un’America in conflitto con un ordinamento sociale in cui la forbice tra ricchi e disagiati è al suo massimo livello, nonché con la sua cultura “giovane”, di un vitalismo spinto e improntata a un’oleografica esaltazione dell’iniziativa individuale. Il suo canto abbraccia con dolente garbo, nel 1996, il fantasma del Tom Joad di Furore), ravvisando già all’epoca della presidenza Clinton – un democratico che aveva tradito i valori storicamente democratici di una politica sensibile al Welfare State, inclusiva e più equa – gli stessi emarginati proletari che hanno la loro ascendenza in quelli della Grande Depressione. Ma anche reduci di guerra la cui vita è ormai un binario morto e che non possono reinserirsi nel tessuto vivo e operante di un Paese che offre opportunità, sì, ma non a tutti. L’America cantata da Springsteen è forse quella fertile, generosa, liberale di Thoreau e Whitman, ma nel tempo, ormai, di una politica scarsamente sociale, interventista e bellicosa, che reclama surrettiziamente il ruolo di coscienza democratica e poliziotta nello scacchiere geopolitico del pianeta; politica espressione di un potere fantoccio che parla la voce ventriloqua delle lobby (Murder Inc. è forse un pezzo in argomento) e dei poteri forti compromessi con l’orrore di enormi Moloch di sangue su cui si erge la colonna vertebrale di un Paese in conflitto con i suoi valori fondanti e padre di pratiche disuse alla solidarietà, al libero dispiegarsi delle identità sociali e non, quando non in dissidio con le proprie stesse radici libertarie. Il fatto che il giusnaturalismo di cui è informato il testo costituzionale americano preveda e anzi auspichi il diritto eudemonistico alla felicità, è un fattore di non poca rilevanza ma in conflitto non episodico con sacche della società in cui si sconta un triste vento di ingiustizia e impossibilità di riscatto: non è un caso che la colonna sonora di Philadelphia, il film di Jonathan Demme, parli delle sue strade simboleggiando la patria stessa del diritto americano, ma in tono dimesso e ferito, sia pure nel gesto di auspicare giustizia e rispetto per le diversità. Perché Springsteen ha voluto cantare, con un certo patriottismo, anche un’America sana e per così dire ricca e accogliente, con un briciolo di nostalgia per i prodromi della propria cultura, forse fino a risalire ai Pionieri e alla Dottrina Monroe, la stessa America fertile cantata da Woody Guthrie in This Land is my Land e più volte interpretata da Springsteen stesso.

Le persone che addimorano le sue “narrazioni” sono persone comuni, non baciate dal privilegio, spesso ancorate a una fede più forte di un destino di disagi e privazioni, persone che si aggirano in un cono d’ombra sociale e identitario che non le pone nelle condizioni di vivere secondo il Sogno Americano, ma che hanno un’umanità e uno spessore che le riscatta da tutto e da tutti, in una perseverante lotta silenziosa che le conduce, sì, attraverso terre aspre e secche, così spesso infertili rispetto a ciò che seminano, ma anche a trovare un loro senso nell’amore per la vita – amore che le invera piccole eroine di un macrocosmo in cui i valori non sono afferibili solo al denaro e al proprio grado di  influenza. È il caso della splendida A reason to believe, in cui il ritornello echeggia il titolo stesso ma intervallato da attese senza ritorni, perdita, disincanto e precarietà.

Sono tipici anche struggenti quadretti di amanti che pur essendo lontani dalla Francia di Jacques Prévert (per creare un ponte con la cultura del Vecchio Continente) conservano tutta la poesia agrodolce (in Prévert l’ascendenza forse era lo stesso Zola, anche se con tocco leggero e soave) di ambienti poveri, proletari, ma popolati anche da spiriti ricchi di una gioventù sana e vivace, che pur facendo i conti con disagio e ristrettezze, rimane una stilla di luce nella notte dell’ingiustizia e dell’aridità di sentimento.

Se come sosteneva il filosofo francese Gilles Deleuze, ogni autore valido scrive facendo le veci di qualcuno, si fa sua parola là dove questi incontra il limite di non sapersi o non potersi narrare, Bruce Springsteen incarna perfettamente questo ruolo, volendosi da sempre propalatore dei messaggi di persone comuni, lontano dai riflettori, detentrici di vite uniche ma anche disperse nel melting pot di quella parte d’America senza una voce e che pure non smette la speranza di poter trovare un proprio  posto nella vita.

Può darsi che qualche snob arcigno non le ritenga tali, ma le canzoni di Springsteen sono a nostro avviso vera letteratura americana, e la sua poetica non liquidabile come didascalica e populista.

Massimo Triolo

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Omaggio a Bruce Springsteen, di Massimo Triolo:

Bruciando

Stanotte semplicemente sto bruciando,
cieco e feroce come un fuoco
le scintille salgono verso la nera conca del cielo,
i cani latrano con più cattiveria e sento nelle vene
questa forza animale che incendia i sensi
e rende più vivi i pensieri…
Rinunci a mordere la strada e la strada è una tagliola,
rinunci a gettarti un passo più in là,
il tuo incedere si è fatto più cauto
e ti chiedi se sentirti il mondo su un palmo
non sia stato solo un breve sogno di gioventù.
Stai seduto su gruzzi di stanchezze e rimpianti,
mendichi l’obolo di un’occasione al tempo
che incanutisce le tue voglie
e mentre ti rigiri d’ufficio
una lattina di birra triste tra le mani,
stai alzando lo sguardo alla luna sardonica
che non ti rende i tuoi lanci di dadi.
Ma stanotte brucio, prova a raggiungermi se puoi, ragazza,
sto correndo nella notte,
dove tutte le strade perdute arrivano allo stesso incrocio.
Voglio fare un patto col diavolo:
che la mia anima si perda per un nuovo lancio di dadi –
e forse quella luna smetterà di ridere di me!
Ti ho vista in un bar della zona industriale
che vestivi un abito color confetto,
girando leziosamente un dito
attorno a una ciocca dei tuoi capelli di satin
su cui danzavano il vento e il sole,
le labbra dipinte di nero
e due occhi grandi come azzurri pianeti
che si perdevano nei barbagli metallici delle vetture fruscianti
sulla statale polverosa
avvolta nella luce di caramello dell’ultima sera…
È accaduto qualcosa in me,
qualcosa si è spezzato forse, ma un fuoco divoratore
mi brucia dentro.
In pochi istanti, ti ho dato un nome e ti ho assegnato un sorriso,
ti ho deciso dolci parole nei miei riguardi,
e ho lasciato un penny fortunato
al tavolo dov’eri seduta, mentre nella tua gazzosa
si squagliava il ghiaccio
di un’attesa che non era per me.
Stanotte ti ho dentro
come una preghiera immensa e luminosa
nella notte fonda e selvaggia e senza più indugi –
non so dove portare questi quattro stracci di speranze peregrine
che vestono il tuo nome e un sorriso,
ma ho dentro un fuoco e non lascerò che si spenga.

*

Omaggio a Leonard Cohen, di Massimo Triolo:

Tenebra fonda

Ho oltrepassato circostanze fiorite
con la nebbia nel cuore confuso
e orientamenti che sposano foglie cadute
tra le dita del vento
a scelte condizionali.
Chi ha sabotato questa ferrea volontà?
Chi ha compromesso questa solida libertà?
Ho congiunto le lune al respiro,
cucito le dune di sguardi roventi
alla garza blu di cieli tersi e senza riparo.
Ho partorito ossessioni di tenebra
fino ai vagiti di un nuovo giorno,
l’algebra dei motivi
cadendo in braccio al desueto…
Veli di luce di lacrime e solo un sorriso sguincio.
Conosco i miei mali e ne sono innamorato,
ciò che vale a dire:
resterò alla deriva!
Il giorno ha una sua inflorescenza di fiamma
che io chiamo sagrata
e coopta desideri spenti in forma di rovi
avviticchiati alla carne di un’anima.
Mi volgo a questa epifania di tormento
circonserta di bruciore,
e al suo lustrale bagno di forme vaghe
e fatali approssimazioni:
escrescenze di vuoto spinto
e fabbricatore di ossa.
Ho maturato un male sottile e fiabesco,
svergognato prescrizioni morali
che si davano arie e un contegno;
raccolto putri resti e drenato il sangue
di piccole storie senza un alfabeto.
Il diavolo balla un fandango
sulle nocche del mio volere.
E le parole sono briciole di fuoco
nella tenebra fonda e senza rimedi:
inani minutaglie di sogni proibiti che si frangono
sugli scogli placcati e aspri
di una vertigine di realtà cruda.

Gruppo MAGOG