“La poesia è lo spirito messo a fuoco”. Onofri, Comi e Vigolo: tre poeti fuori dai canoni
Poesia
Magda Vigilante
Forse perché un poeta viva, deve riscattare la vita di un altro. Incorporarne il dramma.
Lea Goldberg, giovane poetessa transfuga da Königsberg e Berlino, si fa carico del destino di Else Lasker-Schüler. Sono i primi anni Quaranta, Else ha settant’anni, si è trasferita in Palestina nel 1939, in stenti. Lea le regala delle viole: non ha neanche trent’anni e ammira la vecchia poetessa. Ne ammira perfino la desolazione.
“La spaventosa miseria, la folle solitudine della grande poetessa. Non avrei dovuto anch’io essere povera, abbandonata e quasi bandita, se non avessi mentito a me stessa sempre, se non avessi peccato nei confronti della verità, della purezza, della poesia? Quel suo stare seduta in quel modo, così tremendo, non era forse il simbolo di tutte le esistenze fatte di ingiustizia, condotte da noi, gli altri, gli scrittori di versi a volte altisonanti?”.
Lea Goldberg sceglie di scrivere in ebraico – in famiglia si parla il russo, il tedesco come lingua ancillare –, è una scelta precoce, maturata a quindici anni – “per me non scrivere in ebraico equivale a non scrivere affatto” – finché la lingua-patria non si realizza, nel 1935, con l’arrivo di Lea a Tel Aviv. La sua linea di ricerca poetica, per così dire, passa per l’acmeismo russo – Anna Achmatova, Osip Mandel’štam – e per la lettura di Rilke, “il mio poeta”; l’arrivo in Israele coincide con l’esordio poetico, “Volute di fumo”. Negli anni, perfezionerà il proprio lignaggio poetico studiando i grandi poeti italiani: Petrarca, che traduce, e Dante – passa a memoria la Divina Commedia, e si impone, “innamorarsi della lingua italiana”.
Il vero innamoramento, tuttavia, è verso Avraham Ben Yitzchak, lo straordinario Sonne eternato da Elias Canetti in Il gioco degli occhi. Nato in Galizia nel 1883, impalpabile figura di ‘giusto’, Sonne “dimostrava una sovrana conoscenza” di ogni religione, padroneggiava con genio la Bibbia ebraica – “sapeva citarne all’istante e testualmente ogni passo da qualunque libro e lo traduceva così, senza la minima esitazione, in un tedesco di straordinaria bellezza che a me sembrava il tedesco di un poeta”. A Vienna, era diventato amico di Hermann Broch, conosceva James Joyce. Delle sue poesie – tradotte in un libro-gioiello da Portatori d’acqua nel 2018, “con un saggio di Lea Goldberg” – si parlava con arcano rispetto. Così ancora Canetti:
“Giovanissimo, all’età di quindici anni, sotto il nome di Avraham Ben Yitzhak, aveva scritto un certo numero di poesie ebraiche che avevano suggerito a qualcuno, esperto in entrambe le lingue, un paragone con Hölderlin. Erano pochissime poesie, forse nemmeno una dozzina, in forma di inni, e di una tale perfezione che l’autore era stato annoverato tra i maestri di quella lingua chiamata a nuova vita. Ma poi Sonne aveva smesso subito, e nessun’altra poesia era venuta alla luce. Si pensava che si fosse imposto il divieto di scrivere poesie. Non ne parlava mai, dicevano i miei informatori: anche su questo argomento, come su tanti altri, manteneva un silenzio inviolabile”.
Lea Goldberg incontra Sonne nel 1938, a Tel Aviv: è un amore, va da sé, marcato dall’impossibile, avvelenato. “Aver conosciuto un uomo così è certo un privilegio, ma anche una catastrofe”, scrive nel suo diario, esercizio di quotidiana confessione. L’amore insolito, insoluto, tuttavia, si sdebita con l’ispirazione: Lea Goldberg scrive poesie in forme chiuse, spesso cifrate, con nitore di quarzo. A volte le dedica a Sonne, che gradisce, tra le retrovie della sua enigmatica ritrosia. Per lui, soprattutto, scrive un saggio, “Incontro con un poeta”, pubblico nel 1952.
“Ma dov’era lui, in quale profondità, in quale abisso? Nessuno di noi lo sapeva. La lucidità lo teneva a galla. Il senso dell’umorismo, sicuramente, lo aiutava molto”.
Sonne era morto due anni prima, nel 1950, lasciando a Lea un precoce senso di decrepitezza, di deserto del mondo.
“Il giorno del mio compleanno, il 29 di maggio, è morto Sonne. Da allora ogni cosa, eccetto questo fatto, ha perduto ogni importanza”
Si trasferisce a Gerusalemme, allora, Lea, trova riparo mentale traducendo Petrarca. La sua raccolta di versi più importante, Lampo all’alba – pubblicata da Giuntina nel 2022, a cura di Paola Messori – è accolta come il testo di un classico. La figura di Sonne aleggia in diverse poesie, soprattutto nei Canti d’amore, poesia musiva, d’oro freddo:
“Beati coloro il cui sorriso sbocciò nella bufera
come luce di stella sulla furia delle onde,
beati coloro che si incontrano in giorni tristi
e la loro letizia splende nell’ombra.
Beato chi venne nel giorno dell’amarezza
e lume per l’amico fu il suo lume,
beato il nostro amore nei suoi patimenti,
è lui stesso ricompensa al patire.
Beata, me beata che nel cavo della mia mano
mi fu dato di riscaldare le tue dita
il giorno che mi apparve davanti la mia morte,
e una sola scintilla dal fulgore dei tuoi sguardi
alle mie tenebre portai come un monile”.
Lea non si sposerà mai. Il cuore di Lampo all’alba è un canzoniere fittizio, ascritto a Teresa de Meung, “nobildonna francese vissuta alla fine del Cinquecento nei pressi di Avignone, in Provenza”. Secondo la biografia ricreata dalla Goldberg, Teresa de Meung “aveva una quarantina d’anni quando, innamoratasi di un giovane italiano, precettore dei suoi figli, gli dedicò circa quarantuno sonetti”. Naturalmente, il giovane si dileguò mollando la nobildonna ai suoi ardori: lei “bruciò tutte le poesie”, di cui non sopravvisse che il sentore della leggenda, segregandosi in convento. Nel gioco letterario, Lea Goldberg rifà dodici sonetti della nobildonna: la convenzione petrarchesca si confonde con il mito delle “abbandonate” narrate da Rilke, delle grandi poetesse francesi – da Louise Labé a Gabrielle de Coignard – che attuano il sortilegio di versi che affascinano e intimidiscono, vigili e violenti, devoti e distruttori, spesso nascosti (tra i cassetti o al fuoco decabrista o tra identità celate, per salotti e conventi). Il cliché si adatta alla poesia d’amore biblica, quella del Cantico, versi, in fondo, di inseguimento: si ama nel pericolo della sequela, nell’affronto.
“Che cosa resterà? parole: parole come cenere
di quel fuoco a cui si consumò il mio cuore,
della mia vergogna, della misera mia felicità
soltanto i segni racchiusi in un libro”.
Lea Goldberg continuò a difendere l’autenticità dell’improbabile Teresa de Meung, con acribia borghesiana. Nel 1964, in un’intervista, disse di aver scoperto la storia di Teresa de Meung “nel 1951, a Londra, all’Istituto Warburg, mentre stavo traducendo il Canzoniere di Petrarca e cercavo libri sul petrarchismo europeo”. Il nome della nobildonna provenzale è un roseto di nebbie: “ho cercato invano il nome di questa poetessa su altri libri, ma non viene menzionata in nessun luogo – può darsi che Teresa de Meung non sia mai esistita. Però questa donna cinquecentesca, col suo amore disperato, la sua sofferenza silenziosa e i suoi sonetti bruciati, mi riusciva più vera e viva di tante persone rinomate di quell’epoca”.
Una nuova generazione di poeti israeliani, capitanati da Yehuda Amichai, intanto, veniva al mondo; Lea Goldberg era il residuo di un tempo antico, monile inutile. Insegnava all’Università Ebraica di Gerusalemme, frequentava Gershom Sholem, Martin Buber, Shmuel Y. Agnon. Dopo aver scontato l’ennesimo amore fugace, fittavolo di desideri astrali – “tutto è soltanto un edificio che io stessa ho costruito, e per dire la verità: sulla sabbia, e con l’idea abbastanza chiara che proprio sulla sabbia costruivo” – preferisce per lo più una vita appartata, solitaria. Molti anni prima, sulla soglia della Seconda guerra, aveva difeso la necessità del poeta di scrivere poesie d’amore:
“in tempi di guerra non solo è concesso al poeta di scrivere poesie d’amore, ma ha il dovere di farlo, perché anche in tempi di guerra l’amore ha un valore più grande dell’omicidio… è suo dovere ricordare che esistono al mondo valori semplici ed eterni capaci di rendere la vita più preziosa, la morte più perfetta – la morte, dico, non l’omicidio”.
Muore nel gennaio del 1970, Lea Goldberg: custodire due vite almeno, idearne una terza, aderire al miracolo.
*
Da qualche parte, qualcuno, qualcosa –
alba oscura, pascoli di granito…
Il fiume, le foglie nel fruscio della caduta,
canzone nella boscaglia
sto passando –
Passo come questo autunno
poso i passi sul primo ghiaccio:
crudo, opaco, fragile, nel crollo
sepolto nell’alba buia, piovosa.
Passo come quella stella
scivolo nella luce che non è luce
dietro l’orizzonte, oblio,
dove incontri l’altra notte.
Lea Goldberg