Riprendiamo da Bassifondi, la commedia scritta da Maksim Gorkij, della quale abbiamo già avuto modo di parlare in un precedente articolo, per focalizzarci sul personaggio di Satin.
Come abbiamo già detto, Bassifondi è incentrato sui dialoghi di un gruppo di persone, tutte più o meno accomunate dalla miseria, dalla malattia, dall’ubriachezza, dalla violenza e dalla delinquenza, che si trovano a vivere in un dormitorio pubblico. Tra questi personaggi c’è Satin, ex telegrafista, ex galeotto: finisce in prigione per omicidio, tentando di difendere l’onore di sua sorella. Dopo la prigione gli si chiudono tutte le porte e diventa baro di carte. Satin è un truffatore, un ladro, ma sembra ugualmente conservare una dignità e una consapevolezza di sé che va ben oltre il sano buon senso: “ci sono molti che mentono per pietà del prossimo. […] Ci sono delle bugie così consolanti, così pietose… […] Io la conosco, la bugia… Chi ha un cuore debole, o chi è costretto a vivere dell’altrui pane, ha bisogno della menzogna… a quelli infonde coraggio, a questi dà un mantelluccio…Chi è padrone di sé però, chi è indipendente e non vive degli altrui sudori… che bisogno ha della menzogna? La menzogna è la religione dei servi e dei padroni. La verità è il dio degli uomini liberi!”. A differenza di Luka, il personaggio di cui abbiamo già parlato, che si serve della gentile menzogna e della pietà, a scopi umanitari, Satin inneggia alla verità più cruda, quella che non conosce compromessi di sorta. A differenza di Luka, non compatisce “che te ne viene se io m’impietosisco per te?”. Satin non compatisce il prossimo perché sa che così facendo lo relegherebbe in uno stato di schiavitù, non lo stimerebbe come persona unica e grande. Lo lascerebbe sguazzare nella sua impotenza.
Satin, a differenza di Luka, crede nell’uomo, nell’uomo libero. Chi è per Satin l’uomo libero? Sicuramente qualcuno che non si sottomette alla menzogna, più accomodante. Né qualcuno che si adegua alle circostanze penose o che si sottrae alla lotta per cambiare le stesse. Satin in quel dormitorio maleodorante, in mezzo ai suoi “coinquilini”, non si lamenta, ma nemmeno tace. Le sue parole si rivoltano contro una certa passività di fondo che porta l’uomo ad adagiarsi o a sottomettersi alle circostanze quando si ritrova ad aver perso tutto. Dalle parole di Satin sembra emergere chiaramente una presa di posizione sulla realtà, una presa di posizione piuttosto sovversiva, che riassumerei così: no alle situazioni in cui è più accomodante sperare, (come no? Il sano e buon sacrificio prima o poi verrà ricompensato!), mai adattarsi alla miseria, alla malattia, al dolore (suvvia, invece è possibile adattarsi al dolore se si è felici dentro!), non scegliere il lavoro fisico, (come no? il lavoro nobilita, basta saper essere umili!), non scegliere affatto di lavorare (ma che sciocchezza! Chi non lavora non mangia!). Satin sceglie la propria autoaffermazione, come uomo libero e a proposito del lavoro dice: “Lavoro! Fa in modo che il lavoro mi procuri un po’ di piacere…e forse allora lavorerò anch’io… Quando il lavoro è un piacere, la vita è bella! …ma quando il lavoro è forzato, la vita è una schiavitù”. Sebbene possano suonare come le parole di uno scansafatiche, peraltro presuntuoso, in realtà sono le parole di una persona dalle immense capacità creative. Chiunque ami la vita e voglia plasmarla, sfuggirebbe da situazioni limitanti, come appunto il lavoro forzato (per i russi il concetto è culturalmente più semplice: la parola stessa “lavoro”, in russo rabota, ha una radice, rab, che significa “schiavo”).
Satin è in un certo senso incurante della vita, perché del vivere fa parte anche il rischio: “Io sono un… ex condannato, un omicida, un baro… sicuro! Quando passo per la via la gente mi guarda come se fossi il peggior malfattore… mi vengono davanti, si voltano per fissarmi… e spesso mi dicono: Mascalzone! Canaglia! Perché non lavori?… Lavorare? A che scopo? Per sfamarmi? (ride). Io ho sempre disprezzato gli uomini che si preoccupano troppo di sfamarsi. Non ne viene niente…. niente! La cosa principale è l’uomo! L’uomo sta più in alto dello stomaco pieno!” Nell’era dei supermercati, queste parole possono farci sorridere. Vengono oltretutto pronunciate, da un truffatore, da uno che ha toccato il fondo. Gorkij stesso non era da meno, anche lui aveva toccato il fondo; la sua esistenza prima di diventare scrittore, era stata un susseguirsi di perdite e di forme di schiavismo legate al lavoro, arrivando, nemmeno ventenne, persino al tentato suicidio. Si potrebbe pensare sia questo il grido di rabbia del povero, dell’emarginato, dell’oppresso che vuole riscattarsi? No, è semplicemente una forma di denuncia contro coloro che mettono al primo posto il bere, il fumare, il mangiare, il digerire, il conservarsi o il riprodursi, “che sono usciti dalla vita e per la vita”, come direbbe Céline.
Si tratta di avere a cuore la propria persona, intesa come creatura unica, irripetibile e indipendente da qualsiasi tipo di congegno, sistema, vincolo, morale che gli neghi il potere di essere ciò che vuole relativamente alla sua esigenza di vita, al suo desiderio di felicità, e anche, sì, al suo desiderio di potenza, di coraggio.
Perché Gorkij nell’acclamare la grandezza dell’uomo avrebbe fatto parlare un ladro? Gorkij aveva parecchio rispetto per i ladri. Questo tipo di attività era per lui una forma d’arte. Perché? Semplicemente perché ha a che fare con l’indipendenza dell’uomo libero, che plasma la realtà, che inventa, che scopre, che gioca, che usa il proprio ingegno.
Va detto che questa forma di libertà, di indipendenza, di autoaffermazione, per Gorkij non significa dominio sull’altro, o libero sfogo all’istinto. Poco prima della rivoluzione infatti, quando più di ogni altra cosa era cara l’autoaffermazione del singolo, dei gruppi, delle categorie, Gorkij ha vissuto in prima persona lo scempio che si consumava nelle strade quando contadini, soldati e operai trucidavano, in nome della libertà e della dignità dell’uomo, chi per secoli li aveva oppressi: nobili, ufficiali, padroni. Fu questo per lui motivo di dura condanna: “una rivoluzione è tale soltanto quando sorge come espressione naturale e potente della forza creatrice del popolo. Se invece la rivoluzione è semplicemente l’esplosione degli istinti che il popolo ha accumulato sotto la schiavitù e l’oppressione, allora non è una rivoluzione ma è soltanto una rivolta”. Questo per dire che Gorkij attraverso Satin, attraverso parole come “La cosa principale è l’uomo”, vuole sottolineare la forza creatrice dell’uomo non il suo illimitato bacino interiore fatto di sentimenti grandi ma anche di istinto.
Ovviando dal tema dominante che è quello di estrapolare il significato di questa commedia, mi viene in mente un detto popolare in Barbagia, secondo cui “chi non ruba non è un uomo”. Questa affermazione, seppur inconsueta, è spiegabile attraverso la filosofia del superuomo: l’uomo libero è fiero, è guerriero, è fedele alla terra, ai suoi istinti, ai bisogni del corpo e crea da se stesso i suoi valori. Fuori dalla morale giudicante, la vita appare come qualcosa di molto più vicino, concreto e urgente. “L’uomo che non ruba non è un uomo” sostiene perfettamente la tesi gorkjana secondo la quale prima di ogni altra cosa viene l’uomo e poi tutto il resto.
Isabella Serra