Il poeta giovane muore sempre – deve morire, crisalide lirica. I poeti che sopravvivono ai loro vent’anni gettano la giovinezza nel futuro, quella corazza d’oro. Altri, appunto, muoiono. Semmai, nel cuore – diventano adulti – altrimenti, nel corpo. Isidore Ducasse era morto il 24 novembre del 1870, in un albergo, in via del Faubourg-Montmartre, al 7. Aveva 24 anni; le sue poesie erano state stampate ma l’editore aveva paura di metterle in commercio.
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Forse il poeta nasce morto alla società. Nel caso: Isidore nasce a Montevideo, fetta di Parigi nell’estremismo americano, dove il giaguaro alligna sui tetti dei café che imitano le mode d’Europa. Tra l’altro, muta il nome, maneggiando il “Latréaumont” di Eugène Sue, di cui amava i caratteri caravaggeschi, il grottesco (“Un gigante, spadaccino sarcastico, sorta di crudele buffone, mostruosità morale e fisica”, detta l’intro al romanzo di Sue). Un amico ricorda Isidore “triste e silenzioso e come ripiegato su se stesso”, eppure, scattante nel sogno: “mi parlò con una certa animazione dei paesi d’oltremare in cui si faceva una vita libera e felice”.
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Se Rimbaud è l’angelo bianco della poesia europea, Lautréamont, che stampa il “Maldoror” nel 1869, ne è lo speculare oscuro, ciò che morde dal retro della notte. Non credo sia un caso che il primo canto del “Maldoror” esca muto, mutilato del nome dell’autore. Così forte l’opera da mettere a tacere poeta e pseudonimo.
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Non dimenticare che Saint-John Perse viene dall’altro mondo come Lautréamont: entrambi entrano in una giungla del linguaggio, nuova, per eccesso di verde ed entità di profumi. La lingua deve passare al vaglio della foresta. Mentre i posteri fanno indossare a Lautréamont il giubbino avanguardista – i posteri sono sempre traditori –, Julien Gracq capisce che quella poesia è “animalità istintiva”, “brutale collisione tra esseri d’aggressione”. Si tratta di tornare a dipingere le rocce, a scrivere sulle ossa.
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Lautréamont è un poeta che ha attraversato l’oceano – i suoi lo spediscono in Francia a studiare e lì depone la sua rabbia. “Vecchio oceano, le tue acque sono amare. Esattamente lo stesso sapore del fiele distillato dalla critica sulle belle arti, sulle scienze, su tutto. Se qualcuno ha genio, lo fanno passare per idiota… Vecchio oceano, grande scapolo, quando percorri la solenne solitudine dei tuoi regni flemmatici, t’inorgoglisci a buon diritto della tua magnificenza nativa…”. Lautréamont non è ingenuo, gigante, piuttosto – per questo lo sguardo è ostile, obliquo. Egli scrive contro l’umanità, contro l’umano.
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C’è, piuttosto, passione per lo sconosciuto, il passante, per ciò che resta gravido di possibilità, che permane una promessa inesausta, mai esaudita. “Da quel giorno, fanciulla dall’immaginazione inquieta e precoce, tu non hai più rivisto nel vicolo il giovane misterioso che batteva penosamente, coi sandali pesanti, il selciato tortuoso dei quadrivi. L’apparizione di quella cometa infuocata non brillerà mai più, come un triste argomento di curiosità fanatica, sulla facciata della tua osservazione delusa”. Appena tocchi un uomo, esso scompare, svelandosi cespuglio di nervi, nevrosi.
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Al poeta, che ha tutto, tutto deve essere sottratto. Gli è sottratta l’opera – non pubblicherà – oppure la certezza – viene accompagnato tra manicomi e luoghi di ristoro mentale –, gli è tolto un ‘ruolo’ nella società o si toglie la vita. Non possiamo risolvere questo vuoto, di brutale risonanza, con la malia esistenziale – il poeta trascende l’esistente. Semplicemente, non s’è visto il poeta smerciare fatture e applausi: pratica, comunque, con le foglie, le fiere.
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Per questo, il poeta, antagonista alla sua opera, finisce per abiurarla: per consentire la vendita del libro in Belgio e Svizzera, Lautréamont – pardon, Ducasse – scrive a Verboeckhoven, storpiando l’interpretazione dei “Canti”. Camuffare il giaguaro da agnello: ha ragione!
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Raccolgo una edizione dei Canti di Maldoror, Einaudi 1989, cura Ivos Margoni, per ‘Gli struzzi’. La trovo per caso, nella casa in cui sono ospite – un provvidenziale temporale scava tra le prime ore del giorno, l’alba è qualcuno a cui abbiano spaccato il petto con un’ascia. Quando piove, chissà perché, mi sento re. (d.b.)
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Al Signor Verboeckhoven
Parigi, 23 ottobre – Mi lasci anzitutto spiegarle la mia situazione. Ho cantato il male come hanno fatto Mickiewicz, Byron, Milton, Southey, A. de Musset, Baudelaire ecc. Naturalmente, ho acuito un po’ il diapason per far del nuovo nel senso di quella letteratura sublime che canta la disperazione solo per opprimere il lettore, e fargli desiderare il bene per rimedio. Così dunque, in fin dei conti, si canta sempre il bene, con un metodo più filosofico, però, e meno ingenuo di quello della vecchia scuola, di cui Victor Hugo e qualche altro sono i solo rappresentanti ancora in vita. Venda pure, io non glielo impedisco: che cosa devo fare per questo? Mi dica le sue condizioni… Così, dunque, la morale della fine non è ancora detta. Eppure, c’è già un immenso dolore ad ogni pagina. È il male questo? No, di certo. Gliene sarò grato, perché, se la critica ne parlasse bene, potrei, nelle edizioni seguenti, tagliare qualche brano poco potente…
Mi creda Suo, I. Ducasse
*In copertina: Odilon Redon, “Omaggio a Goja”, 1885 ca.