
Rudolf Kassner: chi è costui? Il maestro sconosciuto del secolo
Cultura generale
Il Glass Kingdom è un reame decadente, fatto di quattro grandi torri tra il postmoderno e il vintage, che ha il suo centro in un agglomerato fantasmatico di appartamenti e ballatoi, con le sembianze di un castello liberty o di una casa stregata, al centro di Bangkok. Un luogo posseduto dal fascino lovecraftiano che è il vero protagonista dell’ultimo, magnetico, romanzo di Lawrence Osborne: Il regno di vetro (Adelphi, 2022). Un palazzo landolfiano tra le ombre fatiscenti di Gormenghast e le inquietanti presenze dell’Overlook Hotel di Shining, in cui oscurità e luce, Occidente e Oriente confondo e mischiano i loro confini diventando una grande allegoria delle maschere e delle ombre dell’animo umano e delle varie culture che si incontrano in questa residenza infestata.
In questa dimora vivono i farang, i viziati e viziosi turisti occidentali, provenienti dai confini del mondo per soddisfare ogni loro desiderio nella capitale thailandese, con l’illusione di trovare o un paradiso artificiale o un rifugio esotico contro il logorio del loro mondo, burocratico, isterico e meccanico. Sono uomini d’affari giapponesi, dirigenti d’azienda statunitensi, cuochi sudamericani, repressi cacciatori d’avventure e prostitute euroasiatiche di alto profilo. Tra di loro si nasconde una giovane infelice segretaria americana, Sarah Mullins, che dopo aver eseguito una truffa, tramite alcuni scritti apocrifi, ai danni della megera scrittrice che assisteva, ha deciso di nascondersi nel residence thailandese sperando invano di trovare un rifugio sicuro prima di tornare negli States. Quel rifugio però si trasformerà in una trappola lussuosa, sullo sfondo di una Bangkok in rivolta, in preda a soprannaturali black out, dove i corridoi di cristallo del Kingdom, protagonista indiscusso del romanzo, diventano l’arena e il teatro dello scontro tra Oriente e Occidente, delle tensioni dell’uomo, grazie a una struttura narrativa tra il thriller esotico e la ghost story. Mostrando i nativi thailandesi in tutta la loro aggressiva complessità, costruendo personaggi degni del miglior Bong Joon-Ho di Parasite, ed espatriati sovrastanti e indifesi che, vittime della dorata sopravvivenza, si sentono conquistatori umanitari del Sud est asiatico, quando sono solo squallidi infelici, decaduti vittime delle trame e dei raggiri dei loro servitori esotici.
Uno sguardo profondo sull’uomo e sulle sue contraddizioni, fuori da stereotipi o dai facili moralismi, che, come ha sottolineato Stenio Solinas, non fa di Osborne un Graham Greene del villaggio globale come vogliono incastrarlo alcuni spietati recensori, ma un lucido e impietoso testimone dello smarrimento degli occidentali che “credono che la storia sia finita e che non li tocchi più”. Uno sguardo, quello di Osborne – si leggano anche, sempre incapsulati in Adelphi, Nella polvere, Cacciatori nel buio, Bangkok –, perforante ed accecante che ci mostra l’uomo nella sua nuda cecità, come fosse un oggetto lontano, l’invenzione di una specie scomparsa che si mostra integralmente al lettore, tra le quinte di quel teatro decadente che è Il regno di vetro, quasi facendoci dimenticare che quei personaggi siamo in realtà noi stessi. Insomma, abbiamo reclamato Osborne al dialogo.
Perché Il regno di vetro e come è nata l’idea di questo romanzo?
Il romanzo è ambientato nell’edificio dove effettivamente vivo e in cui ho vissuto negli ultimi dieci anni della mia vita a Bangkok. Dopo esserci stato per un po’ di tempo, ho avuto l’idea di scrivere una storia basata su alcuni degli inquilini che abitano nell’edificio, su questa sua atmosfera strana e talvolta minacciosa, forse ispirato dai film apartment di Roman Polanski come L’inquilino del terzo piano e Rosemary’s Baby. La mia cameriera ha sempre insistito fermamente sul fatto che questo edificio fosse stregato, infestato dai fantasmi dei bambini morti durante l’epidemia di tifo del 1942. Da queste suggestioni nasce il personaggio della bambina che a volte compare alle finestre.
Da L’estate dei fantasmi a Nella polvere passando per questo testo, come sta cambiando il suo modo di raccontare un Occidente decadente e superficiale alla ricerca dell’esotismo e dei paradisi artificiali?
Non sono sicuro che questi paradisi possano definirsi tali, né possiamo dire che essi siano completamente artificiali. Ma possiamo certamente studiare, attraverso di loro, gli esiti della fuga da un sistema occidentale altamente burocratizzato e tecnocratico, un sistema che conferisce benefici e risorse al prezzo, forse, di una claustrofobia esistenziale. Però, anche in questi luoghi i sogni degli anni Sessanta sono ormai finiti, come, del resto, i giorni folli del sud-est asiatico negli anni Novanta, ormai un vecchio ricordo. Ad ogni modo, non credo che chi è in cerca di una nuova vita sia necessariamente superficiale o decadente. Spesso, si tratta semplicemente di uomini infelici e perduti.
In che modo lei si approccia alla scrittura e cosa le interessa creare o mostrare in un suo romanzo?
In sostanza, mi interessa esplorare le maschere delle identità occidentali: la nostra ‘persona’. È una parola ovviamente derivata dal teatro romano e che indica la maschera di un attore, una superficie dura, artificiale attraverso la quale si parla – per-sonare. Inoltre, mi interessa capire come questa maschera entra in conflitto con le altre personae create nel tempo da altre culture ed identità.
Nel rapporto tra Sarah e Mali con Goi c’è tutta la distanza tra est e ovest?
Penso di sì. È un rapporto comico per certi versi, ma allo stesso tempo pedestre e basato su relazioni di reciproco sfruttamento.
Una casa stregata, lo specchio di una società alienata fatta di cristallo, la proiezione dei suoi stessi abitanti. Il Regno è il vero protagonista del romanzo?
Assolutamente si. Questo dettaglio è una caratteristica che non è stata sempre compresa dai recensori che spesso non hanno compreso il significato e il ruolo del Regno di cristallo nella storia. Un dettaglio che deve essergli sfuggito soprattutto perché non conoscono tanti film horror asiatici come me! Certo a livello occidentale un esempio concreto poteva essere Shining di Stanley Kubrick, che forse ha avuto un ruolo centrale nel mio legame iniziale con l’elemento narrativo dell’edificio e con le emozioni che esso mi ha suscitato.
Se dovesse pensare ad una altra opera?
Sicuramente citerei un film orientale. Dark Water di Hideo Nakata, ad esempio.
Secondo lei gli scrittori occidentali hanno dimenticato come raccontare l’uomo hanno preferito diventare dei pedagoghi?
Si, in un certo senso la letteratura occidentale sta andando in quella direzione, purtroppo.
E in che direzione va invece Lawrence Osborne?
In tutt’altra direzione! Lontano da ogni moralismo ed ideologia, verso il segreto dell’uomo, toward a human mistery…
Che ne pensa del dibattito sul politicamente corretto in arte e in letteratura?
Il politicamente corretto è un affare per giornalisti. Le grandi opere – e i grandi scrittori – se ne disinteressano.
È vero che sta scrivendo un libro ambientato in Italia? Di cosa parlerà?
Sto pensando di farlo: non si è ancora materializzato sullo schermo di nessun computer!
In una precedente intervista ha detto che stava rileggendo Boccaccio: quali sono gli autori italiani che preferisce?
Amo Curzio Malaparte e Dante Alighieri, che ho studiato a Cambridge con Robin Kirkpatrick, il più grande traduttore contemporaneo della Commedia in inglese. Eravamo buoni amici, avevo vent’anni e all’epoca soltanto sei persone a Cambridge studiavano l’italiano medievale.
Quali sono i suoi riferimenti culturali e a chi si ispira quando scrive?
Mi ispiro soprattutto a molti film: su tutti, forse la sorprenderà, amo Michelangelo Antonioni. Un autore che ammiro molto, non solo come regista ma anche come sceneggiatore. Adoro anche il cinema di Lee Chang-dong, Burning e Oasis sono dei film riusciti: mi piacerebbe lavorare con lui un giorno, ma suppongo sia improbabile che accada…
Lei si considera un viaggiatore in un mondo di turisti?
Questa è una domanda che mi viene posta spesso ma devo rivelarle che in realtà non viaggio più molto. Sono andato in Mongolia il mese scorso, ma è stato per valutare la location per un film che ho scritto e su cui ho lavorato recentemente. Un viaggio di lavoro, insomma, anche se mi è piaciuto molto. Non ci sono molti turisti in Mongolia e non ce ne sono nemmeno in Corea, dove ho dovuto fare scalo. Forse andrò ad abitare per un po’ in quei due paesi in futuro…
Testo e traduzione a cura di Francesco Subiaco e del professor Francesco Peirce