02 Maggio 2020

L’ultimo libro di Le Clézio, uno scrittore troppo perfetto per essere amato. Esegesi del “dio in costume da bagno, un futuro Camus”

Nonostante sia stato insignito del Nobel per la letteratura – era il 2008 – e sia, sostanzialmente, il più autorevole tra gli scrittori in lingua francese, oggi Jean-Marie Le Clézio è pubblicato poco (e male) in Italia, ma va detto che anche in Francia i suoi libri – di norma, uno ogni due anni – vengo assunti, discussi, censiti con il sussiego che si riserva a una gita in glittoteca. Colpa, che paradosso, del destino di Le Clézio, luminoso come pochi, di una vita nomade – nato a Nizza, cresciuto tra Mauritius e Nigeria, lavori tra Thailandia e Messico, libri ambientati in Marocco, Corea, Gerusalemme –, di un profilo un poco schifiltoso, poco avvezzo alla polemica, di una scrittura aurea (tra i suoi romanzi preferisco, se importa, Deserto). Esordì, poco più che ventenne, nel 1963, con Il verbale – l’anno dopo si sarebbe laureato su Michaux. Fu un esordio realizzato nello splendore. Nel suo Diario, Witold Gombrowicz, altrimenti cinico boia degli scrittori del suo tempo, ha parole complici verso Le Clézio. Siamo nel 1967, Le Clézio ha pubblicato Le Fièvre e Le Déluge – ancora inediti in Italia –, Gombrowciz attacca con una descrizione di circostanza: “Mi fece subito un’ottima impressione. Serio, intelligente, sincero. Drammatico (ha ventisette anni) e concentrato. Bellissimo e, soprattutto, fotogenico… La stampa lo considera la principale gloria della letteratura… Già noto in Europa, in Francia è considerato il futuro Camus e quando passa per strada, la gente di ferma a guardarlo”. Gombrowicz, poi, mette in luce la contraddizione di Le Clézio che, nonostante i mutamenti di stile – è passato dall’algido sperimentalismo all’esotico al memoir –, vale ancora oggi e lo rende attraente e respingente al tempo stesso. “Le Clézio – almeno così mi sembra – è minacciato su due fronti. Il primo pericolo è il genere di vita, troppo idillico-paradisiaco, che gli è toccato in sorte. Sano, robusto, abbronzato, tra i fiori di Nizza, con una bella moglie, i gamberetti, la fama, la spiaggia… che altro si può volere? I suoi romanzi affondano nelle impenetrabili tenebre della più estrema disperazione mentre lui, giovane dio in costume da bagno, si immerge nelle salate azzurrità mediterranee. Ma questa è una contraddizione troppo epidermica per poterle realmente compromettere; un altro tossico, ben più penetrante del primo, fa da veicolo a questo veleno. Questo secondo tossico è la bellezza… tra le sue mani il dramma diventa qualcosa di bello e seducente”. Eternamente giovane, simile a un re astrale che ti permette ammirazione ma non la consonanza, Le Clézio ha pubblicato, per Gallimard, un ultimo libro, costituito da due racconti intrecciati: Chanson bretonne e L’enfant et la guerre. Scrive della sua infanzia, appunto, in Bretagna e nella campagna di Nizza. Sostanzialmente, è una elegia sul mondo perduto.

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«Stavamo percorrendo dei sentieri battuti con le nostre biciclette arcaiche e pesanti come le draisine ottocentesche, noleggiate ogni estate da Conan de Combrit, il proprietario del garage. I sentieri battuti attraversavano campi e boschi, delimitati da due alte scarpate (dall’antico bretone ar kleuziou, da cui deriva il nostro nome di famiglia) e ricoperti di felci e ginestre. A volte, davanti a noi, sentivamo lo sporco della strada vibrare sotto le nostre gomme, così lasciavamo cadere le bici per arrampicarci sulle scarpate e lasciar passare una mandria di mucche al trotto con le corna davanti, pronte a calpestarci».

Queste pagine sono indiscutibilmente autobiografiche: le vacanze in Bretagna, Nizza sotto l’occupazione tedesca. Tuttavia, ha scelto «Due racconti» come sottotitolo…

Una storia narra l’altra. Mi è sempre piaciuto ascoltare gli anziani raccontare della loro infanzia, perché la distanza, i dettagli della vita, le allusioni alle persone che sono scomparse nell’oblio, i segreti, i sogni sepolti, i modi di essere, i vestiti e le abitudini, tutto questo mi ha parlato di un tempo che non conoscevo e che grazie a loro, alla loro voce, al loro sguardo, sono diventati vivi. Ora sono io nella situazione in cui posso dire, cioè inventare, immaginare, tornare indietro e credermi che…

Si evoca una Bretagna degli anni ’50 molto diversa da come è oggi, senza i suoi pescatori, i suoi copricapi e soprattutto la sua lingua…

Quando, da adulto, ho ripreso il contatto con la Bretagna, ho avuto l’impressione che un vento violento avesse spazzato via questo paese e ciò che avevo appreso dalla mia infanzia. Quello che mi riguarda soprattutto è la perdita della lingua bretone: questa lingua, quando ero bambino, da sempre era viva ovunque la si parlasse, a ovest di una linea che va da Saint Malo a Vannes, ma ora è diventata una lingua morta. Non sono nostalgico del passato, ma la scomparsa di una lingua vecchia e originale come quella bretone, diversa dal francese, mi rattrista. Non mi fa rimpiangere averla parlata, o non averla ascoltata abbastanza, ma c’era ancora tempo per farlo. Potrei dirlo anche di altre lingue scomparse in pochi decenni, come il nahuatl dell’altopiano messicano, o il cornovagliese, o i dialetti oceanici o dei vecchi californiani… Sappiamo davvero quello che si perde con queste lingue, cosa non tornerà mai più, che il nostro mondo sta diventando sempre più univoco, convenzionale, ordinario…

In nessun altro luogo, come in Bretagna, si sentiva «a casa»…

È davvero una sensazione sorprendente, poiché non sono nato in questo paese, non sono cresciuto lì e non appartengo direttamente alla sua storia o alla sua eredità. Senza dubbio essere stato lì da bambino, subito dopo la guerra, mi ha fatto innamorare della sensazione di libertà, delle leggende bretoni, della condivisione e della dolcezza degli abitanti: forse tutto questo mi ha permesso di trovare lì delle radici che non avevo…

Nel secondo racconto, descrive il bombardamento di Nizza e l’esplosione di una bomba nel giardino di casa sua…

È il primo ricordo della mia infanzia. Questa esplosione mi ha fatto reagire tanto che da quel momento è cominciata la mia autocoscienza. Mi ha anche aperto gli occhi riguardo all’atrocità della guerra nei confronti della popolazione civile. Vedo conflitti che affliggono il mondo anche adesso mentre parliamo.

Il testo racconta come ha capito, nonostante la giovinezza, che cosa fosse la solidarietà…

Quando si è rifugiati (ed è quello che allora eravamo io, mia madre e i miei nonni), penso che si abbia un’attenzione particolare verso gli altri, perché immaginiamo che anche loro vivano il nostro stesso destino e che dipendiamo completamente gli uni dagli altri, tramite il sostegno e il silenzio. È una sensazione di istintivo riconoscimento che posso immaginare nella situazione dei migranti dei nostri giorni, che attraversano lo stesso posto in cui eravamo rifugiati durante la guerra e che sono generalmente ben accolti dagli abitanti delle alte valli.

*La traduzione italiana dell’intervista è di Caterina Rosa

 

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