Liberté, Égalité, Fraternité!
Il secondo termine del motto repubblicano, la parola “Égalité”, esprime che la legge è uguale per tutti e che le differenze per nascita o condizione sociale vengono abolite; inoltre, che ognuno ha il dovere di contribuire alle spese dello Stato in proporzione a quanto possiede. Il principio teoricamente era già presente nel concetto di Stato di diritto ma con la Rivoluzione Francese venne praticamente messo in atto.
L’uguaglianza è un principio di diritto secondo il quale il legislatore ha il dovere di garantire l’uguaglianza dei diritti tra i cittadini. Tuttavia, il Consiglio costituzionale ne Le principe d’égalité ha allentato tale concetto “ammettendo modulazioni quando queste siano basate su criteri oggettivi e razionali rispetto all’obiettivo perseguito dal legislatore e che tale obiettivo non sia esso stesso o contrario alla Costituzione, né viziato da errore manifesto di valutazione”.
Krzysztof Kieślowski, nell’ambito della cosiddetta Trilogia dei Colori, con Film bianco (1994),dopo aver affrontato la Libertà (Film blu) ed in attesa della Fraternità (Film rosso),pone l’Uguaglianza più come obiettivo, anelito, che come premessa necessaria al vivere umano. Suggerisce il regista:
“Film bianco parla di una persona molto sensibile. Ci è noto il concetto di ‘uguaglianza’, il fatto che tutti noi vogliamo essere uguali. Ma penso che questo non sia assolutamente vero. Penso che nessuno voglia davvero essere uguale. Tutti vogliono essere più uguali, e questo è ciò di cui parla il film”.
È il desiderio, destinato a colare a picco, di rifondare una parità in origine tradita, ciò che imprime l’impulso al protagonista maschile, Karol, verso una vera e propria mutazione esistenziale che lo condurrà, in conclusione, a rovesciare interamente il suo destino e quello dell’ex moglie, Dominique: una sete di giustizia in oscillazione con la sete di vendetta, fino al punto di far parte, entrambe, dello stesso plesso d’aspirazione, lecita e illecita, come elementi interscambiabili o complanari.
Vicenda semplice e desolata, texture ironica, grottesca, parodistica sui conflitti e le idiosincrasie di un’umanità che ferisce ed è ferita, per una commedia realistica permeata da sottile pessimismo scevro di retorica e metafisico; humour contaminato con amare riflessioni sulle anomalie del sistema capitalistico e sulle loro ricadute pratiche ed etiche nei rapporti personali.
Karol, Zbigniew Zamachowski, un parrucchiere polacco, è costretto al divorzio dalla moglie Dominique, Julie Delpy, volto bianco d’un orgasmo abbagliato da un flash, femmineo viscerale ed animalesco. Karol affronta un processo intentatogli per impotenza dalla coniuge e fuori dal tribunale ella gli recapita un grosso baule con all’interno tutti i suoi affetti: gli attestati di parrucchiere e gli strumenti del mestiere, ovvero un pettine ed una forbice. Una valigia: annuncio di nuova vita e fonte di nuove opportunità o reliquiario di un passato ancora presente ma che non ha sbocchi nel futuro?
Una valigia-bara consegnatagli da Dominique con la mano sollevata e le punte delle dita ripiegate all’interno così come artigli: un saluto dal sapore di graffio.
Karol si ritrova così privo di un tetto, con il denaro in banca bloccato ed obbligato a mendicare nella metro di Parigi. Una stazione deserta, ma pur sempre crocevia di vite vecchie e nuove: una possibilità di riscatto?
Un giorno l’uomo si imbatte in un connazionale, Mikolaj, Janusz Gajos, che gli avanza l’idea di fare ritorno in Polonia di nascosto, viaggiando dentro un baule. Karol accetta l’avventura picaresca ma, laddove il baule viene rubato, si ritrova ad essere picchiato e gettato in una discarica: un volto di luce bianca, insieme algida e calda di un ometto tanto goffo quanto risoluto.
Una cosa, però, è certa: Karol è riuscito ad arrivare a Varsavia sano e salvo.
Qui riprende a lavorare come parrucchiere e riesce a costruirsi un impero commerciale, diventando uomo ricco e potente, non dimenticando, però, sua moglie e le umiliazioni subite: speculazioni immobiliari, un suicidio per interposta persona, un falso decesso con salma contraffatta ed un imbroglio demoniaco per restaurare quell’uguaglianza infranta, tutti componenti di un nuovo status economico e sociale guadagnato con una “disinvoltura” che sconfina nell’illecito.
Ecco il nuovo Karol, capitalista selvaggio, che mette al sicuro la propria incolumità e riesce a imbrogliare i piccoli pescecani rampanti di cui si era fatto servile scherano. In fondo, il dolore non è destino inesorabile e stato dell’essere cui soggiacere passivamente, ma è pedana di lancio per una ribellione o rivolta che libera le sue peggiori tossine: amour fou, totale, asfissiante, ossessivo.
L’“undicesimo” comandamento del Decalogo: non vendicarti!
La vendetta, glaciale e barbara, cattiva maestra, figlia di un destino brutale che raccoglierà due anime tenendole separate.
Nessuna pietà per i polacchi in terra francese e per le francesi in terra polacca, salvo ribadire che “Oggi si può comprare tutto”, anafora martellante dei nostri tempi. D’altronde, si può ottenere qualsiasi cosa, anche un cadavere proveniente dall’estero.
È bastante avere denaro. Non è arduo realizzare profitti se non ci si pone eccessivi vincoli morali e la “forza” sgorga da un connubio tra desiderio e dominio.
“Dov’è qui l’uguaglianza?”, domanda Karol, in avvio di pellicola, al giudice che sembra non dare ascolto ai suoi argomenti, formulati nel francese faticoso caratteristico di un immigrato polacco. Ecco la lingua come limite e muro di sbarramento anziché strumento auspicabile di dialogo e condivisione (ricordo che la nostra Costituzione, a differenza di quella francese, tutela le minorità linguistiche).
L’immagine concretamente rivelatrice della sventura che si abbatte su Karol è nel suo sguardo ingenuo e fatato, assorto a contemplare il volo libero dei piccioni sulla gradinata del Palazzo di Giustizia, che si incrina mentre gli escrementi dei volatili cadono sul suo soprabito.
La legge è dis-eguale per tutti. Kieślowski stesso ammonisce:
“Anche se ci si può liberare degli oggetti amati, delle persone, dei paesaggi familiari, è estremamente arduo liberarsi dei legami imposti dal denaro, dai sentimenti, dalle ambizioni, dai ricordi del passato; tutte queste trappole minacciano la libertà individuale già così fragile. In teoria, a parole, tutti siamo uguali, ma di fatto nella vita tutti vogliono essere superiori agli altri”.
Quella descritta e imbastita nel film, insomma, è una sorta di cogente teleologia sul piano esistenziale condotta attraverso la ricerca febbrile di una riguadagnata parità. E questo, come detto, complice il debordante potere del denaro.
Se la virilità del protagonista è messa in discussione sulla scorta della sua stessa impotenza a consumare l’atto sessuale nell’intimità condivisa del matrimonio, la via per recuperarla passa attraverso l’impresa personale, cioè un elemento canonicamente e squisitamente individualista (che così poco ha a che fare con la condivisione e con l’amore) nonché nodale in una società in cui la misura di un uomo è il suo successo, la sua aggressività incanalata nel solo modello ritenuto “accettabile” in un contesto civile che la sublima e vanta spezie libertarie piuttosto che diritti reali e sostanziali (quello dell’uguaglianza, vero miraggio nel deserto del capitalismo, è solo uno di essi): è la scalata al potere economico e sociale, l’avere piuttosto che l’essere; o meglio la “salute” dell’essere determinata solo dall’ampiezza dell’avere.
A ben vedere, l’elemento identitario d’origine del protagonista passa in subordine ed è come un fattore di secondo grado rispetto alla sua ascesa economica e a un riscatto che si fonda su imprese al limite della truffa: egli sembra divenire una sorta di callido Čičikov postmoderno che fa leva, in questo caso, su una classe contadina rozza e ingenua, per ottenere niente altro che guadagno economico e l’abbrivio di fatto della sua ascesa sociale.
Il denaro può perfino comperare un cadavere, come accennato, allo scopo di inscenare un rito funebre posticcio (ne Le anime morte il meccanismo era analogo anche se “seriale”) e tale da inverare il beffardo paradosso, per Karol, di poter assistere, non veduto, al proprio funerale, suggendo come miele dall’arnia della vendetta, in una sorta di voyeurismo narcisistico, il pianto di Dominique. La macchinazione di Karol ai danni dell’ex moglie è fredda e luciferina, non è frutto di impulso, è piuttosto la mediazione precisa e raffreddata dell’impulso captativo che le fa da anticamera: improntata a una programmazione lucida e minuta per conseguire una sfera di influenza e potere soggiogatore su Dominique.
L’apparente crudeltà dell’ex moglie diviene il vero motore immobile di tutto il futuro agito di Karol; e l’amore prende la piega di un’arena di bassezze, un Agone in cui si lotta per il diritto di possesso e di statuto di dominio sull’altro: la protagonista ha in mano, mente e cuore, il marito, che, indifeso e disorientato, non riesce ad accettare la di lei drastica scelta di separazione; e tutto si rovescia nel finale con un simmetrico gioco delle parti: Karol ha in pugno Dominique e può dettarne un destino amaro.
In ultima analisi questa commedia nera, a tratti sbilanciata ma capace di inventiva e profondità, vuole ragionare sul tema della parità come obiettivo auspicabile e conseguibile piuttosto che come corpo di leggi e regole che la tutelino; ma anche tale, soventemente, da passare attraverso la natura fantasmatica di una morale (perduta) del limite e della misura. Smisurata è la vendetta di Karol, così come smisurata pare la fredda crudeltà di Dominique nella prima parte della pellicola. Al centro una sorta di contesa all’ultimo colpo di castrazione. Ma il soggetto di Film Bianco, a ben vedere, consiste anche di un’amara riflessione su due mondi geopoliticamente e economicamente diversi: un Est che sconta sottosviluppo e un Occidente che ne vanta uno ipertrofico e pervasivo su ogni sfera della vita.
Karol finisce per scimmiottare un mondo non suo, s’inventa artefice della propria vita attraverso un modello sostanzialmente anomico dal punto di vista morale. Il senso di responsabilità è uno spettro che sembra non incarnarsi mai nella realtà del film, e se significa soprattutto rispondere di sé e delle proprie azioni (come in tanto Personalismo francese) in questa società si può comprare anche il lusso di vedere avvallata la condotta inversa. Se all’inizio del film il protagonista appare un ometto indifeso e vessato, la sua trasformazione, incubata in anni di improvvisata e rocambolesca impresa, non lo conduce a un vero modello di parità e giustizia, di auspicabile comprensione verso l’altro e condivisione profonda (quella che era mancata in principio a Dominique) ma a una squallida rivalsa che ha del puerile.
Egli interiorizza il demone del risentimento, agisce per negare chi lo ha negato, piuttosto che per affermare (un amore davvero oblativo?), e arriva di fatto a negare la sua stessa, pura e sorgiva passione per Dominique (ben incarnata dal busto di gesso che egli venera come una sorta di icona pagana) sottraendo con l’inganno, anche qui l’esca è il denaro, il bene più prezioso di lei: la propria libertà. L’amore alimenta la vendetta e la vendetta prevale sull’amore. Il bianco sembra simboleggiare anche la purezza, e la purezza è forse la prima vittima in questa storia che appare come una folie à doix, in cui il delirio di supremazia sull’altro, di Dominique, si trasferisce in Karol che fa del suo rovescio una ragione di vita. Il delirio dei due è simmetrico rispetto alla violenza e sete di dominio di una società alla deriva (che rimuove ogni sopruso e delitto ma non senza nevrosi), di una sfera del desiderio dominata dal denaro e da sentimenti spuri.
Massimo Triolo e Giusy Capone