Gli anni Sessanta furono quelli della consacrazione. Era donna, matura, tosta. Texana, cattolica, tentò la via del cinema, trovò quella della scrittura; passò dal Greenwich Village al Messico. Fu la prima a esaltare il talento di Diego Rivera, era amata da Hart Crane, impalmò – per dirvi del carattere – quattro uomini. Il primo lo aveva sposato a 16 anni; divorziò da tutti, l’ultimo – di vent’anni più giovane, l’aveva conosciuto a casa del suo amico Allen Tate – lo fece fuori nel 1942.
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Nel 1965, con The Collected Stories, Katherine Anne Porter ottiene il Pulitzer e il National Book Award. La consacrazione, appunto, è sottolineata da tre candidature al Nobel per la letteratura per tre anni consecutivi, dal 1964 al 1966. Gli soffiarono l’ambito alloro Sartre (1964), Michail Solochov (1965), il duo Agnon/Nelly Sachs (1966). Da un suo romanzo, ancora nel 1965, Stanley Kramer trae il film, La nave dei folli, con Vivien Leigh e Simone Signoret: due Oscar (tra cui uno alla fotografia di Ernest Laszlo) su otto nomination. Katherine Anne Porter è nata nel 1890, è vissuta a lungo, si è involata verso i pascoli celesti da Silver Spring, nel Maryland, era il settembre del 1980. Due date tonde passate in cavalleria: in Italia la Porter è poco nota, Bompiani nel 2018 ha pubblicato Lo specchio incrinato.
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Ora. Uno dei racconti più importanti di Katherine, raccolto nelle Collected Stories, s’intitola Pale Horse, Pale Rider. Edito in origine nel 1939, tradotto da Einaudi nel 1946 – per mano di Lidia Storoni Mazzolani – e recuperato da La Tartaruga nel 2009, è tornato in auge negli Usa perché narra la pandemia. I fatti, fittizi, traggono spunto dall’esplosione influenzale del 1918: la Porter lavorava a Denver per il “Rocky Mountain News”, piglia la ‘spagnola’, è ricoverata in ospedale, rischia la morte. “La storia, pubblica vent’anni dopo la malattia, mostra con devastante sottigliezza l’orrore di tornare a una vita priva di rapporti umani, priva di comunità”, scrive sulla “Los Angeles Review of Books” Melanie Benson Taylor, in un pezzo dal titolo esplicito: Katherine Anne Porter’s Pandemic. Secondo Robert Penn Warren (uno degno di fede), “Pale Horse, Pale Rider è uno dei libri più importanti, è uno dei vertici nell’ambito della narrazione breve”.
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Katherine Anne Porter si rivede in Miranda Gay, giornalista, pragmatica, appassionata, che ha una fugace storia d’amore con un soldato. Lui si ammala di ‘spagnola’ e muore. “Non c’è distanza sociale nel romanzo: la coppia si tiene sfacciatamente per le mani, vanno a ballare. Le persone muoiono, funerali accadono ovunque ma ‘la malattia sembra un divertimento’”. Nel corpo gli amanti “trovano una nuova lingua”; il dramma, piuttosto, è vivere in un tempo in cui tutti parlano e scrivono incessantemente senza riuscire a dire nulla. “Siamo animali senza parole che si lasciano distruggere, perché? Qualcuno crede davvero alle cose che ci diciamo?”.
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Il problema, nel racconto, non è la distanza sociale, specie di “cavaliere pallido”, ma il fallimento delle relazioni umane. “Ogni passo che facevano l’uno verso l’altro finiva irrimediabilmente per separarli”. Mentre il soldato, Adam, muore, Miranda è precipitata tra le braccia di un altro amante. Non è il virus a contagiare, non è la guerra; è l’uomo, la febbrile voglia di fuga, d’incardinarsi in un corpo altrui.
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“Alcuni prevedono che la quarantena produrrà tante gravidanze e altrettanti divorzi. ‘Le persone possono dormire nello stesso letto e essere socialmente distanti’, ha ricordato il reverendo Tony Lee, pastore di una chiesa del Maryland. Poi c’è chi vive da solo: l’industria dell’intrattenimento per adulti è stata una delle poche a godere di una crescita esponenziale (come la vendita di armi da fuoco e di munizioni)” (Melanie Benson Taylor).
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La Miranda di Katherine Anne Porter intende la sua vita da sopravvissuta come un “imbroglio intollerabile”. Così termina il libro. “Niente guerra, niente pestilenza, solo il silenzio stordito che segue un bombardamento; case silenziose, ombre immemori, strade vaghe, vuote, la fredda luce morta del domani. Ora che ci sarebbe tempo per tutto”. Che meraviglia. “Siamo, come i personaggi della Porter, animali senza parole che lottano per una compagnia, per il contatto nel pieno dell’apocalisse quotidiana”, è la morale della giornalista. Cani vagabondi che parlano senza dire, vogliono un morso, un abbraccio. Direi, più che altro, che Katherine Anne Porter, la sua scrittura carnale e limpida, dev’essere riportata sull’altare degli scrittori da leggere, nei piani quinquennali degli editori nostri.