Alla fine, la verità gliela estorco. “Ho nostalgia di Milano, quando torno a Milano mi sento rinascere”. Certo che se lo dice uno che ha fatto l’elogio della provincia… La cito: “Quel che resta immutato, e forse immutabile, è il fascino della provincia, luogo dell’anima ancor prima che geografico; con le sue storie tramandate di generazione in generazione, le sue virtù esibite, i suoi vizi nascosti, i suoi intrighi amorosi, le sue apparentemente modeste ambizioni”. Tutte bugie da scafato giornalista avvezzo all’aggettivo giusto? “Ora ti spiego”.
Rewind. Michele Brambilla, che quest’anno, il giorno dei Santi, fa 60 anni, è tra i giornalisti più acuti d’Italia. Pratica l’arte nel quotidiano più importante d’Italia, il Corriere della Sera, diventa vicedirettore di Libero, de il Giornale e poi de La Stampa. Saggista efficace, tagliente, preparato, nel 1991 firma il libro di cui parlarono tutti, L’Eskimo in redazione (per Ares), radiosamente controcorrente, che raccontava come “per una decina d’anni, diciamo dal 1968 in poi, l’estremismo di sinistra poté godere della benevolenza, del consenso, e a volte della complicità della maggior parte dei giornali e del mondo della cultura ufficiale”. Per altro, a proposito di nuotare contro corrente, nel 1994, per Rizzoli, pubblica Dieci anni di illusioni. Storia del Sessantotto, che andrebbe riletto oggi, nell’anno-anniversario (“non ho un giudizio positivo sul Sessantotto”, mi ribadisce oggi Brambilla, “il Sessantotto ha rivoluzionato i costumi occidentali, ma non nel modo in cui pensavano i leader dei movimenti di allora: oggi, infatti, abbiamo una società più competitiva e spietata nei confronti dei poveri, un capitalismo senza freni, una esplosione del consumismo e una caduta radicale dei valori”). L’ultimo libro di Brambilla, dal titolo voluttuoso, Non ci sono più i cornuti di una volta (La Vita Felice 2018, pp.74, euro 8,00), è una raccolta di reportage firmati per La Stampa, ed è, appunto, un elogio spinto della provincia. “Era il 2012, con Mario Calabresi ragionavamo su una serie di articoli estivi. Proposi di parlare della provincia, in contrasto a un sistema mediatico che racconta soltanto l’Italia di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo. Ma l’Italia è fatta di tanti campanili. Così, ho scelto sei luoghi simbolo, per vedere come è cambiata la stessa provincia narrata anni fa da registi e da scrittori…”. Brambilla, che la provincia la conosce bene, anche giornalisticamente – nel 2002 è direttore de La Provincia, dal 2015 è direttore della Gazzetta di Parma – sviscera, così, la Rimini felliniana, “La Parma de La Califfa”, “La Bassa bergamasca de L’albero degli zoccoli”, poi la Luino nell’immaginario di Piero Chiara, la Treviso sotto l’occhio di Pietro Germi (Signore e Signori), il Vercellese iconico di Riso amaro. Tutti luoghi del Nord, “perché sono quelli che conosco di più”, e perché sono quelli, forse, narrati di meno – sui prodigi e i deliri della provincia ‘a Sud’ è piena la letteratura, non solo giornalistica. Il risultato antropologico, al di là di quello letterario – i ‘pezzi’ sono sfiziosi, godibili, d’altronde vengono presentati come “racconti di provincia” – è che cambiando la provincia resta immutabilmente se stessa. Nel bene e nel male. L’esempio più clamoroso, forse, è quello di Rimini, “che non è più quella di Fellini, ovviamente. Rimini ha passato tante stagioni, quella del turismo di massa, delle discoteche, ora c’è quella della Fiera. Rimini cambia, ma restano i riminesi, un popolo speciale e particolare, il cui spirito di accoglienza non è una leggenda”. La Treviso dei cornuti, però, è cambiata. “Certo. Nel senso che oggi le corna vengono esibite. Però resta la stessa atmosfera di provincia, dove ci si annoia ed esplodono i pettegolezzi”.
Torno al punto da cui siamo partiti. Esplicitandolo con una osservazione. Fellini amava tanto la provincia che si è ricostruito Rimini a Cinecittà, pur di non metterci piede… Anche lei, dirige uno storico quotidiano di provincia e ha nostalgia della città. “Le rispondo con un esempio. Due anni fa viene Fiorello al Teatro Regio di Parma, con L’ora del rosario. Lo vado a vedere. Per introdurre lo spettacolo, Fiorello proietta un video girato il giorno prima a Parma. Nel video lo showman blocca una signora, ‘scusi, lei è una parmense?’. Non l’avesse mai detto. La signora gli fa, ‘no, io sono parmigiana!’. Poi, a richiesta, spiega, agitando il braccio, che ‘i parmensi’ sono quelli che stanno in provincia, mentre ‘i parmigiani’ sono i cittadini di Parma. Vede, il mondo è vasto, ma a un ‘parmigiano’ basta la sua città, Parma. Questa è la provincia: la classe borghese che vive di cene al Rotary, di attestati, di convegni con la fotografia sui giornali locali, di riconoscimenti legati a un prestigio limitato alla propria città”. Insomma, aveva ragione Fellini a volersene andare dalla claustrofobica Rimini. “La provincia esprime talenti straordinari e selvatici. Che poi hanno bisogno di essere riconosciuti dalla grande città. Giovannino Guareschi, che è stato il cantore di una certa provincia, diventa Guareschi a Milano; Piero Chiara non sarebbe tale se non avesse incontrato sulla sua via Vittorio Sereni. Pensi anche al giornalismo. La provincia partorisce autentici giganti come Indro Montanelli e Enzo Biagi, che poi trovano successo, inevitabilmente, a Milano e a Roma”. Stringendo. Da direttore di un grande quotidiano di provincia, che consiglio dà ai suoi giornalisti? “Di andarsene. Di andare a Milano, l’unica città italiana, oggi, con un passo internazionale. La provincia è meravigliosa, ma può diventare una gabbia se ci si innamora troppo dei suoi limiti, se si pensa che possa bastare a se stessa. La provincia come una specie di religione assoluta è meschina, ma se si spalanca al resto del Paese è una risorsa formidabile”. In fondo, ha ragione Brambilla, la provincia è lo specchio della nostra anima: amiamo i pigri pettegolezzi e il tedio meridiano, ma vogliamo, con la stessa forza, la lussuria dei grattacieli, il ronzio dell’eccitazione accecante.