16 Gennaio 2020

“Lawrence d’Arabia è morto. E non lo rimpiango”. Le relazioni pericolose tra Robert Graves e l’eroe dei “Sette pilastri della saggezza”

Chi forgiò il mito di Lawrence d’Arabia? Fu un suo contemporaneo e sodale, il caro Robert Graves che abbassò l’asticella mistica di T.E. riportandolo a terra dopo i Sette pilastri della saggezza. Nel 1928 se ne esce con un libretto divulgativo, Lawrence and the Arabs che semplifica, lima, scortica una figura che, com’è giusto che sia, rimane misteriosa anche ai nostri occhi. Anche adesso che disponiamo di biografie monumentali e di tutte le lettere del caso.

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Le lettere di Lawrence a Graves sono importanti per due motivi: primo, si incidono come il segno di un’intelligenza elastica. Secondo, ti sprofondano in abissi atemporali. Mi spiego: qui Lawrence va oltre la letteratura e cerca di portarsi Graves in questa discesa. Le sue lettere sono un potenziamento di Kafka, con uno strato appannato dal calore del deserto. Un’allucinazione baudelairiana senza orrori, in un deserto abitato dalla politica del suo tempo.

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Importa rilevare che Graves mise a disposizione del pubblico alcuni di questi documenti tre anni dopo la morte dell’amico nel libretto Faber&Faber Lawrence to his biographer (1939). Altri testi privati sono stati progressivamente messi in circolo, dopo debito acquisto dei diritti, dai biografi di Lawrence, tra i quali spicca Jeremy Wilson. Altro fatto saliente. Quando Lawrence decise di bruciarsi di nuovo – lo faceva in continuazione, donando poesie ad altri che poi le spacciavano per proprie, scordando sui treni le prime bozze dei Sette pilastri, entrando nella RAF e scrivendo sotto le coperte di notte – rinnegò la letteratura e fece avere al suo maggiore una copia della biografia che Graves gli aveva dedicato. Il volume era zeppo di note acri e fredde, puramente british. Per dire, sul frontespizio segna questa lapide all’amicizia: “Non prenda per oro colato il libro di Graves! In verità è realmente superficiale. Sarebbe difficile, scrivendo di una figura poco nota ma di una certa reputazione, evitare di drammatizzare un poco il proprio soggetto”. E via con altre trenta note a margine, infastidite.

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Del resto, quando nel 1922 Lawrence cambia nome ancora una volta e si arruola nella RAF, è tutto diverso dai suoi compagni di studio. Graves, che è più giovane di lui di sette anni, è ormai un professore affermato che ha fatto gavetta all’università del Cairo e sta sperimentando nuove forme poetiche sulla scia di Sassoon. Lawrence, invece, si limita a tradurre per i fatti suoi l’Odissea pubblicandola nel 1932. È vero che il vecchio uomo del deserto è vivo da qualche parte dentro di lui, ma i ricordi rischiano di disfarsi se non li si rievoca prendendo in mano la penna e scrivendo gli amici.  Cerca allora di tenere i nodi del passato in mano e scrive a Graves, dopo la pubblicazione dell’Odissea, spiegandogli che, pur non capendo le sue ultime poesie erotiche scritte insieme all’amante americana, ne conserva il ricordo come di un’amicizia fondamentale nella sua vita. (Oltre a quella, più congeniale, con Forster)

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Lawrence a Graves, da Plymouth, il 24 gennaio del 1933: “Vivo ogni giorno con gente vera e mi preoccupo solo di cose concrete. Il vecchio T.E. Lawrence che cercava se stesso e si divorava, quello di Oxford, e il vecchio T.E. Shaw dei Sette pilastri e dello Stampo, è morto. Né lo rimpiango. I miei ultimi dieci anni sono stati i migliori della mia vita. Penso che guarderò indietro al mio periodo 35-45 come all’epoca d’oro”. Poi smorza: “Certo, ci sono molte persone qui alla RAF con le quali vivere. E sono in gamba: ma è la vita meccanica: concreta, superficiale, quella di sempre: diversa dalla vecchia esaltazione che mi procurava la guerra. So che l’esaltazione è sepolta in me e ne sono tanto più felice: ma tre o quattro vecchi contatti rimangono, per lo meno, come memorie”.

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In una lettera da Karachi del 3 maggio 1927, dall’altrove in cui era rannicchiato per servizio, Lawrence scherza così con Graves: “Continuo a seguirti e il sono tra i tuoi tremila ascoltatori dei tuoi interventi alla BBC. Per il resto Rivolta nel deserto vende, come dicono, vende come le mele mature al mercato. Avessi qualche interesse nell’affare, ora girerei in Rolls Royce. Godo al solo pensiero che tu ora ti metta a vendere la tua copia dei Sette pilastri: tira al massimo sul prezzo, anzi sto già qui a mangiarmi le mani perché potevo dartene una copia farcita di note piccanti lungo i margini. Avrebbero rialzato di almeno dieci sterline, non trovi? (…) Sono contento delle novità delle tue ultime poesie, non sono tante ma sono poesie, non ripetizioni del Graves che conoscevamo. Sono dispiaciuto che queste donne ti feriscano, feriscono molto più di quanto noi uomini non ci possiamo fare a vicenda. Ma speriamo, dai. Che diceva Browning al riguardo? Troppo, al solito. E Swinburne con lui. Quindi sono in buona compagnia”.

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Fin qui l’amicizia e le reciproche devozioni. Ora un po’ di cattiveria, ecco i plagi. C’è una poesia di Graves, Whipperginny, che non è farina del suo sacco. Parte dai succhi cerebrali di Lawrence che un giorno a Cambridge aveva spiegato a Graves che i figli, prima di essere generati, inducono alla lascivia i loro genitori. Gli aveva espresso con precisione il concetto con alcuni versi che si sono dissolta nell’aria sottile. Graves recepì il messaggio e se ne impadronì con così:

Abbiamo spronato i nostri genitori a baciarsi
benché a forza di dubbi questi rimanessero gelidi –
il giorno con la sua luce non aveva energia per continuare
quel che il buio lussurioso, da solo, poté fare:
infine fummo ricongiunti con le loro carezze
nella fiamma della mezzanotte, uno da due.

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Nel 1959 Graves si trovò a dichiarare in una lettera privata che “senza Lawrence sarei rimasto come te a coltivar patate, non fosse stato per lui nel lontano 1926. Curioso, poi, che a partire dalla sua morte mi sia sempre arrivato qualcosa da lui: veniva ad aiutarmi quando le cose si facevano difficili”. In effetti, dopo Whipperginny Graves torna sul tema delle difficoltà parentali in Children of darkness. Un chiodo fisso. La storia era sempre quella che gli aveva spiegato Lawrence nel 1922 ad All Souls college.

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Brivido da una lettera di Lawrence alla sorella Pauline (perché le sorelle dei grandi, da Stendhal a Leopardi, portano sempre questo nome?): “Ma siamo poi sicuri che il mondo sarebbe un posto più pulito se fossimo morti o svaniti di mente? Lo sai, siamo tutti colpevoli allo stesso modo. Tu non esisteresti, io non esisterei, senza questa carnalità. Ogni cosa che abbia un grammo di carne è frutto di un momento in cui il pensiero lussurioso è entrato in azione, è uscito dalla capanna di Giobbe fragile come un nido e ha concepito: e non è vero che la colpa della nascita riposa, da qualche parte, sopra il bambino? Credo che siamo noi a portare in spalla i nostri genitori a concepirci, e che siano i bambini non nati a farci sentire quel prurito lì. Tutto un maledetto prurito” (27 marzo 1923).

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In realtà Lawrence era meglio di così e tra lui e Graves non era certo lui a peccare di snobismo. Qui sotto leggete una lettera di Lawrence dove mostra un sincero attaccamento al popolo senza ‘se’ e senza ‘ma’ e la cosa si spiega con le origini di Lawrence, era un figlio non riconosciuto. Com’è meschino al confronto l’apprendista Robert Graves: discendeva per parte materna dal celebre dotto tedesco von Ranke e nel frammento retrospettivo che vi propongo mostra una grettezza intollerabile perché si mette a strologare sulle possibili origini indie della sua prima moglie. Una perversione puramente anglosassone. Il testo sinora inedito in italiano è tratto dal quarto fascicolo di Encounter e il poeta si dimostra, purtroppo, un tipo più antipatico rispetto a quello dell’autobiografia Addio a tutto questo (1929 e 1958). Lo perdoneremo?

Andrea Bianchi

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Lawrence a Graves, Plymouth 5 maggio del 1929

Mio caro Robert (…)

parlandoti non entro comunque in affari che non sono miei, e tengo ben cara la mia libertà ché non mi sogno nemmeno di interferire: ma sei stato così drastico nelle tue condanne delle persone normali, nelle tue ultime scritture, al punto che mi faceva paura anche solo starti vicino. Vedi, so a tutta prova (per vicinanza fisica con gente normale nelle baracche di campo) quanto io sia uno normale; e siccome l’ordinarietà non è una sensazione del tutto piatta, sono stato indotto a cercare di ravvisare le mie somiglianze con le persone ordinarie: e di qui sono arrivato a vedere l’ordinario che c’è in tutti, o quasi. Ma laddove questo ti fa arrabbiare e condannare, io esco con un senso di simpatia per gli altri e mi sento loro consanguineo. Mi piacciono le tue cose perché mi sembra che tu sia portato frequentemente a dire quel che tutta la nostra generazione sta cercando di esprimere. Non c’è monopolio nel sentimento: vagonate di persone provano le tue stesse cose: ma solo in poche occasioni riescono a dirlo in modo decente. Gran cosa, il potere delle parole: ma non fa di una persona qualcosa di diverso dagli altri.

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Robert Graves, da Il ceppo misto dei Whithaker

Nel 1919 ero un tipo neurotico per aver passato tredici mesi in trincea sotto un prolungato fuoco nemico e avevo cominciato a “vedere cose” in Francia ancor prima che un frammento di granata di otto pollici mi attraversasse il polmone destro scaraventandomi a terra. All’epoca ero in licenza a Limerick che era una città spenta e percorsa da fantasmi di famiglia e quell’immagine di emigrato, mezzo indio dalla pelle annerita, appeso alla parete, concentrava le mie paure e ammorbidiva ai miei occhi sia il passato che il futuro – sì, doveva essere qualcosa del genere “uomo muscoloso passato da Irlanda a Stati Uniti del Sud”.

All’epoca ero sposato con Julia: avevo un rapporto strano con lei dovuto in parte, voglio credere, al suo sangue irlandese. Però anche lei quando vide quell’immagine a Limerick ne fu spaventata. C’era chi giurava che l’originale era ancora più terrificante fatta eccezione per un medico che dovesse prendere i ferri e operare su quella facies distrutta dalla sifilide. Un pensiero mi attraversò la testa: e se la madre di Julia che era stata negli USA si fosse mai imbattuta in quell’uomo muscoloso, una decade prima di noi, in qualche vecchia casa di New Orleans? (…)

Un certo Mr. Lemnowitz ci disse che quel tipo nel ritratto era George Whitaker ed era collegato ai fratelli Lafitte, una coppia di pirati che erano un bel mito locale. Per principio sospettai della cosa, stesso atteggiamento che ho nei confronti dei vari eroi locali come Paul Revere, Paul Jones e Paul Bunyan. E poi quale legame poteva mai esserci tra gli incroci del ceppo Whitaker e quell’uomo ritratto con la sua muscolatura da tartaruga nel basso Mississippi? A nessuno veniva in mente che qualche bianca desiderosa [sophisticated] di Natchez, Vicksburg, Vardaman, Baton Rouge, Yazoo City e New Orleans potesse andare a fare una bella visita clandestina in cerca di qualche nuovo brivido sessuale.

Robert Graves

*traduzione di Andrea Bianchi

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