Amore, o odio. Non esiste alternativa. A quanto pare la complessità del sentimento umano va a farsi benedire, quando si ha a che fare con personaggi che hanno segnato, con il pensiero o le opere, il loro tempo. Il caso di Oriana Fallaci è in tal senso paradigmatico, eppure al contempo unico. Difficilmente un dibattito di natura intellettuale, senza immediate ripercussioni politiche, potrà creare una simile polarizzazione. E, certamente, ancora più improbabile sarà che questi sentimenti verso la persona restino vivi a oltre dieci anni dalla morte. Eppure, ciò accade con l’autrice di Intervista con la Storia.
A dimostrazione di quanto detto, si segnala, proprio in questi giorni, l’uscita, in allegato con “Il Giornale”, di I nemici di Oriana. La Fallaci, l’islam e il politicamente corretto di Alessandro Gnocchi, caporedattore della sezione “Cultura” presso la medesima testata. L’autore, grande estimatore della giornalista, ha avuto modo di lavorare con lei durante gli ultimi anni della sua vita. L’abbiamo raggiunto telefonicamente per discutere del suo saggio ed estorcere qualche preziosa confidenza sull’Oriana nazionale.
Cosa disse la Fallaci di così controverso da attirare su di sé tanta inimicizia?
Andò a toccare alcuni temi che fecero imbestialire il mondo intellettuale di sinistra. L’immigrazione incontrollata innanzitutto e quella islamica in seconda battuta. Da quel momento, divenne un’emarginata. Purtroppo, ancora oggi, chi dice queste cose viene condannato e la peggiore condanna, come sappiamo e com’è nel caso di Oriana, è il silenzio.
Perché hai sentito la necessità di scrivere un testo sui nemici della Fallaci, qual è la motivazione?
La ragione sta nel fatto che il dibattito scatenato dal famoso articolo comparso sul “Corriere” è il primo e anche l’ultimo, in Italia, ad avere come oggetto il politicamente corretto. Questo in prima istanza. L’altro motivo per cui mi stava a cuore l’idea del libro è che, a mio avviso, la giornalista in questione è stata tanto criticata quanto poco letta dai suoi detrattori. Molte delle accuse che le vengono rivolte cadrebbero, nel momento in cui si prendessero effettivamente in mano i suoi testi. C’è poi una questione strettamente personale. Essendo stato il suo redattore ombra negli ultimi anni, mi sentivo in dovere di rendere conto su chi sia stata realmente: non una xenofoba, non una razzista, ma tutta un’altra cosa.
Come spieghi il plauso e l’ammirazione delle folle unito, parallelamente, al rifiuto dei salotti intellettuali?
Me lo spiego col fatto che lei aveva captato questa forte problematicità nella convivenza e nell’integrazione, che gli intellettuali si rifiutano di vedere. Il popolo, al contrario, ciò che descrive la Fallaci lo vive tutti i giorni. Basta essere un pendolare, su una linea regionale, e si afferrerà al volo da dove nasca l’esasperazione diffusa.
Vittorio Feltri, nella prefazione, ti definisce “un eroe” per essere riuscito a trattare con la Fallaci. Tu riveli di non averla mai incontrata, solo sentita con una certa frequenza. Hai per caso qualche aneddoto interessante da raccontare ai lettori, in merito alle tue frequentazioni telefoniche con Oriana?
Lavorare con la Fallaci era un incubo. Penso che questo ti verrebbe confermato da chiunque abbia avuto a che fare con lei. Molti hanno scritto che aveva un caratteraccio. È vero, ma non basta a descriverla. Fu il direttore Feltri a chiedermi di preparare i pezzi che lei ci regalava e che noi avevamo il compito di vendere come fossero estratti dai libri, quando invece si trattava di scritti ex novo. Era una correttrice infaticabile. Continuava a leggersi e rileggersi, a cambiare, modificare, eliminare e aggiungere, fino all’ultimo secondo disponibile. La nostra prima telefonata fu tragica. Io la chiamai e le dissi: “Buongiorno Signora, sono Gnocchi, di ‘Libero’. Mi ha dato il suo numero Vittorio Feltri. Come sta?”. La risposta fu: “Male, ho il cancro”. Questo è stato l’incipit, il resto fu un susseguirsi di bizzarrie. Per esempio, era estate e, dopo una giornata devastante di correzioni, arrivo a casa. Mi rilasso. Apro una bottiglia di vino. Accendo la televisione e mi dico: “Adesso basta, fino a domani mattina non voglio saperne più nulla”. Suona il telefono e, convinto che fosse mia moglie, rispondo. Era la Fallaci che mi fa: “Gnocchi, lì che ore sono?”. “Mezzanotte”. “Bene, ci sono altre tre ore per lavorare”. Lei, ovviamente, chiamava da New York, dove era primo pomeriggio.
I pezzi venivano dettati materialmente a te?
Io li componevo, prendendoli dai suoi testi, dopodiché lei li correggeva. Nello specifico, all’inizio mi diceva di cosa voleva trattare e indicava la base che avrei dovuto prendere come riferimento – per esempio, il terzo capitolo di La forza della ragione. Allora, io mi facevo buttare in pagina il capitolo e glielo spedivo. Lei lo stravolgeva da cima a fondo. Io lo controllavo e rispedivo tutto a New York. Dovevo però fare in modo che non si sapesse che era della Fallaci, perché lei non avrebbe potuto collaborare con altri essendo un’autrice Rizzoli. Ma, non sentendosi particolarmente apprezzata a il “Corriere”, aveva iniziato a scrivere anche per noi. La cosa buffa è che dovevo camuffare il testo con delle strisce bianche, in modo che non si capisse, dalla fotocopia, che era un estratto di “Libero”. Mi hanno raccontato poi che la persona che riceveva i fax sapeva perfettamente tutta la storia e quindi, quanto facevo, era sostanzialmente inutile.
Cosa funge da trait d’union tra quelle che vengono solitamente definite come la prima e la seconda Oriana?
Se consideriamo per esempio il film in due episodi realizzato dalla RAI, ci troviamo al cospetto di una prima Oriana, bella brava e buona, che porta avanti le giuste battaglie. Poi c’è quella di La rabbia e l’orgoglio che, invece, è “cattiva”, da dimenticare, emarginare. In realtà, un legame esiste e sta nel fatto che quello che lei ha scritto nella nota trilogia finale, già lo aveva detto nei suoi libri anteriori al 2001. Prendendo Insciallah, o i reportage per “L’Europeo” sul conflitto tra israeliani e palestinesi, si noterà che lì c’era già tutto. Non si trattava quindi di nuove critiche che dimostrerebbero un’involuzione nel suo pensiero. Si veda anche Il sesso inutile, nel quale narra la storia di un matrimonio islamico e di una sposa ragazzina che non ha mai conosciuto il suo futuro marito. Era già scritto tutto lì e non è affatto diverso da quanto sostenuto in La rabbia e l’orgoglio.
Perché i nemici di Oriana quasi mai sono andati oltre l’attacco personale, contestando realmente le sue tesi nel merito?
Perché temi come l’immigrazione clandestina e il fatto che quella islamica sia difficile, se non impossibile, da integrare, sono grandi tabù della Sinistra – basti guardare le attuali vicissitudini che vive Salvini. Stesso trattamento fu riservato a Giovanni Sartori, il politologo di Firenze, quando scrisse il suo libro sul pluralismo, in cui sosteneva che, affinché la nostra società rimanesse plurale, l’immigrazione dai paesi islamici era necessariamente da controllare. Se vogliamo mantenere una società aperta, insomma, è necessario integrare gli integrabili e gli immigrati che vengono dai paesi arabi non lo sono. Giudizio duro e forte, che però non piove dal nulla. Ci sono fior di pensatori, sia di destra che di sinistra, ad averlo sostenuto.
A tuo avviso, se esistono, quali sono i limiti della Fallaci?
Esistono senz’altro. Dal punto di vista contenutistico è indubbio che lei qualche volta sia poco precisa, riducendo per esempio al minimo i contributi della cultura araba su quella europea, quasi negandoli. Ovviamente, un accademico questa opinione la smonterebbe con facilità. Ma bisogna capire che quel che la Fallaci ha scritto è una predica e la predica ha come suo fine quello di smuovere le coscienze. La rabbia e l’orgoglio è rivolta agli italiani e agli europei che, dal suo punto di vista, vivono da dormienti, senza capire la dimensione del problema e il rischio che corrono, alla lunga, di essere spazzati via. Mostrare i piccoli errori del testo, o le incongruenze, non è quindi il modo giusto per rispondere a Oriana, a quel suo genere letterario che deve incendiare l’animo. Basti immaginare che, quando le sembrava di essere arrivata a un punto fermo, leggeva i suoi testi a voce alta a qualcuno, per saggiarne l’effetto. Se non la convinceva, andava avanti a correggere.
A livello stilistico, invece, individui delle carenze nella sua prosa? Io direi che la Fallaci è praticamente incomparabile, di molto superiore a ciò che si trova oggigiorno nei quotidiani.
Siamo, bisogna considerare, a un livello diverso rispetto a quello del normale articolo. Un suo pezzo era frutto di un mese di correzioni e riletture. Secondo me, se c’è un limite – non so se si possa dire così – è che ho sempre trovato la penultima stesura, quando me la leggeva, migliore di quella definitiva. Ma si tratta di una questione che attiene al gusto personale. Piuttosto, lavorare con lei era straordinario. Ti insegnava il rispetto per quello che scrivi con il suo esempio. Quando ho avuto a che fare con lei era già molto malata, eppure ci metteva una convinzione e una grinta che non riscontro nemmeno nei colleghi più giovani. Per lei l’articolo che stava scrivendo era tutto, era la sua vita e doveva essere perfetto. La Fallaci è sempre stata una scrittrice prestata al giornalismo.
Tra i politici attuali, chi ha fatto maggiormente tesoro dei suoi insegnamenti?
Nessuno. La risposta più ovvia sarebbe Salvini, ma ci sono delle differenze. La lotta della Fallaci contro l’immigrazione clandestina si inseriva nella cornice delle sue convinzioni liberali. I suoi riferimenti erano Tocqueville, Popper, e, in Italia, Sartori. Non credo si possa dire lo stesso di Salvini. Nel controllo dell’immigrazione, certo, quest’ultimo ha fatto delle scelte che Oriana avrebbe approvato – o, almeno, credo. Però il contesto intellettuale è completamente diverso.
Hai parlato dei nemici, ma chi è stato il migliore amico di Oriana in Italia?
Quando ho collaborato con lei, cioè negli ultimissimi anni, il migliore amico era senz’altro Feltri, che la conosceva da quasi quarant’anni. Infatti, è a lui che si rivolse quando capì che il “Corriere” la stava mettendo tra parentesi e decise così di collaborare con “Libero”. Poi le è stato molto amico Fisichella, il Cardinale. La sua segretaria personale tuttofare. Tra le persone che non si sentono mai nominare, ma che l’hanno veramente conosciuta bene, c’è Paolo Antonio Klun, allora redattore dedicato alla Rizzoli e che oggi è responsabile dell’ufficio stampa del Maggio Fiorentino.
Hai detto che la Fallaci è una scrittrice prestata al giornalismo. Esiste una continuità tra le due attività? È stata la scrittura narrativa a influenzarla nel giornalismo, o viceversa?
Il giornalismo ha un modo di esprimersi e la narrativa ne ha un altro: lei maneggiava entrambi i registri con estrema facilità. Sicuramente, prendendo il caso di Insciallah, a cui lavorò dopo aver fatto una lunghissima inchiesta in Israele, Libano e Palestina, si può tranquillamente dire che, quando si mise a scrivere, aveva un quadro della situazione di primissima mano. Certo, i reportage sul “L’Europeo” e il romanzo hanno un disegno diverso, ma i primi divennero la benzina da cui scaturì successivamente la sua narrativa.
Perché la Fallaci, pur considerandosi una esule, decise di tornare in Italia per morire?
Perché era rimasta legatissima alla sua città e alla famiglia. Non sarebbe potuta morire in un posto diverso. Poco prima era stata qui, a Milano. Abitava a casa di Feltri, ma all’ultimo chiese di essere accompagnata nella sua Firenze, luogo da lei tanto amato pur senza essere ricambiata. Perché, se c’è un posto in cui la Fallaci non ha raccolto quello che avrebbe dovuto, è proprio la sua città. E ciò la faceva soffrire, terribilmente.
Matteo Fais