30 Luglio 2018

Le masse vogliono riempirsi lo stomaco e avere un re a cui obbedire ciecamente. Ma Gesù – che rompe i rapporti con il potere e con il denaro – preferisce la via della montagna, che angusta tenerezza

La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.

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Non di solo pane vive l’uomo, dice Gesù sconfiggendo la tentazione sibilata da Satana. Eppure, l’uomo ha bisogno di pane. Gesù, inseguito da “molta gente” si domanda “Dove comprare il pane per sfamare questi?” (Gv 6, 5). Nessuno gli ha chiesto di avere del cibo: Gesù si preoccupa, se ne occupa. Gesù risponde alla richiesta prima che essa sia formulata.

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Dopo aver dato il cibo, che magicamente si moltiplica, Gesù va via, in fuga. Dopo il cibo, non depone alcun insegnamento. Dobbiamo dedurre che l’insegnamento sia implicito, intriso nel cibo mangiato dalla folla dei “quasi cinquemila” (Gv 6, 10). Il pasto in comune è un insegnamento.

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“Avendo reso grazie, distribuì a chi era seduto” (Gv 6, 11). Penso che il cuore di questo evento memorabile stia in tre atti. Rendere grazie – la moltiplicazione accade in grazia del ringraziamento – distribuire – da soli si digiuna, insieme si condivide il pasto – stare seduti. C’è una disciplina nello stare seduti: ci si dispone al cibo. Non c’è spargimento di parole: il vero insegnamento è il volto del fratello, compagno di pasto.

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Più importante di ciò che si consuma è il resto, quanto avanza. “Raccogliete ciò che avanza, perché niente sia perduto” (Gv 6, 12). Questa abbondanza comporta la previsione di una nuova comunità, di altre genti? Gesù sembra dire: occupati di tutto, non preoccuparti del cibo, Dio te ne fornisce in abbondanza, abbandonati a lui.

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All’origine della ‘moltiplicazione’ c’è il gesto di “un ragazzino che ha cinque pani d’orzo e due pesciolini” (Gv 6, 9). Senza il gesto di gratuità di un uomo – neanche adulto, un ragazzino – che mette a disposizione il suo per gli altri a rischio di morire, non c’è miracolo. Gesù non può fare niente senza il moto dell’uomo. Ma chi è questo “ragazzetto”? Da dove viene? Chi sono i suoi genitori? Che mestiere fa? Che cosa lo ha indotto al dono: è turbato da Gesù, è inviato dai genitori, è un mero curioso?

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Gesù – come Eliseo nel passo veterotestamentario della liturgia domenica, che impone “dà da mangiare alla gente” (2 Re 4, 43) – ciba gli altri, ma non si ciba.

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Gesù “mette alla prova” (Gv 6, 6): chiede a Filippo dove si può comprare del pane; Filippo gli risponde, razionalmente, che “duecento denari di pane non bastano perché ciascuno abbia almeno un pezzo” (Gv 6, 7). La ‘moltiplicazione’ implica il superamento di ogni concezione di denaro, di patto monetario: il cibo è gratis, Gesù non compra, crea. La “prova” casca sempre nelle misere vicende di ogni giorno, nelle domande maliziose – è lì che siamo impreparati. Non ci è chiesta la grande prova – ma di provarci nelle cose misere.

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Il cristianesimo condivide tutto – ma ciascuno resta una personalità singola, con la sua squisita chiamata, di cui è responsabile. Paolo esorta i cristiani di Efeso “a conservare l’unità dello spirito… un solo corpo e un solo spirito” (Ef 4, 3; 4), eppure dice “io” e si apostrofa “carcerato nel Signore” (Ef 4, 1). Dio ti serra la gola, è claustrofobia, è un carcere che si fa sempre più stretto – così, le celle degli eremiti sembrano pollici di pietra. Si sbriciola l’ego, si conquista l’identità.

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La gente segue Gesù – ieri come oggi – “perché vedevano i segni che faceva sui malati” (Gv 6, 2) e perché da lui sono sfamati (“visto il segno… dicevano: ‘Questi è davvero il profeta, quello che deve venire al mondo’”, Gv 6, 14). Si va alla Chiesa sperando nel miracolo: se accade, si crede. Ma non è questa la rivelazione: per questo, “avendo saputo che stavano per prenderlo e farlo re” (Gv 6, 15), Gesù fugge.

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Gesù ribalta i rapporti con il potere: non accetta il contatto – né il conflitto – con il denaro. Non vuole essere fatto re. Il vero potere è sottrarsi dal potere – il potere figlia il demonio, credi di possederlo e ne sei posseduto, spossessato.

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Bisogna studiare gli istanti in cui Gesù si ritira nel deserto; quelli in cui preferisce i monti. A volte predilige il niente orizzontale, la sassaia netta; altre volte l’altezza, la vertigine, la voragine azzurra.

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Per dare il cibo agli astanti “Gesù salì sul monte” (Gv 6, 3), di cui l’altare è figura. Quando Gesù si accorge che vogliono farlo re – l’ennesimo, perché la massa è ebbra di padroni, ha voglia di ubbidire al forte – “si ritira di nuovo sulla montagna, lui solo” (Gv 6, 15). Nessuno riesce a rincorrere e a raggiungere Gesù quando si ritira nel monte, in solitudine. Mi sorprende l’evangelista Giovanni che insiste “lui solo”. Che austera tenerezza, che dolente fragilità, che imperiale franchezza. Entrare nella solitudine di Gesù, tra i monti a precipizio, ecco l’enigma. (d.b.)

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