Certo, uno può preferire altro. Potrebbe domandarsi, ad esempio, perché non pubblichino con la stessa microscopica attenzione John Ashbery, perché non esistano più in circolazione libri decisivi come Paterson di William Carlos Williams. Ma questo, ora, francamente, non c’entra. Perché quando un poeta arriva a 100 anni non puoi non preventivare l’intervento del divino – e il divino (che abbia faccia di clown, corpo di Buddha o occhi di falco) va semplicemente accolto.
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Lawrence Ferlinghetti compie 100 anni e si festeggia con un libro, Little Boy, che ricama sul torso della giovinezza – la giovinezza, in effetti, non ha affinità con la cronologia. Ferlinghetti è lo spioncino attraverso cui ammiriamo la letteratura del Novecento, è l’ultimo legame che ci resta – nasce il 24 marzo del 1919 – con un’era titanica: LF è più prossimo a Kafka che a Camilleri, sta al fianco di Thomas S. Eliot, solletica l’ugola di Dylan Thomas.
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“Nessun vivente come Ferlinghetti porta impressa nella mente la storia, l’esperienza personale, la statura degli scrittori del XX secolo. ‘Erano tutti folli poeti sbrindellati che vagabondavano insieme dormendo sotto i ponti del mondo’, scrive, ‘ho incontrato tutti i grandi poeti e gli scrittori e i grandi agitatori di coscienza’. Allen Ginsberg, Dylan Thomas, Samuel Beckett, William S. Burroughs e molti altri balzano dalle pagine del suo libro che quando parla di Don Chisciotte mi ci è voluto un momento per rendermi conto che non conoscesse pure il cavaliere solitario…”, scrive Ron Charles sul Washington Post, ragionando intorno a Little Boy.
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Fa 100 anni e parla del sé ragazzino; compie 100 anni e all’improvvido intervistatore del Guardian fa: “spero ancora nella rivoluzione, ma gli Stati Uniti non sono ancora pronti”. E poi, scansando il flirt con la fama – la fondazione di City Lights, a San Francisco, covo di idee e di beat e di libri, era il 1953, definito così: “eravamo giovani e folli; e non avevamo soldi” – Ferlinghetti piglia in contromano il giornalista. Soddisfatto della sua vita?, fa l’incauto. “Non userei mai una parola simile”, risponde il poeta. “Felice sarebbe meglio. Tranne quando cerchi di definire la felicità, allora sono guai”. Poi torna, centenario, alla rivoluzione. “Ci vorrebbe una nuova generazione non dedita a glorificare il sistema capitalista. Una generazione che non sia intrappolata nell’io, io, io”.
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Ferlinghetti non è tanto importante come poeta – se vi va, tra le tante cose: Sur ha appena tradotto Scoppi urla risate, Mondadori i Greatest poems, minimum fax l’opera poetica più nota, anno di grazia 1958, A Coney Island of the Mind – è importante perché rappresenta la poesia. Un secolo di poesia. La commozione sta nel fatto che – qui, almeno – si avverte l’odore della fine e non dell’infinito a cui la poesia rimanda.
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Tutti lo vogliono intervistare, ora. Come se la resistenza fosse una caratteristica della poesia. Si dice, di solito, che i poeti muoiono giovani, in realtà non invecchiano mai, sono eterni fanciulli. L’incredulità sta qui: 100 anni, per un poeta, sono sette, settanta, settecento vite.
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“Vidi Simone de Beauvoir e Sartre, a Parigi, in Saint-Germain. Ero uno studente – non mi sentivo di coinvolgere il signor Sartre in una conversazione letteraria”, dice LF nella lunga intervista alla Paris Review. A Parigi, dopo la Seconda guerra – LF è lì durante lo sbarco in Normandia, figlio di un bresciano, Carlo Ferlinghetti, cascato in Usa nel 1894, morto pochi mesi prima della nascita del poeta – Ferlinghetti si scopre poeta. Legge Cendrars – “avevo un libro sul suo viaggio sulla Transiberiana… pensavo di mettermi in viaggio con lui” – scrive “sotto l’influsso di Thomas S. Eliot e di Ezra Pound”, traduce Prévert. “Lo tradussi. Era semplice. Mi piaceva. Per molti anni City Lights fu il suo solo editore negli Stati Uniti”.
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Fernanda Pivano – che è morta dieci anni fa – traduce Ferlinghetti nel volume Poesia degli ultimi americani (Feltrinelli, 1964). Introducendo Scene italiane (1995) è lei a scorgere i legami tra Ferlinghetti e Prévert. “Il Prevert d’America. Il fondatore della prima libreria di soli tascabili. Il primo editore di poesia per soli volumi tascabili. L’editore di Allen Ginsberg e del suo clamoroso Howl. Il primo a distribuire i bottoni della campagna antinucleare esposti in una cesta vicino alla porta della libreria. Attivista del Fair Play for Cuba Committee. Anarchicopacifista. Da dove ha cominciato questo poeta, ora popolarissimo per la sua poesia e per le sue scelte di vita? Importanti invece mi sembrano tre fatti chiave della sua vita: il suo arruolamento nella Marina dove rimase fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale partecipando allo sbarco in Normandia, la frequentazione del Greenwich Village dove conobbe dei radicali pacifisti che lo attirarono nella ideologia di sinistra e la scoperta della poesia di Jacques Prevert, che il poeta lesse la prima volta su una tovaglia di carta a St. Brieuc nel 1944, come ha raccontato nell’introduzione a Paroles, la raccolta da lui tradotta e pubblicata nel 1954”.
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La storia di Ferlinghetti si lega indelebilmente – nonostante la sua autonomia – ai beat con la pubblicazione di Howl, il poema-manifesto di Allen Ginsberg. Edito nel 1956 dalla City Lights, portò alla confisca del volume da parte delle autorità dell’ordine ordinario e all’arresto dell’editore, LF. Così racconta la Pivano: “Tra la pubblicazione del primo e del secondo libro di Ferlinghetti accadde un fatto che lasciò una grossa impronta nella storia letteraria d’America: alludo alla pubblicazione dello Howl (Urlo) di Allen Ginsberg che uscì nell’ottobre 1956 come quarto volume della Pocket Series di Ferlinghetti. Ferlinghetti aveva sentito leggere la poesia dall’autore alla Gallery Six durante il reading ormai famoso del 5 ottobre 1955, organizzato da Ginsberg in favore del pittore Wally Hedrick e presentato da Rexroth, nel quale lessero Gary Snyder, Philip Lamantia; Michael McClure, Philip Whalen e Lew Welch mentre Kerouac si aggirava nella sala gremita di settantacinque persone offrendo vino al pubblico (più tardi descrisse la serata in The Dharma Bums (Vagabondi del Dharma), dicendo: “Seguii i poeti al reading della Gallery Six quella sera, che fu la sera della nascita della Rinascita poetica di san Francisco. C’erano tutti. Fu una notte pazza… Tutti urlavano Go! Go! Go! come in una jam session e Rexroth si asciugava le lacrime dalla felicità”). Quella sera Ferlinghetti mandò a Ginsberg un telegramma ricalcando quello che Ralph Waldo Emerson aveva mandato a Walt Whitman quando aveva ricevuto una copia dell’edizione 1855 di Leaves of Grass: “Ti saluto all’inizio di una grande carriera”. Ferlinghetti aggiunse: “Quando mi dai il manoscritto?”. Il libro uscì con una prefazione di William Carlos Williams e venne confiscato dal capo della dogana provocando l’arresto di Shig Murao che lo vendeva e di Ferlinghetti che l’aveva pubblicato: l’editore raccontò questa storia sulla Evergreen Review. Il processo che seguì l’arresto di Ferlinghetti e di Murao, mentre Ginsberg era in Marocco, mostrò una della più grosse prese di posizione letteraria di tutti i tempi d’America: in difesa di Ginsberg vennero a testimoniare fra gli altri Kenneth Rexroth e Mark Schorer e da tutta l’America arrivarono dichiarazioni di solidarietà, di Kenneth Patchen, James Laughlin, Barney Rossett, Thomas Parkinson, Robert Duncan e così via. Alla fine del processo circolavano diecimila copie di Howl e il libro e il suo editore erano diventati un caso nazionale: Ginsberg considerò sempre questo processo il suo più bel premio letterario”.
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Dunque, si può vivere, indomiti, da poeti lungo il profilo di un secolo.
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Il mondo è un bellissimo posto
per nascere
se non vi scoccia che la felicità
non sia sempre
questo gran divertimento
se non vi scoccia un pizzico d’inferno
ogni tanto
proprio quando tutto va alla grande
visto che anche in cielo
non cantano
da mattina a sera
Lawrence Ferlinghetti