Le biografie di T.E. Lawrence sono diventate un genere a parte, percorso, per altro, con violento accanimento. Di Lawrence, forse, affascina il fatto che sfugge a ogni delirio di cronaca: il suo enigma surclassa il mito dell’avventuriero; egli è, in effetti, come la morgana che fa viola il deserto. Perfino Gilles Deleuze fu ipnotizzato da T.E. Lawrence, l’uomo la cui impresa “è una distruzione dell’io fredda e concentrata, condotta fino in fondo”, per cui “ogni mina che posa esplode anche in lui, è lui stesso la bomba che fa esplodere” (La vergogna e la gloria di T.E. Lawrence è raccolto in Critica e clinica).
Tra le diverse, difformi biografie dedicate a Lawrence ne spiccano – per autorevolezza dei biografi – due. La seconda, scritta da Richard Aldington, ‘imagista’, amico di Ezra Pound, marito di Hilda Doolittle, s’intitola Lawrence of Arabia: a Biographical Enquiry (1955). Aldington si era occupato, tra gli altri, di Pound, Eliot, D.H. Lawrence, Oscar Wilde, Jane Austen e Boccaccio; nel 1957 pubblicherà la biografia di Robert Louis Stevenson, Portrait of a Rebel. Un titolo buono per T.E.; la bio edita in Francia, invece, ha un titolo pervicacemente offensivo, Lawrence l’Imposteur. Aldington, in sostanza, con civettuolo cinismo, scrive che T.E. Lawrence è un mitomane, ne svela l’omosessualità radicale. Lo scandalo fu ovvio, voluminoso. Robert Graves, il grande poeta, già autore de La dea bianca e di Io, Claudio, scrisse una violenta stroncatura: “Più che un ritratto pur corrosivo di Lawrence, questo è l’autoritratto di un boia delle lettere, gonfio di livore, asmatico, malizioso, malato, ormai vecchio”.
Sapeva di cosa scriveva, Graves. Nel 1927, infatti, è lui a firmare la prima, vasta, completa biografia di Lawrence: pubblicata come Lawrence and Arabian Adventure per il mercato americano e come Lawrence and the Arabs per quello inglese, godrà di diverse ristampe, l’ultima, per Penguin, lo scorso anno (con una modesta introduzione di Dale Maharidge, che ‘attualizza’ l’inattuale T.E., invitandoci a leggerlo perché “emerga una nuova comprensione del Medio Oriente”, che è la sola ragione per cui non leggere T.E.). Il libro galvanizzerà la carriera letteraria di Graves: trentenne, reduce dalla Grande Guerra – a cui dedicherà un grande libro, Addio a tutto questo – era noto per lo più per la poesia, spigliata, dilagante, e per l’interesse, ancora vago, nei riguardi del mito. Nel 1926 insegnava letteratura inglese al Cairo, aveva conosciuto T.E. Lawrence a Oxford, cominciò a scrivergli. Deliri del caso: appena a Graves viene in mente di scrivere di Lawrence, l’antico demone dei deserti arabi ha obliato il proprio nome – si fa chiamare T.E. Shaw – e ha virato dall’Arabia all’India, di stanza nella stazione della RAF a Karachi, per lavori di bassa burocrazia (o meglio, di spionaggio). In verità, i rapporti epistolari tra i due, il poeta e l’avventuriero, sono costanti dal 1920 – nel 1922 T.E. scrive a Graves di James Joyce, “è l’irriconosciuto maestro della prossima scuola narrativa” –; si intensificano nel 1927, quando Lawrence fornisce all’amico diverse notizie per il suo studio biografico. Graves impiega pochi mesi a scrivere una biografia imponente, di quasi cinquecento pagine. Spesso brillante, a tratti compilativa, a volte minacciosa, di certo romanzesca. “Ho tentato, nel modo più diretto possibile, di dare l’idea di una personalità complessa fino all’esasperazione. Ho cercato di rendere chiara una vicenda altrimenti labirintica, nominando soltanto i personaggi necessari… Non ho fatto uso del metodo storico, ma ho fatto storia, per non ostacolare la lettura e la comprensione dei fatti. Ho sbozzato uno studio critico su ‘Lawrence’ – secondo il verdetto popolare (a cui ho dato credito, benché sia tentato di osteggiarlo) l’uomo inglese più interessante del secolo – piuttosto che sulla rivolta araba e sul ruolo che Inghilterra e Francia hanno giocato in Medio Oriente. Questi sono i miei limiti”.
Lawrence stimava Graves: la biografia non gli piacque. Entusiasta di chi gli rendeva onore, era tentato, ogni volta, di distruggere tutto ciò che lo riguardasse di persona. La biografia – ancora inedita in Italia, di cui qui presentiamo un brandello – ha avuto il merito di rinfocolare in Lawrence l’ardore narrativo: nel 1927 T.E. riprende gli appunti del suo addestramento con le reclute della RAF; costituiranno la base del suo libro più estremo, crudo, terribile, The Mint.
L’ultima lettera di T.E. a Graves è datata 4 febbraio 1935, inviata da un albergo di Bridlington, nello Yorkshire. Lawrence progetta barche per la RAF boats. Racconta di aver incontrato Alexander Korda, il regista, “voleva fare un film su di me: l’ho incontrato, gli ho detto che sono inflessibile, che mi ribellerò a questo progetto – è stato onesto e comprensivo – detesto l’idea di stare in celluloide”. Ha persistenti problemi economici. La lettera – “una lettera-balena”, lunghissima, quasi una confessione –, infine, censisce un fallimento. “Scrivi che sono cambiato dai tempi di Oxford. Hai ragione. Allora cercavo di scrivere, di diventare un artista (i Sette pilastri, infine, hanno la pretesa di un affresco narrativo, pur scritto con grande fatica), almeno di fingere di esserlo. La mia testa mirava a creare cose immateriali, inattingibili. Ma hai detto bene: ogni creazione è tangibile. Beh, ho fallito. Misurandomi con gente come te, ho capito che non sono della stessa pasta. Gli artisti mi eccitano e mi attraggono; mi portano a ciò che sono. Forse potrei essere un artista, ma un gorgo mi blocca, un freno. Se sapessi di cosa si tratta, potrei dirtelo e unirmi a voi. Ma non lo so. Per questo, ho cambiato direzione e sono entrato nella RAF, a sciogliere il groviglio orientale, un dovere che toccava a me solo, essendo in parte la causa di quel groviglio… In ogni caso, sono entrato nella RAF per servire a uno scopo meccanico: non come capo, ma come un ingranaggio della macchina. Non sono stato altro che un meccanico”. Morirà, in moto, tre mesi dopo.
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Ho scritto di Lawrence da quando lo conosco con quel nome, benché, come il resto dei suoi amici, per consuetudine, lo chiami “T.E.”: le iniziali, la sola cosa certa della sua esistenza. Nel 1923, quando fu arruolato come soldato semplice nel Royal Tank Corps, prese il nome di “T.E. Shaw”: ha conservato quel nome nella Royal Air Force. Nel 1922 era noto con il nome “Ross”: questi due non sono, ammette, gli unici pseudonimi con cui ha censito la sua labile identità. Ha scelto “Shaw” e “Ross” per la sua carriera nell’esercito pressoché a caso, scegliendo un cognome semplice, sufficientemente corto, tra le ultime posizioni dell’alfabeto. Il nome Lawrence lo disturbava – lo trova troppo lungo, pomposo, aulico – in particolare “Lawrence d’Arabia”, epiteto romantico, che ha un suono dalla grandezza troppo soave. Il ruolo da eroe non piace a Lawrence: più che altro, poiché una certa ingenuità giace sotto la coltre della frode, si sente inadatto con quel nome, un inetto. Chi legga per la prima volta di “Lawrence d’Arabia” crede a mala pena di incrociare un uomo autentico. Una buona scusa per scardinare il nome Lawrence è che esso non appartiene ad alcuna onorevole tradizione familiare. Mr. Lowell Thomas, che ha scritto un’insolente e sentimentale biografia di Lawrence, fa risalire quel cognome a una famiglia dell’Irlanda del Nord, e all’eroe dei celebri ‘Moti Indiani’ “che fece il suo dovere”: tutta un’invenzione. “Lawrence” è un nome di convenienza, fatuo, fasullo, come “Ross” o “Shaw”, e Lawrence non ha mai agito per compiere un dovere civico. Ogni gesto che ha compiuto tradisce la propria individualità, le proprie ragioni, che egli riteneva – senza dubbio – onorevoli, ma di certo non pubbliche, dovute, ovvie. Gli Arabi lo chiamavano “Aurans” o “Lurens”, ma il suo soprannome era “Emiro Dinamite”, per la sua energia, esplosiva. Il vecchio Auda, guida dei guerrieri, lo chiamava semplicemente “Il Demone”. […]
Da subito, il deserto ha conquistato Lawrence. La prima volta si è mosso lungo le pianure a Nord della Siria, per esaminare certe rovine romane, riutilizzate dai principi musulmani. Il materiale con cui erano costruite quelle mura non era impastato con acqua, ma con essenze profumate. Le sue guide, annusando l’aria, lo condussero tra le aule disfatte, dicendo, “Questo è gelsomino, questo è odore di rosa, qui c’è la violetta”. Alla fine, un arabo gli disse, “Vieni, senti la profondità di questo profumo”, e si diressero nell’aula centrale, si misero a bere con calma, levigati dal vento fermo, secco, del deserto. “Non ha bisogno di alcun profumo il vento”, disse l’arabo. I Beduini si riferiscono ai profumi, alla lussuria della vita: la potenza del deserto ha esaltato Lawrence rispetto alla meschinità del lavoro nella metropoli. Ha fatto a meno dei legami materiali, delle case, dei giardini, dei possedimenti superflui, dei gradi: ha scelto di installarsi nella libertà, all’ombra della salvezza e della morte.
Questo è ciò che, primariamente, credo, ha mosso Lawrence: una natura sdoppiata, conflittuale, contraddittoria. Da una parte il deserto, nudo, semplice, arido e ardito – o meglio, lo stato dell’io di cui il deserto è simbolo –, dall’altra l’Europa ultracivilizzata. L’io europeo veniva torturato dall’io beduino, il mondo era indagato da Lawrence con sguardo rude e manicheo, o bianco o nero (lussuria e castità, santità e peccato, onore e disgrazia), non come un paesaggio che muta, cangiante, con varie e variopinte tonalità d’ombra. D’altronde, il conflitto è tipico del fanatico che vive sempre sulla cresta delle proprie emozioni, che ama e odia violentemente, l’uomo che vive con eguale temerarietà il selvaggio e il razionale. Queste due anime hanno disintegrato Lawrence, relegandolo in un nichilismo allucinato, del quale egli si crede un falso dio.