Forse è Désert il libro più bello di Jean-Marie Gustave Le Clézio, scrittore troppo sottile per attecchire in Italia. Quel libro – in catalogo Rizzoli – sonda gli enigmi del Sahara, vaga tra le ombre dei Tuareg: era il 1980. Pochi anni prima, nel 1977, Le Clézio pubblica il testo di cui si dà traduzione parziale, L’Inconnu sur la terre, edito sulla “Nouvelle Reveu Française”: l’attesa – cioè: l’immobilità – avvia il prodigio; statico ed esotico convergono nella scrittura del francese, omaggiato con il Nobel nel 2008. Scrittore di eccezionale precocità, ‘sperimentale’ – Le Procès-verbale esce nel 1963 per Gallimard e ottiene il Prix Renaudot, lo stesso andato a Céline, prima di lui, ad Aragon, a Michel Butor –, dagli anni Settanta retrodata la sua ricerca a toni cauti, incantati. Viaggia molto, Le Clézio; della scrittura fa vagabondaggio; nel 1990, insieme a Jean Grosjean, costruisce il suo capolavoro in campo editoriale: per Gallimard cura la collana “L’aube des peuples” che raccoglie i miti delle origini, le leggende delle più disparate civiltà, da Gilgamesh all’Africa oscura, dai canti polinesiano alle epopee nordiche. L’idea che narrare significhi mettersi in moto, perdere tutto tradotti nel viaggio, trova qui il suo nodo, il modo.
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L’Inconnu sur la terre
Scrivi solo di ciò che ami. Scrivere per mettere insieme, per assemblare le rovine della bellezza; tentare di ricomporre, di ricostruire questa bellezza. Allora gli alberi che giacciono nelle parole, le pietre, l’acqua, le braci di luce che vibrano tra le parole, si accendono, brillano, si librano, risplendono di nuovo, puri, danzano! Partiamo dal fuoco, per affogare nel fuoco. Ovunque, intorno, dentro, bruciano le fiamme, il divario delle fiamme, leggere, odorose, che riempiono lo spazio di calore e candore. Come alienarsi dalla vita? Come accettare di essere l’altro, lo straniero, in esilio? Tutto ciò che sappiamo, ciò che riconosciamo, la chimera della conoscenza, tutto crolla davanti al singolo istante della vita. Un moscerino traversa l’aria, un brano d’erba che vibra al vento, una sfera d’acqua, una luce, e d’un colpo, assenza di parole, la silenziosa piana della realtà, dove il linguaggio è a maggese e si mineralizza la sapienza. Quelli che vogliono vivere fuori (cioè sopra il mondo) dove sono? Annientando il mondo, si annientano. Non li vediamo più. Scomparsi nei sotterranei del loro sapere, nelle celle delle loro tombe, neppure più ombre; nelle loro prigioni di polvere, ridotti a due dimensioni nelle pagine dei libri. Appiattiti dagli schermi, spauriti, spariti. Il linguaggio non conduce verso l’illimite; porta, passo passo, sui sentieri reali della terra.
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La bellezza non è un segreto. Libera, è esposta dappertutto, nuda. Il cielo è grande, il mare, la luce splende. Tutto è calmo, vasto, il silenzio, profondo, è lacerato da voli di uccelli, bianchi, lenti, volano lungo il cielo. Qui devi andare, qui devi entrare. Lascia tutto ciò che hai (che credi di avere) e penetra nello spazio aperto. Abbandona i rifugi e le camere chiuse, scivola in avanti, allontanati, per rivestirti di ciò che vedi. Quando siamo più lontani siamo più prossimi, come capirlo? Dove siamo, ora? Andiamo verso le regioni albine, verso la luce gialla che inarca e brucia il corpo, verso la luce che rende luce la pelle.
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È bene aspettare. Ti siedi al sole, riparato da un albero: piccole macchie chiare e scure segnano ogni cosa, il corpo, la terra, l’attesa. Non sai cosa attendi. Forse una donna, un autobus, l’ora – non lo sai davvero. Per questo, non ti muovi. Ti siedi, composto, con i piedi sul pavimento, le mani sulle cosce. Intorno a te, brulica la gente, vanno, tornano, automobili, motorini, corrono, veloci, in un’aura di rumore. Non attendono. Stanno andando da qualche parte, per i loro affari, pressati. Quando ti passano davanti, ti guardano con la coda dell’occhio, a volte si voltano, prima di girare l’angolo. Li guardi passare. Guardi le ruote che girano, le gambe che marciano. Ma tu stai bene dove sei, sulla panchina, immobile. Non è che non ti piacciano, al contrario. Sono bravi a fare ciò che fanno, sono veloci, lacerano il vento. Ma preferisci aspettare.
Forse attendi davvero qualcuno. Forse in questo momento qualcuno attraversa la città, incrocia gente sui marciapiedi, aspetta al semaforo rosso, gira a sinistra, lungo un giardino, passa di fianco a una vecchia che cammina a fatica. Qualcuno, dall’altra parte della città, arriva fin qui, dove tu attendi.
Ma non attendi una donna. Non lo sai ancora. Stai seduto sulla panchina ancora per un po’. Libero dalle ore, dai minuti, dai secondi. Li hai liberati. Li lasci crescere, allungarsi, andare dove vogliono. Nel cielo, il sole ruota lentamente. Nuvole volano, mutano. La luce è così chiara per un istante, poi svanisce. C’è del grigio, del marrone, del viola.
Il vento soffia da destra – poi da dietro – poi si blocca, l’aria è ferma come te. Quando attendi, non pensi al tempo. Sai che dovremo partire, molto presto, ma il momento non è ancora arrivato. Adesso, interrompi l’attesa. Vorresti che durasse ancora, che non finisse più. Che l’autobus arrivi dalla fine del mondo, su una lunghissima strada, serpentina, attraverso le montagne dell’Hindu Kush, verso le vaste valli del Rio delle Amazzoni e dell’Ucayalli, sopra gli immensi ponti sospesi sugli estuari, che segua la costa dei mari, tutti i promontori, le insenature, le penisole.
Lo segui con lo sguardo, senza sforzo, sognando, oltre l’orizzonte, lungo la strada. Viene verso di te, questo è certo, ma quanto tempo impiegherà ad arrivare? Sparisce dietro le colline, muore nascosto da un grande edificio. Poi appare di nuovo, così piccolo, lungo una sporgenza. Viaggia tra filari di platani, attraversa grandi incroci vuoti dove lampeggiano quattro fari arancioni. Si ferma davanti a un gruppo di case, ogni tanto, lascia che scendano due donne, un bambino. Più avanti, si ferma ancora, si aprono le porte, un operaio scende. Segue il suo itinerario con lenta costanza, sai che arriverà fino alla tua panchina. Ma in quanto tempo? È bello che a volte le cose siano così lente. È bello che il sole si muova come una lumaca nel cielo, che le nuvole si sfilaccino, che i battelli sciolgano gli ormeggi all’infinito, prima di lasciare il molo. Può darsi che tu non attenda nulla.
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L’autobus segue un altro percorso, l’ora è ferma sul quadrante dell’orologio e la giovane donna dai capelli neri, indossa un impermeabile blu, cammina rapida lungo i viali, forse sta arrivando da te. Gli orari non esistono. C’è solo la luce del giorno che muta, come se mettessimo in obliquo alcuni specchi. Il vento anima le foglie degli ulivi, e laggiù il mare, le onde calme, una dopo l’altra.
Non hai niente. Quando aspetti, non hai niente. Tutto ciò che hai fatto è vano, scivola come sabbia, cola come acqua. Ci sono così tante cose intorno a te. Tutto si confonde nella luce, la bella luce, e una sorta di quieto piacere ti azzanna, non vuoi trattenere più nulla. Sei seduto sulla panchina verde, la schiena appoggiata, i piedi per terra, le mani sulle cosce, e canti. Sei su un’isola, dev’essere così, un’isola in mezzo alle onde. Il tuo sguardo è calmo, fermo, respiri lentamente. Tutto è libero, intorno a te, vola, nuota. La luce non appartiene a nessuno. Le nuvole non appartengono a nessuno.
L’autobus percorre il suo lunghissimo perimetro, per chi ama seguirlo. La giovane dai capelli scuri ha occhi che bruciano, arriva, a lunghi passi, dondola la borsa di pelle, arriva, implacabile, per tutti quelli che la attendono.
J.M.G. Le Clézio