“Mazzarrona” è un quartiere alla periferia di Siracusa. Si chiama così l’ultimo romanzo di Veronica Tomassini. “Romanzo che io definisco della giovinezza”, mi scrive Veronica. E specifica. “Anni 80, la piazza, un gruppo di ragazzi che chiamo compagni, tossici, si fanno di eroina. Anni che io chiamo deserti”. Mi allega anche una musica, per capire l’atmosfera, il contesto, questa, di Tanita Tikaram. Le parole urtano, urticano, hanno palpebre infuocate, visioni liriche che c’entrano poco – evviva – con gli anagrammi dei sofferenti di Pier Vittorio Tondelli. C’è una sonorità senza appello, che reclama tigri e timori. Veronica Tomassini la leggete sul Fatto Quotidiano, la leggete qui (sottoscrivo con i polsi e le caviglie: “Quale sarà l’argomento trattato dalla pensatrice Avallone? Quale dibattito scatenerà? O Veronesi? Non doveva salpare a bordo di una nave con il collega Saviano? Le loro rivoluzioni si zittiscono presto, dissidi di mestieranti della parola. L’impegno civile certo e letterario. Mi viene l’orticaria”) soprattutto, leggete i suoi libri, L’altro addio (Marsilio, 2017), Christiane deve morire (Gaffi, 2014), Sangue di cane (Laurana, 2010). Per entrare in sintonia con la narrativa di Veronica, qui potete leggere l’intervista che le ha fatto Gianluca Barbera pubblicata su Pangea. (d.b.)
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Il pomeriggio era umido e freddo alle case. I treni attraversavano la galleria, lasciandoci in virtù un gemito denso di attese, qualcosa che attenesse al futuro, al dopo, alla vita che smaccatamente abbandonava la sua blanda germinazione in quel luogo di castigo. Alle case era sempre un sonno minaccioso a ingannare lo sguardo. Le luci non erano mai abbastanza prestanti per destarci e se riuscivano diventavano buio, notte, pece. La galleria alla fine dei binari segnava il confine verso un mondo nuovo, generoso. Era l’immagine che mi consolava in fondo, alla fine della giornata, mi toglieva dalle spalle magre e aguzze i pesi della mia inutile sostanza. Procedevo come tutti gli automi alle case, procedevo al buio, o chiudendo le palpebre per difendermi dalla volgarità. Perché questo vedevo, questo era per me. Non c’era l’indulgenza del giusto che riflettesse e osservasse la rovina degli altri, il palpito del perdono, il macero in cui affonda i suoi passi incerti. Oltre le siepi e il sicomoro, scivolando giù verso il mare, lungo la brumosa parete di argilla, fino alla rada e ai ghiaioni sulla punta estrema della rena invernale, era solo un sonno ingannevole, il buio, la pece.
Fumavo considerando la galleria, il confine verso il mondo nuovo e generoso. Non sentivo nemmeno Massimo alle mie spalle. Forse mi guardava? Guardava il mio profilo, timido e insicuro per guardare i miei occhi o pigro e avvilente per amarmi una volta tanto. Massimo era mesto più degli altri giorni. Avevamo saputo della morte di un tale. Aveva provato la roba, se n’era fatta troppa. Si era chiuso in bagno. La madre lo chiamava. Lui dava di stomaco. È morto così. Questo mi ricordo. Massimo non piangeva mai. Anestetizzato a tutti i lutti, tolto quello di suo padre, e il suo stesso, protratto con indolenza fino a consumarlo davvero. Mi girai e lo trovai a guardarmi, gli occhi lucidi, le pupille strette come la testa di uno spillo. Che ore sono? Chiesi. Lui rispose metodicamente, il tono basso, rauco. Sono le sei. Oltre le siepi e i rami del sicomoro si spargeva la notte, la pece. Sono le sei e non ci siamo dati nemmeno un bacio. Dissi. Lo abbracciai, lui tremava. Era il suo costato breve a commuovermi. La camicia bianca sottile non bastava a proteggerlo dal freddo. Ma tremava per la rota. Non per il freddo. Non per me. Poi di colpo dissi: ti salverò. Mi fissava serio. Sorrise. Era così strano vederlo sorridere. Quando sorrideva, Mazzarrona splendeva, oltre la siepe, il sicomoro, si spargeva la luce. Così ci baciammo e per un secondo avevamo raggiunto il confine, la galleria, il treno senza i gemiti simili a un lascito dispettoso. Noi eravamo dentro finalmente qualcosa di buono. L’amore era qualcosa di buono. (continua)
Veronica Tomassini
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