Nata in una famiglia di proprietari terrieri, nei sobborghi di Dublino, il 23 gennaio del 1859, Katharine Tynan fu quella, dei dodici figli di Andrew Cullen e di Elizabeth O’Reilly, invitata a diventare suora. Fu spedita al Dominican Convent of St Catherine of Siena, a Drogheda, sessanta chilometri a nord di Dublino. Vi restò sei anni. Una grave ulcera agli occhi, da ragazzina, fu interpretata come un segno: Katharine, per un po’, pensò di darsi del tutto a Dio. La sua fede era solida, il viso un’anfora di cristallo – dalle implicazioni dello Spirito, passò all’ispirazione poetica. Dimostrò uno spiccato talento e il padre, ritornata a casa dopo la crisi religiosa, la incoraggiò a scrivere sulle riviste che predicavano la causa dell’Irlanda libera. In breve, Katharine Tynan diventò una ‘figlia’ dell’Irish Literary Revival, divulgato da John O’Leary e Douglas Hyde.
La sua prima raccolta, Louise de la Vallière and other poems (1885), scritta sotto l’ala lirica di Christina Rossetti, ebbe un successo per lei intrepido, immediato, giungendo quasi subito alla seconda edizione. Alcune lettere – raccolte dalla Oxford University Press – testimoniano la sua amicizia con Gerard Manley Hopkins: il grande poeta e gesuita era diventato professore di greco e latino all’University College di Dublino nel 1884. Lei sperava di trovare un maestro, che coniugasse in sposalizio le sue missioni, la poesia e la fede; a GMH non piaceva l’Irlanda, non capiva gli umani, la fece desistere; così scrive all’amico Robert Bridges:
“Domani saranno tre anni che sono in Irlanda. Tre anni faticosi, sprecati, desolanti. Certo, ho conosciuto Miss Tynan, quel bocciolo di donna. Dalla prima volta che mi ha visto ha detto di volermi avere come amico: non funzionerà. Dovrebbe vedere il mio cuore, i miei organi vitali: tutti irsuti, annodati, con i capelli bianchi”.
L’amicizia tra la Tynan e Hopkins è curiosa: nessun punto di contatto s’intravede tra le furibonde poesie di GMH, dove perfino l’estasi è eversione, estensione di grido in ambone, dove il sacro ha doppia dentatura verbale, rompe le righe della grammatica fino al sangue, e quelle di Katharine, imperniate su una devozione delicata, luce setacciata con teli bianchi, anche il fango ha serti angelici.
Nel giugno del 1885, Miss Tynan aveva conosciuto l’altra ombra della sua vita poetica, William Butler Yeats. Più giovane di lei di sei anni, iscritto – con scarso successo – a una scuola d’arte, Yeats era, come sempre, al cuore della contraddizione: aveva fondato la Dublin Hermetic Society, con l’intento di fondere il buddismo e lo studio dei Veda alla mistica moderna; aveva scoperto il nazionalismo irlandese professato da O’Leary, pubblicava i primi versi, d’impianto romantico, sulla “Dublin University Review”. Si può dire che l’esordio della Tynan coincida con quello di WBY: impressionato dalla sua poesia, Yeats le consigliò di misurare il proprio sostrato cattolico, il proprio status lirico, ai temi ‘irlandesi’. Miss Tynan obbedì: le sue Ballad & Lyrics (1891), pubblicate sulla scia dei Fairy and Folk Tales of the Irish Peasantry dell’amico, ottennero un certo seguito. Yeats ne fu entusiasta:
“Nessun poeta irlandese vivente si è reso conto, quanto Katharine Tynan, della necessità di studiare la tradizione ‘nativa’… la sua migliore ispirazione proviene dalla fede cattolica modulata sugli antichi simboli: poesia che è gioia e conforto per molti spiriti ardenti e devoti”.
Quando il poeta scrive questo paragrafo è il 1895: la Tynan ha pubblicato Miracle Plays; due anni prima si era sposata con Henry Albert Hunkson, avvocato e scrittore. Yeats non l’aveva presa bene. In Yeats l’ammirazione letteraria sfocia quasi sempre in quella carnale, come se fosse una necessità dovuta al verbo che incantato s’incarna. Nel 1891 pare abbia chiesto alla Tynan di sposarlo. Yeats opera sempre a modo suo: trasvolando i codici, sognando, rovesciando la negazione nella più pura delle affermazioni, dicendo nero per dire bianco. “Probabilmente non sarebbe consono per due grandi poeti come noi unirsi…”, avrebbe sussurrato. La Tynan – testimone la sorella, Nora – cominciò a strepitare: “Per l’amore del cielo, vai al diavolo!”. Probabilmente, era la seconda scelta. In quello stesso anno il poeta si rivela chiedendo a Maud Gonne di sposarlo; lei non lo vuole, recisamente: sarà la prima di una lunga serie di analoghe richieste.
In casa Yeats, ad ogni modo, Katharine Tynan era presenza consueta. Il padre di Yeats, John Butler, la ritrae più volte; l’epistolario tra la Tynan e il grande poeta irlandese – raccolto nel 1953 come Letters to Katharine Tynan – riferisce di un legame autentico, pur funestato dal rifiuto.
“Noi, insieme, io e te, siamo complici di un cambiamento, abbiamo importato in Irlanda la moda di una musica meno ingenua”.
Così le scrive Yeats nei giorni dell’estro – cambierà idea. In uno dei suoi testi autobiografici, Memoirs, Yeats parla della Tynan in questo modo, raccontando a modo suo la fatidica, grottesca proposta di matrimonio:
“Le scrissi molte lettere. Katharine Tynan era una donna semplice: un giorno ho sentito dire che era quel tipo di donna capace di precipitare nella più cupa infelicità per un uomo. Cominciai a domandarmi se fosse innamorata di me, se fosse mio dovere sposarla. A volte, quando lei era in Irlanda e io a Londra, mi pareva possibile; quando ci incontravamo, ecco che mi sembrava impossibile. Eppure, siamo sempre rimasti grandi amici”.
Si persero di vista, in verità; e la vita non fu facile per la Tynan. Il marito, magistrato a Claremorris, morì nel 1919. Le aveva dato tre figli; due finirono arruolati nella Grande Guerra. Assistette senza entusiasmo agli eventi della Easter 1916 magnificata da Yeats; aveva perso la mania nazionalista, a suo dire “l’affetto per l’Inghilterra e l’amore per l’Irlanda possono benissimo coesistere”. Non capiva il radicalismo, si trasferì a Wimbledon, dove morirà, tra radi affetti, nella tonsura della difficoltà, il 2 aprile del 1931.
Le necessità finanziarie la costrinsero a scrivere moltissimo, per lo più prosa, di non eccelsa qualità; alla Tynan si riferiscono un centinaio di romanzi, dai titoli spesso improbabili: White Ladies (1922), The Infatuation of Peter (1926), Lover of Women (1928), Philippa’s Lover (1931). Raccontò la propria vita in cinque libri autobiografici: uno di questi, Reminiscences (1913), è dedicato a Yeats. Nel 1907, per la Dum Emer Press, Yeats aveva fatto pubblicare Twenty one poems antologizzando lepoesie della Tynan che preferiva. Così, l’opera della sua amica sostava, in barile d’eternità, insieme a quella di Lady Gregory, di Douglas Hyde, della sua, tra i grandi pionieri della letteratura moderna irlandese. Nel 2006, Ken Loach trae ispirazione da una poesia della Tynan, The Wind That Shakes the Barley, per il titolo di uno dei suoi film più belli, vincitore della Palma d’oro a Cannes.
Rotta dai debiti, negli anni Venti era stata costretta a vendere alcune lettere di Yeats, l’uomo “astratto nei suoi pallidi sogni”. Il poeta preferì, pur con garbo, chiudere i rapporti. Lei continuò a ripetere, con ossessionata certezza, “la mia vita è nelle mie poesie”. L’antico segno – la cecità – era tornato: non vedeva nulla, non vedeva altro; anche la memoria, in fondo, è un difetto ottico.
***
Tutti i santi
Stridono i cancelli del cielo
questa sera, in molti, emozionati,
tornano a casa per la veglia
con un nuovo amore da svelare.
Dove mamma e papà siedono,
sulla soglia, è nube di foglie morte
come il ticchettio dei piccoli piedi
che più non tornano.
I loro pensieri sprofondano nella
notte – lacrime simili ad argilla:
chi li fissa sul portico
così giovane e felice?
Vengono dalla terra dei ragazzi:
non conoscono le virtù del pianto
né la consolazione che brilla sulla lingua
o i baci da tenere in conserva.
Si siedono, restano per un po’
recano conforto che non si nega;
al mattino se ne vanno furtivi:
sorridono, mentre si voltano, ancora.
*
Il vento che scuote l’orzo
Per tutto il giorno, una musica
ha ravvivato il mio cuore – viene
dai campi lontani:
è il vento che scuote l’orzo.
Sopra gli altipiani zuppi di rugiada
il cielo pende molle, perlaceo:
il mondo è di smeraldo e ascolta
il vento che scuote l’orzo.
Sopra la cresta blu della montagna
l’allodola canta di rado:
il canto va scovato perché ora
il vento scuote l’orzo.
D’estate, in primavera, ancora
mi chiama, all’alba, la sera:
torna a casa, torna a casa, mi intima
il vento che scuote l’orzo.
*
Il fiore della giovinezza
Perché il Paradiso non sia affollato dai canuti
Dio ha creato per Sua gioia i ragazzi:
si piega in un giorno di dolore e gloria
e li chiama a sé, dai meandri della notte.
Quando vanno in milizie per la guerra
i cieli si riempiono di nuove stelle…
Giovani che giovani resteranno per sempre.
Il figlio di Dio fu un ragazzo, un tempo:
corrono e saltano lungo il candore del fiume
la loro energia infonde nuova fede.
Dio ha reso i ragazzi fieri e buoni
per questo li fissa con gli occhi di un padre.
*
Primavera, in lentezza
Anno, cresci con lentezza. Delicati e sacri
i giorni passano
con i mandorli rivestiti di stelle rosa
e gli uccelli che fecondano l’alba.
Cresci, anno, ma lentamente, come il bimbo
che ci è caro, come il mite agnello,
a piccoli passi, a brevi salti
come l’agnello, come il bambino.
*
Ninfe
Dove siete ora, belle ragazze dei monti
che chiamavano Driadi?
Nulla è desto, tranne il gocciolio della fonte;
soltanto il tordo cuore felice
risponde alla vostra chiamata;
si agita nella macchia
ma l’orecchio della lepre, un tuono di rugiada,
dalla tana vi ascolta, desto.
*
Immortalità
Infine, mi sono inchinata per radicarmi
e i miei ragazzi, forti, sono nati;
non devi temere tomba e nebbia:
io sorvolo i secoli.
Sboccio come l’albero
graffio il cielo con rami barbari;
ogni anno rinnovo la mia veste:
le mie radici disarmano gli anni.
Riparo gli uccelli, a migliaia
migliaia di armenti mi lodano;
alla soglia della mia ombra pura
si riposa chi è stanco.
Nessuno strappo mi lacera:
in me è il bimbo che nasce
con occhi innocenti guarda
il mondo, si stabilisce nello stupore.
*
La donna
Io sono le colonne della casa:
la chiave di volta dell’arco, io sono.
Levami e il tetto e le mura
crolleranno per rovinarvi.
Sono il fuoco nel braciere
sono la luce buona del sole
sono il calore che ravviva la terra
che era più fredda della pietra.
Su di me i bimbi scaldano le mani
io sono la loro fiamma d’amor vivo.
Senza di me, il focolare tornerà roccia
e i bambini non potrebbero prosperare.
Sono la spirale che insieme
tiene i figli in un sacro anello;
nodo d’amore, sigillo che non
smarrisce alcun bambino.
Sono la casa dal pavimento al soffitto
decoro i muri, tovaglia sul tavolo;
faccio danzare le tende, sono
l’ordito e la trama, il letto infinito.
Sono lo scudo che protegge dal pericolo
cancello che ripara dalla neve
Tu che hai visto la donna
nella mangiatoia non pretendermi
prima che i miei figli siano grandi.
*
I colori della guerra
Guardali: marciano così allegri!
Guance lisce, viso dorato, cibo adatto per proiettili e fucili.
Allegri marciano, come se dovessero sposarsi
i figli delle madri.
Il sentiero è squallido mentre li fissa, in fila:
viaggiano su vasti camion, cantano come allodole:
sbadataggine della gioia che ammutolisce il coraggio
vanno, cantano, verso l’oscurità.
Con fischietti di latta e armoniche: ogni rumore
esplode dalla strada, verso la gloria e la tomba;
avventati e ragazzi, allegri e d’oro aureolati
l’amore non può salvarli.
In alto i cuori! Arditi in resta! Le povere ragazze
che li hanno baciati non li baceranno mai più.
Escono dalla nebbia per ritornare nella nebbia
e continuano il canto.
Katharine Tynan