La recensione che ha cambiato la vita di Jack Kerouac. Ovvero, sul fattore cu*o nella storia della letteratura e sull’inutilità, oggi, delle pagine culturali (meditate gente e reagite con genio!)
Certo, ci vuole cu*o. Ma ci vuole anche un certo culto per il nuovo, una certa fame, un desiderio. Ci vuole anche, diciamolo, ‘il contesto’, ecco, parola terribilmente seria.
*
Sul “Washington Post” Ronald K.L. Collins racconta una bella storia, che fa così: “Quella recensione acccidentale che rese Jack Kerouac famoso”. Lo sketch è brillante, come l’incipit, da giornalismo narrativo: “Inizi di settembre, 1957. Jack Kerouac realizza il sogno di ogni scrittore. È mezzanotte, lui e la sua ragazza, Joyce Glassman, lasciano l’appartamento di New York City, quell’alto edificio in pietra arenaria, si fermano a un’edicola sulla 66ma, vicino a Broadway. Il tizio taglia lo spago che tiene insieme la pila dei giornali, è l’edizione mattutina del ‘New York Times’. I due aspettano. Prendono il giornale, lo sfogliano. Kerouac legge la recensione del suo libro, On the Road. ‘Bastò il primo paragrafo… aveva le vertigini’, ricorda la Glassman”.
*
Prima frase di quella fatale recensione: “On the Road è il secondo romanzo di Jack Kerouac, la sua pubblicazione è un’occasione storica per capire l’epoca attraverso un’autentica opera d’arte”. Secondo paragrafo: “Questo libro richiede esegesi e studio del contesto. Certamente, questo libro sarà condannato o maledetto dai critici ‘ufficiali’ e dai critici dell’avanguardia, oppure trattato superficialmente come opera ‘intrigante’ e ‘picaresca’ o con altri aggettivi di dozzinale banalità. In realtà, On the Road è l’espressione più alta ed eloquente di ciò che qualche anno fa è stata chiamata generazione ‘Beat’”.
*
Ronald K.L. Collins, a cinquant’anni dalla morte di Kerouac, è piuttosto perentorio: “Senza quella recensione, Kerouac sarebbe rimasto uno scrittore minore e la Beat Generation non sarebbe fiorita affatto. D’altronde, sette anni prima, il primo libro di Kerouac, The Town and the City, non aveva attratto che modeste recensioni, incapaci di spingerlo alla fama”.
*
Il retroscena che ha portato a quella recensione – ergo: il cu*o – è divertente. Millstein “era il recensore giusto al momento giusto: conosceva la cultura bohémiennes degli anni Cinquanta nata intorno al Greenwich Village e aveva già recensito il romanzo d’avanguardia del 1952, Go, di John Clellon Holmes, oggi ritenuto il primo romanzo ‘Beat’”. Soltanto che… Il caporedattore cultura del ‘Times’, Orville Prescott, è in vacanza e On the Road giace muto sulla scrivania di Charles Poore. Poore non voleva occuparsi del libro, disprezzava la controcultura, allora lo passa a Millstein, l’unico collaboratore disponibile. Millstein scrive. La recensione è fiammante. Poore manda il pezzo a Prescott, che si incazza. “Odiava quel libro, quel movimento, gli pareva che la recensione fosse eccessiva”, ricorda Millstein. Alla fine, non c’è molta roba per quel numero del ‘Times’ e scelgono comunque di pubblicare la recensione. Paradosso: l’esplosione critica di Kerouac, la sua consacrazione, sancì la fine del rapporto tra Millstein e il “New York Times”. “Fu la mia ultima recensione nella mitica sezione del ‘Books of the Times’. Amen”.
*
“Kerouac e la Beat Generation non hanno beneficiato soltanto dei ritmi culturali del tempo, ma anche della recensione di Millstein: era eccezionalmente pensata e scritta in modo superbo, elegante, profonda, consapevole”. In effetti, alcuni cliché critici sono intercettati immediatamente. Ad esempio questo: “Come, più di ogni altro romanzo degli anni Venti, Fiesta è diventato il testamento della Lost Generation, è certo che On the Road diventerà l’emblema della Beat Generation. Per altro, non c’è alcuna somiglianza tra i due: formalmente e filosoficamente, Hemingway e Kerouac sono divisi, almeno, da una depressione e da una guerra mondiale”. Millstein riconosce i caratteri ‘formali’ della scrittura di Kerouac: il jazz, l’etica Zen, lo stile oceanico e involuto di Thomas Wolfe. “La ‘Beat Generation’ è nata disillusa: dà per scontata l’imminenza della guerra, l’inutilità della politica, l’ostilità del sistema sociale. Non è impressionata dal benessere, non sa in quale antro rifugiarsi, è in ricerca”. Millstein intercetta il cuore del romanzo in questa frase di Sal Paradise: “Le sole persone, per me, sono i matti, i pazzi per la vita, i pazzi che vogliono la salvezza, quelli che vogliono tutto in un istante, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai cose banali, ma che bruciano, bruciano, bruciano, come favolose, gialle, candele romane”.
*
In climax vertiginoso – ultimo capoverso: “Ci sono sezioni di On the Road dove la scrittura è di una bellezza mozzafiato… Ci sono dettagli memorabili, teneri, divertenti. Ci sono alcune considerazioni sul jazz che non anno eguali nella narrativa americana, per intuizione, stile, virtuosismo tecnico. Insomma, On the Road è un capolavoro” – la recensione proiettò Kerouac nell’empireo. Ne parlarono tutti. Oggi, una intervista sul ‘Corrierone’, spalmata su due pagine, sposta forse una decina di copie e chi se la ricorda più, domani, se non ci sei tu, aureo intervistato, a incorniciarla sotto vetro?
*
È la stessa riflessione di Collins: oggi una ragionata riflessione sui ‘giornaloni’ è sconfitta da un cinguettio sui social, che è sommersa da altri migliaia di latrati. “Per gli scrittori che sperano di esplodere e di brillare di una luce simile, nel groviglio caotico dei nostri media, oggi è più difficile che ieri. Tutto è possibile, ma è necessario un raro allineamento del destino e della creatività, un Kerouac, un Millstein…”. Insomma, ci vuole cu*o. (d.b.)
*In copertina: Jack Kerouac a Milano, 1966, photo Massimo Vitali